domenica 30 novembre 2014

Le notti più lunghe dell'anno




Non ho mai capito come faccia la gente a mangiare il panettone. Se c'è una cosa orribile, immangiabile, è proprio il panettone.
Hanno tutti lo stesso sapore di industria e di operaio industriale, con le loro scatole piene di pretese che si risolvono in un biascicare esausto a fine pasto.
Il panettone è un oggetto volgare. Il panettone è un atto di violenza che ci lanciano addosso, delle bombe allo zucchero che esplodono al rallentatore.
Ma la gente continua a comprarli. La gente compra e si mangia di tutto. Il panettone, lo stato, la chiesa e la televisione. La gente ha stomaci formidabili che digeriscono ogni cosa.

Eppure, nonostante le innumerevoli offese che qualsiasi mente vagamente funzionante riceve durante il cosiddetto periodo delle festività invernali, qualcosa di buono c'è.
Spazzata via la mitologia del deserto, i gesù bambini e l'essere tutti più buoni, tirata la catena su tutto questo assurdo ammasso di stronzate, resta l'antica via, la radice che non muore.
Sono le notti più lunghe dell'anno, e che tuttavia proprio  in quel periodo vanno accorciandosi.
È una lunga tenebra densa di stelle, ed effettivamente anche il clima è adatto alla meditazione.
Il freddo, la neve, ci costringono a un'intimità ragionata. I ricordi dei doni ricevuti negli inverni passati ci consolano e ci inteneriscono.
La fine di dicembre è un assedio: da una parte i ricordi, dall'altra le lunghe notti. Laggiù, in lontananza, si vede la primavera che arriva a spezzare le linee nemiche. La si avverte nel sole che si fa sempre più audace, nel lento risveglio dal torpore.
Insomma, non tutto è da buttare.
Anche se dopo anni di campagne pubblicitarie, film americani e consumismo da tavola, è forse possibile vedere nel periodo delle "feste" un agglomerato di imbecillità. E ormai per lo più è così.

La nostra civiltà, si sa, è basata sul consumo, per cui tutto diviene occasione per perdersi in acquisti effimeri e in spese inutili. Si potrebbe quasi dire, tornando al discorso di prima, che la nostra è una società basata sulla stupidità. Più la gente è stupida e facilona e più il nostro sistema economico ne guadagna.
Ora, che il logoro e raffreddato cristianesimo si sia venduto anche le mutande davanti al consumismo per continuare a persistere nella mente unica della massa, non sorprende né dispiace.
È chiaro che per sopravvivere alla contemporaneità e preservare la propria mente si debba fuggire il più lontano possibile da quanto ci è stato insegnato, da quello che ci dicono e vogliono che facciamo.
Via da tutto. Ma non dalle feste invernali. Perché esse ci sono sacre e necessarie.
Comunque lo si veda è un periodo magico, dove la bellezza della natura morta ma in via di resurrezione si incontra con la nostra infanzia interiore, dove l'uomo abituato a camminare nell'oscurità ricorda il bambino circondato da luci. E tutto rivive, e per noi e per il mondo che ci sta intorno.
Offendere un così intenso dramma spirituale è un torto che non può essere tollerato. Essere circondati da zombie che fanno presepi e mangiano panettoni pubblicizzati da verginelle cantilenanti è umiliante.
Anzi, rompe proprio il cazzo.

Per questo vorrei passare gli ultimi giorni dell'anno da solo, davanti a un camino acceso.
Osservando il mondo, ma non quello finto che spacciano per realtà, ma quello vero, fatto da notte e giorno, pioggia e sole, bosco e tramonto.
La spiritualità è troppo importante. Non tutto è perduto ma molto è stato rovinato.

