venerdì 22 novembre 2013

Il mestruo





Il vino nero ardeva nella coppa finemente cesellata come un fuoco funebre dei tempi antichi, evocando con rari aromi d’oriente pensieri scultorei e vaneggianti.

 Sorso dopo sorso il tepore alle gote suggeriva sonni di giustezza, e prometteva un chiaro mattino ovunque avvenisse il risveglio. Non che in una bettola qualsiasi si possa aspirare a cambiare il mondo, specie se in tal luogo si gozzoviglia con distillati di tuberi, ma, sapete, anche immaginarsi nel bicchiere, anziché una brodaglia opaca e appiccicosa, più simile al fango fossile che vomita la terra che a un qualsiasi vino, appunto, immaginarvi il succo prelibato di una rara vendemmia d’oriente, bè, era pur meglio che guardare in faccia la realtà.
- Solo il pazzo fugge dal paradiso, e io ho perso tutto, tutto! Poveretto me, che povero - Berciava un avvinazzato che lamentava il suo aver perso tutto, senza per altro aver mai davvero avuto qualcosa.
- Lo dici a me, io ero un Re, e per tutti i diavoli, avevo ai miei piedi una mandria di regine! – Gli faceva eco un losco beone dallo sguardo vitreo e il naso gonfio per il distillato di rapa che trangugiava come manna celeste, evidentemente ignaro che certo le regine non si muovono in branchi.
 E poi un’altra pioggia di vaniloqui e bestemmie urlate ai lumi sulle pareti, ammiccamenti di puttane e, in sottofondo, come a ricordare tra i fumi alcolici che fuori ad aspettare c’era la nera vita di sempre, un cane abbaiava a non si sa cosa, ad evocare ai mistici derelitti che da qualche parte una grossa cagata attendeva i loro passi incerti nel tornare a casa.
 A questo squallore serale, piuttosto comune in ogni locanda da qui all’orizzonte, si aggiungevano poi i roboanti tuoni che agitavano i cieli a breve distanza, minacciando una pioggia tutt’altro che gradita, giusto per dare alla marmaglia avvelenata ulteriore motivo per dannarsi e maledire l’umanità intera. Nel mentre di una profonda riflessione del taverniere, che con fare affettato illustrava ai suoi astanti il modo esatto con cui bisogna usare il braccio per far abortire un cavallo, e tra un gorgoglio di risa molto prossime alla pazzia e un coro scompagnato dove ogni voce cantava una canzone diversa, ma tutte ugualmente sconce, nell’aria appestata da effluvi acidi si fece largo, entrando lentamente e in punta di piedi dal lurido ingresso, un uomo alto e deciso, come non se ne vedevano dai tempi in cui la cittadina era giovane, e i suoi abitanti non ancora resi tetri e gobbi dal vizio. 
-Non lo sapevi.. non lo sapevi tu….lo sapevi? – così un villico ormai quasi cieco per l’alcol che aveva in corpo, evidentemente intento a demolire definitivamente la lingua dei suoi padri, cercava di comunicare qualcosa al suo compagno di bevute.
 Questo stesso, reso temerario dal suo bere, notò per primo lo straniero, e in un unico pensiero, che il suo cervello emise allo stesso modo in cui una donna decide di partorire i suoi dieci figli tutti insieme, si alzò, decise cosa dire, e barcollando si diresse verso l’ingresso, giunto davanti al quale aveva già dimenticato chi fosse, così che il cervello abortito il parto d’intenzioni aveva più modestamente ripiegato per uno sputo e uno schiaffo, cosa che, a seguire la scena, fu messa in atto come il più plateale gesto di benvenuto. E se nella vita si è eternamente traditi da coloro in cui confidiamo, così l’alcolizzato vive la sua personalissima esistenza confidando nel vino, e da questo viene tradito a ogni brezza che muove le foglie. E proprio così fu tradito il villico, che muovendosi come una barca lungo delle rapide scoscese, saltellava di qua e di la, e, povero Sick – tale era il suo nome – finì per sputarsi addosso e dare uno scappellotto a una sedia, tutto per ruzzolare dabbasso le scalette della cantina e fissare dal pavimento lo straniero che aveva assistito impassibile alla sua danza alcolica.

 - Amico, se volevi invitarmi a ballare potevi risparmiarti il corteggiamento – parlò tra i denti lo straniero, accigliandosi vistosamente, e alle presenti parole l’intera casa matta esplose in un fragore di risate e imprecazioni degno della presenza di qualche grande puttana venuta dalla città.

 Con una siffatta entrata, valsa evidentemente come presentazione generale, pensò bene di mettersi sotto braccio il sempre più confuso Sick, e di sistemarsi comodamente al banco per ordinare qualcosa. Naturalmente offrendo da bere al suo nuovo amico. 
- Ebbene, lurido cane da bevuta, avevi proprio in mente una bella accoglienza, che il diavolo di trascini dentro un sacco! – e detto questo lo straniero tracannò la sua coppa di birra scura e si pulì la bocca col palmo della mano, per poi continuare – ma vedi, muso di cane, quant’è vero che mi chiamo Boccabuona sono venuto qui per la vostra specialità, non so se hai inteso - E probabilmente, nel dire questo, forse perché ansioso di spiegarsi, ignorò che Sick era sì in grado di continuare a bere, ma certo non di intendere parola, né tantomeno emetterla. Infatti, accennato un rutto mortogli sulle labbra violacee, si accasciò come un albero dopo un incendio, e per quella sera non fece altri danni.
 - Insomma! che la dannazione vi colga tutti! – urlò alla locanda Boccabuona – è così che accogliete un ospite in questa città dimenticata dal cielo?! Oste, una camera e una donna! E che sia mestruata, mi piace bere qualcosa prima di dormire!
Tutti sogghignarono.
 - Ah, lo straniero conosce la nostra specialità! – presero a dire. E poi tutto successe in breve tempo. Dalle scale venne giù una fiumara di sangue, un vero torrente, che alle lampade prendeva riflessi color bronzo e verde scuro. E nell’umido appiccicaticcio degli scalini gocciolanti venne a scendere un’affascinante figura, sebbene all’apparenza alterata, che con voce roboante si eresse alla stanza dicendo: - Stupido uomo, non vedi che sono mestruata?! Sbrigati e porta una coppa! - Era Wanda la puttana, e lo straniero, Boccabuona, per la prima volta quella sera, leccandosi le labbra, sorrise.

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