venerdì 27 marzo 2015

Il suicidio a portata di mano




Ora, guardando indietro con la mente, non mi pare di essere mai stato sul punto di compiere quell'ultimo e immenso atto, quello slancio immobile verso la scomparsa, che è il suicidio.
Allo stesso modo, però, mi sembra di non aver mai pensato ad altro sin dal momento in cui, osservatore improvvisato, mi misi in giovane età a fare tutto l'opposto, ossia a guardarmi avanti.
E lì, all'orlo estremo delle cose, non ho mai visto la lenta decadenza di una malattia né uno strappo deciso per cause naturali o esterne: vi è sempre stato il suicidio, un suicido, il mio.
Notatolo all'ultimo orizzonte del me da allora se n'è stato a spiarmi vedendomi precipitare verso di lui in questo burrone che è il tempo. Né triste né divertito: muto di orrore, specchio della mia caduta.

Questa mia propensione all'autodistruzione non mi ha mai abbandonato, e sebbene vivesse in me sotto forma di consapevolezza antica, affidatami in sorte alla nascita, ebbe modo di crearsi un suo estetismo solo durante l'adolescenza. Aspettò dunque di trovarmi da solo contro il mondo.
Sempre lì, luttuosamente a portata di mano, mi faceva compagnia nelle notti paralizzate dal disgusto sotto forma di trauma-ossessione.
Vivevo allora, ma sarebbe più giusto dire che me ne stavo, in una logora soffitta diroccata da cui si poteva osservare un antico torrione. Tipico dei borghi antichi in cui tutto ciò si trovava le case erano unite tra loro in un unico immenso tetto fatto di alti e bassi, una specie di pianoforte geologico suonato dalle invisibili mani dei secoli, e perciò, mi dicevo, sarà una passeggiata da gatto, un funambolico saltellare a portarmi su quel torrione.
Non si trattava di un desiderio incombente bensì era semplicemente l'infernale programma che avevo accettato di compiere, prima o poi, in mancanza d'altro. 
Il pensiero, devo dire, era ossessivo senza il peso del tormento, vi pensavo come si pensa la più banale delle cose e con altrettanta leggerezza lo riponevo nello scrigno cerebrale da cui tanti orrori andavano e venivano stanchi di tutto.
Puntuale come un dolore sordo ne usciva fuori pago di se stesso insinuandosi nelle mie pigrizie dilanianti, ma senza invadenza, un promemoria vertiginoso, cupo gong abissale il cui rimbombo mi assediava in quieta attesa.

Era invero una sicurezza come nessuna altra cosa lo è stata, e in quel vedermi precipitare nella strada, nel guardarmi spiaccicato all'inizio della decomposizione, subito abdicavo a quello spettacolo tirandomi indietro con un balzo, per rivedere quella stessa scena pochi attimi dopo, diversa eppure sempre uguale, lugubre filmato amatoriale della mia mente che si vede precipitare ancora e poi ancora.
Quante volte sono caduto da quella torre, così tante che mi ha infranto.
Abbandonato quel luogo, venuta meno la possibilità di un suicidio così a buon mercato, non ho più avuto le idee chiare su come farlo. Ma la fine è ancora laggiù e non ha volto lo sguardo.
Lei, demone pazzo, miserevole come me che gli sto davanti e accanto, mi dice che non sarà l'accasciamento rancoroso di una lunga malattia o la folgorante distruzione di un attimo: sarà il suicido, l'unico atto di irreparabilità che mi è dato compiere contro la vita, istante pregiato che mi riservo per ultimo.
Appuntamento a cui si arriva sempre in ritardo.