sabato 22 novembre 2014

Quella volta che la Wehrmacht passò davanti casa



Bombardieri nazicomunisti cercano te

Ci sono esperienze che somigliano a un sogno leggero da quasi svegli, nebbiose e terse come un miraggio; indefinibili, eppure definite nei loro contorni che sono quelli dell'orizzonte.
Sono, queste, personali, ma uguali per tutti; diverse ma ugualmente meravigliose; e insondabili; irripetibili ma continue; evocative ma, in un certo senso, banali. Che quella goccia esondante di follia ce la mettiamo noi, cogliendola da chissà dove.
Sono, queste, un viaggio in macchina la mattina presto, col mondo ancora sommerso nell'oceano della notte; e il confine tra stelle e sole disputato, coi fanti chiari in marcia dal mattino e le fortezze abissali a resistere nel cielo. Cogli odori della strada distesa sempre sullo stesso verso, che per la luce di quello scontro non sembra ferma, ma pare venirti incontro da non si sa dove, così che ci si chiede: vado io o il mondo mi viene addosso?
Sono, poi, l'arrivo dell'inverno, e una strana leggerezza che tonifica nel primo freddo. L'aria gelata ha una sua consistenza di mura fortificate, e di fossato; divide le strade in corsie glaciali, e ognuno segue la sua, separato. Unica umanità quel gocciolio del naso, e il passo svelto, un poco agitato. Che d'inverno non si passeggia ma si fugge da un luogo caldo all'altro, esuli ermetici senza rimpianto.
Sono, naturalmente, quel momento mistico in cui penetri, seppure per un momento solo, per un attimo, la realtà e la sua danza disperata, dove ci si accartoccia in pianto per rinascere subito dopo, come se niente fosse stato.
E poi il sovvenire di un dolore, di una febbre o una fitta, la prima lenta la seconda deflagrante: ma entrambe avvertibili come si avverte un odore. E nel venire danno il piacere che dà uno strappo con la realtà, per aiutarci a sopportarle. E in generale chiunque poi stia male.
Ma dove vive chi sta male? dev'esserci, sì, un luogo del dolore senza ritorno, una geometria buia della mente; come un viaggio in macchina ma di notte, e senza una vera strada, che la morte non porta a nulla né ci dà la sensazione di venire da chissà dove. Solo si muore.
E altre cose ancora, tutte più o meno banali ma eterne, tutte distanti e vicine, normali ma strane.

Ci si ricorda di questi attimi come si ricorda un viso scorto da bambini, hanno nella memoria contorni vaghi che sfumano nel dubbio. È mai accaduta questa cosa o era solo sonno?
È accaduta o sono solo inciampato in un sogno?


Eppure ricordo nitidamente che ero in vacanza sulle Alpi, e che ero bambino. Su tutto una ambrata luce preistorica gravava sulle cose.
I miei genitori erano forse in qualche campo mentre  miei nonni si attardavano in sala da pranzo.
Che cos'è un dolore? è la sensazione di ricordare qualcosa che non è mai accaduto?
Un buco nero dai contorni di ruggine nella mente. Un tubo nella terra verso cui si scivola per rimanervi intrappolati, immobili, e poi si urla il dolore?
Ero in terrazzo anch'io, e poi nel bosco.
Ricordo che non mi ero mai trovato così chiaramente davanti alla vita e alle sue infinite espressioni. Ricordo che ero nel bosco con gli abitanti del bosco.
C'erano insetti dalle combinazioni di colori mai viste, api pelose e goffe e farfalline rosse coi puntini neri; c'erano strani sentieri senza nome, dove funghi mostruosi aduggiati al sole creavano ombre umide di mistero.
Correvo dal terrazzo al bosco, mi perdevo. Ero lì con i miei nonni ad annusare l'odore di legna bruciata che hanno le cucine alpine, la severità dei loro contorni spogli di tutto eppure perfetti.
La Wehrmacht passava lungo la strada e poteva essere vista dal terrazzo e dal bosco.
Lunghe file di soldati stanchi e curvi tornavano alle pianure del nord circondati da un grigiore stanco di tutto.
Sui loro volti c'era la fine del mondo, nelle esauste risate l'inferno. Si infilavano laggiù, nella curva che sta tra il passo e il bosco, la curva che dà direttamente sulle stelle e gli spazi intergalattici.
Senza esitazione vi saltavano dentro sparendo da questo universo.
Ricordo poi che andai più vicino alla strada per chiedere che mi lasciassero qualcosa. Mio nonno non voleva. Mio nonno sedeva davanti alla televisione e aveva un coglione che usciva dai pantaloncini corti. Penso che non potesse vederli. Vedeva solo la televisione.
La ritirata della Wehrmacht in quel pomeriggio d'agosto era una di quelle cose che potevo vedere solo io, come alcune creature della notte e del bosco.
Da cosa fuggono, mi chiesi.
Un soldato tra i tanti colse la domanda che avevo dipinta in viso: - Dai russi - mi disse.
- Ma come, qui, nel nord italia?
- I russi sono ovunque. Esistono solo due cose, noi che ci ritiriamo verso le stelle e i russi che ci spingono nel vuoto.
In lontananza si sentivano bordate pazzesche e Berlino che crollava sotto una tempesta d'acciaio.
Lì a presso, a dar manate al vento, c'era Goering. Si ritirava verso le stelle e l'infinito pure lui, col suo faccione piombato e gli occhi da lince assonnata, e quel che restava dei fanti gli andava dietro.
Non volle darmi la sua croce di ferro ma mi lasciò un fucile, un fucile con l'elastico.
Ci mettevi una pietrina sopra e l'elastico la lanciava via.
Poi se ne andò senza dire nulla con le altre ombre verso l'ultimo nero.
"Addio Wehrmacht!" gridai al vento
E il vento mi rise dietro.
"Addio Wehrmacht!" gridai, e col fucile di Goering lanciai un sasso al vento.
Rotolò sul selciato e quando fu fermo la strada era deserta. Si sentiva solo la televisione accesa e mio nonno che chiedeva cosa c'era per cena.
E seppi che ero rimasto solo.

Ci sono esperienze che somigliano a un sonno leggero nel dormiveglia tra questo e un altro universo, sono luoghi in cui ci si rifugia e si è protetti. Come in un bosco fatto solo di luci e ombre, dove fioriscono i ricordi e la bellezza cresce alta sino al cielo.

Andiamo?






lunedì 3 novembre 2014

Il racconto sbiadito




Ti racconto, simpatico lettore, di come la vita sia tutta una pazzia, e saltando da un cerchio di fuoco all'altro si finisca sempre per bruciarsi il cervello. Specie d'estate. Specie se fa caldo. E certo, ne converrai, se fa caldo, e le strade friggono miraggi nell'aria, si sta meglio nelle solitudini marine che a traslocare.
Eppure, proprio perché la vita - che volete farci - è tutta una pazzia, io in quell'estate, e sotto quello sfrigolio bollente, mi accingevo a traslocare.
Venivo, per così dire, da un angusto vicoletto, e mi sembrava fino a quel giorno di non aver mai visto la luce del sole. Venivo, in un certo senso, da un luogo soffocante, e mi sembrava fino a quel giorno di non aver mai sentito le carezze del vento.
Venivo anche carico, carico e sudato, trascinandomi dietro i miei pochi averi e una vecchietta che viveva con me da anni.
Venivo, appunto, a villa Carina, con le sue mura di mattoni scuriti e il suo cancello cigolante, che ci accolse nell'abbraccio variegato del suo profumo di giardino e i bei fiori cangianti. La facciata, da me mai vista, sfavillava ai raggi del sole estivo, eppure nonostante tanta luce mi sembrò di cogliervi un non so che di ripugnante da cui con un vago gesto di mano cercai di liberarmi.
Davanti a essa stavano assisi tutta una serie di gatti, per lo più neri, dallo sguardo tra l'annoiato e l'iroso, che non capivo se avevano sonno o mi odiavano.
Tutto intorno l'erba era alta e impazzita, e ogni finestra, verde come l'erba, sbarrata, come a vietar l'ingresso all'estate che tutto cingeva d'assedio.
E infatti dentro non era poi così caldo, nel largo e scuro androne, salvo forse solo un po' di afa nell'avvicinarsi al tetto - e nelle soffitte assolate poi era tutto un gran sudare.
Così in breve mi sistemai lì con la mia serva anziana, e feci presto la conoscenza dello stabile e dei personaggi che lo abitavano, che erano come dei vermi ciechi  che rodono al suo interno un frutto antico

Intanto sì, c'era una gattara. E una gattara mica da ridere, che infatti di gatti ne aveva diversi, da tre fissi a sette. Io poi amo i gatti, si sa, ma questi erano, nel modo più lurido possibile, tutti rotti e ammaccati, uno senza coda l'altro senza denti, uno grigio ricordo senza orecchie: una banda di gatti sporchi e mutilati, come di ritorno da una tragica guerra. E quasi immobili, difatti mai ne ho visto uno anche solo accennare la corsa, o salire d'un balzo. Ognuno fermo nel suo angolo come a fuggire il mondo, attendendo il cibo che Rosina, col suo zinale liso, e i capelli strangolati dal vento, portava con solerzia, per non dire devozione: tanto che pareva li adorasse.
E pure se avevano gran fame mai li ho uditi miagolare, men che meno agitarsi dall'appetito.
Io non le dissi nulla, fingendo ammirazione per il suo comportamento, senz'altro figlio del non aver avuto figli - cosa che poi mi fu confermata - e di una diffidenza verso gli altri esseri umani, o come li chiamano i vecchi del luogo i 'cristiani', dando per assodato che tutti gli umani lo siano.
Invece ben poco cristiana era un'altra signora, questa più tozza e curata, che al contrario di Rosetta, o Rosina, uno vale l'altro, stava al piano terra, anzi leggermente sotto dato che la villa era scavata nel tufo, tanto che che ogni volta che se ne usciva dall'uscio sembrava un animale che risale la sua tana, e un qualcosa di bestiale in effetti lo aveva, sicché bestemmiava come una fiera delle più feroci, con tali improperi da suscitar allegria e persino, ogni tanto, un poco di stupore.
E lei la chiamai la signora delle tazzine e del caffè, che a una certa ora, mentre - più avanti iniziai a farlo - curavo il giardino, sempre passava e me ne offriva, con dell'altra roba dentro piuttosto forte, che anche lei prendeva, rinvigorente per me, ma che su di lei aveva l'effetto di farla imprecare ancora più forte, contro la vita e la vecchiaia, e i gatti maledetti che impestavano l'erba alta; e pure contro l'erba che, a suo dire, dovrebbe tagliarsi da sola.
Davanti alla mia porta, al primo piano, vi era un tizio scapolo con la faccia da pesce scongelato e lasciato al sole, uno di quelli che non capisci di che razza sono, se diavoli o santi, o nessuno dei due; uno di quelli, per capirci, che te li immagini con lo sguardo vitreo a fare le peggio porcate da soli, al buio, chiusi in una stanza, ma che poi, come niente fosse, vanno alla processione della tal madonna vestiti a nozze, e camminano in mezzo alle addolorate come se stessero andando a lusingare qualche bella ragazza, e invece pascolano dietro a una croce.
Uno così, insomma.


Ora, devo dire, le mie stanze non erano certo granché spaziose, constatanti in un salottino, una camera da letto adiacente, un cucinino sepolto in angolo del salotto e un bagno. Tutte stanze di medie dimensioni, pulite e ordinate. Ma con troppa luce del sole a scaldarne i muri, di modo che appena potevo, e la luce del sole si ritirava a spiare il cortile da dietro al muretto, me ne andavo giù, in giardino, a guardare i gatti o Rosina, ma mi pare si chiamasse Rosetta, che con le sue vesti logore da gattara gli sfilava accanto. E tutti in fila che furono diedi loro nome e scopo in questa vita, ed essi ancora, dovunque siano, se ne fanno vanto.
Ed erano:
Behemoth, la voce del caos. Una gatta nera senza denti, il cui miagolio pareva eruttato da un buco della terra. Svelta e silenziosa, era l'ombra di ogni pianta, e ciò che faceva era far finta di non esserci.

E Necromante ombra lunga, che probabilmente evocò Behemoth da un luogo lontano. Un gattone grigio dal viso pendente e il miagolio querulo, quasi assillante, ma diffidente verso ogni cosa, persino la sua ombra, che forse credeva viva.

E Ern, assenza di luce. Un gattone nero con le più grandi palle che abbia visto, tanto grandi da sembrare le palle di un cane o di un primate. Sempre fosco e incline al crollare, come una maceria indispettita dalle intemperie. Spelacchiato e ingiallito nelle estremità, era sempre isolato dagli altri.

E poi c'era Shang Tsung il danzatore del crepuscolo. Gli diedi questo nome perché una sera, al crepuscolo, se ne andava pel cortile saltando dietro a una farfalla che vedeva solo lui, sicché sembrava danzare con la luce morente. E quello fu il suo nome. Questi non aveva coda, ma in quanto a coglioni era secondo solo a Ern, e nel correre ne aveva fatto, in assenza dell'arto, il suo organo dell'equilibrio mancate; così le agitava di qua e di là per tenersi sempre ritto e bilanciato, e queste sbattevano da sembrare loro, le palle, a dirigere il corpo, e tutto quello che c'era davanti a seguirne il corso.

Poi, altri gatti minori, erano Tarcisio il farmacista, chiamato così perché sovente si recava in farmacia, che lì era una micia da tutti ambita, ma egli per sorte o per diletto ne poteva vantare qualche speciale diritto.
E poi Gozer, un gatto di medie dimensioni, nero, ma di un nero fluido, cromato, un nero da anguilla della notte, capace di infilarsi ovunque e di sparire in un batter d'occhio, con un tuffo o uno scarto di lato.
E altri ancora, tutti ben nutriti da Rosetta, o era Rosina, tutti ben tranquilli, e soprattutto fermi, immobili, come ad aspettare qualcosa che prima o poi arriva, e andargli incontro non ha senso.

E quindi, mentre la signora delle imprecazioni mi portava il caffè, i gatti languivano e il sempliciotto con muso da batrace stendeva i suoi calzini di spugna bianca al sole, io me ne stavo a vedere tutte queste cose e altre ancora, all'ombra del muro antico sotto le cui fondamenta dormiva un lago, e sopra il quale si apriva il cielo.

In quell'estate cercavo di tirare su due soldi per qualche piccola spesa che avevo urgenza di compiere, come mangiare, cacciare via la vecchia serva per una migliore, e curarmi i denti, che quest'ultimi continuamente mi dolevano come un brutto ricordo che si fa carne e sangue, e scrivere racconti era il mio modo per guadagnare.
Le case editrici dell'epoca, manco a dirlo, non ne volevano sapere, anzi talune mi convinsero che sarebbe stato meglio fossi io a pagare.
Ero preda di questi e altri pensieri quando la biondina che viveva al piano terra, ma in un appartamento separato, una specie di ridotta della villa, mi venne incontro per innaffiare le sue piante.
Era costei né bella né brutta, ma, in un certo senso, come si suol dire, passabile, così come non la si potesse dire intelligente e manco sciocca, solo forse un po' distratta.
Non aveva in simpatia i gatti, ma mancava di carattere sufficiente a scacciarli apertamente. Di modo che quando Rosetta, o Rosina, fate voi, insomma quando la gattara era presente non faceva altro che miciomiciare e fingersi intenzionata a carezzarli, salvo poi tirar loro delle gran sassate quando credeva di non esser vista.
Ma i gatti lo sapevano, e senza adottare nessuna tecnica particolare si limitavano a starsene immobili nei loro angoli. E io nel mio.


Ora, successe questo, e cioè che giunto l'inverno, e introdottomi abilmente in quel contesto, le vecchiette si ammalarono tutte insieme, compresa quella che mi faceva da serva, e spedite se ne andarono al camposanto.
La biondina incontrò un altro biondino del suo pari e con questo si trasferì in altro canto. E il sempliciotto del primo piano, forse non potendo accettare che il suo amore nascosto non fosse - e non sarebbe stato mai - contraccambiato, sparì del tutto, come un petardo. Ma senza nessun rumore, come uno che pascola dietro a una croce.
E così rimasi solo.
Oddio, non proprio solo. C'erano ancorai gatti.

Il primo giorno diedi loro da mangiare, perché mi facevano pena e non volevo loro male.
Il secondo giorno gliene diedi perché ne era rimasto d'avanzo dal primo.
Il terzo, sicché odio il prosciutto vecchio, glielo lanciai. Sapendo che dopo di quello si sarebbero dovuti arrangiare, dato che in cibo spendo poco e non ho avanzi da regalare.
Il quarto attesero e il quinto erano spariti.
Li ritrovai il sesto giorno dacché ero rimasto solo, riuniti in concistoro sotto una delle alte finestre che danno sul cortile, come a mettersi d'accorso su argomenti di grande importanza agitandosi niente affatto.
Probabilmente non erano pronti a un simile evento, e l'idea di migrare altrove li ripudiava e ne offendeva la pigrizia pietrificata nei gesti lenti.
Così dapprima furono solo i più giovani ad andarsene, e da lì a un paio di settimane dei gatti non c'era più traccia.
Infine anche l'inverno arrivò, coi suoi venti acuminati e la morte delle piante, e insieme all'inverno arrivò, finalmente, anche un'offerta di lavoro per me, che un racconto scritto su Villa Carina era piaciuto e me l'avevano comprato.
Così in poco tempo, come ero venuto, feci le valigie e me ne andai, ed era febbraio, e mi lasciavo dietro un grosso muro di facciata adombrato, un giardino spazzato e un alone luttuoso che aduggiava sullo stabile, senza che neanche un gatto fosse rimasto a salutarmi o una vecchietta a ficcare il naso.
Chiusi il cancello cigolante e me ne andai, né triste né sollevato, con in testa niente di particolare se non qualche idea sulla vita e sulla morte. Niente che non fosse già stato scritto, per cui spazzai via tutto insieme al vento glaciale, compreso un qualcosa di ripugnante che la villa vista da fuori mi dava a intendere, e mi misi in viaggio per la prossima Villa Carina, o qualche altro strano teatro.



domenica 2 novembre 2014

Introduzione a Tolkien

Stanotte ho fatto un po' fatica ad addormentarmi, così nel buio sospeso tra veglia e sonno ho pensato a quale sia il modo per approcciarsi meglio alla lettura di Tolkien.
Non che i vicini facessero rumore, con loro mi sono spiegato molto bene; nessuna spiegazione, ahimè, c'è stata con i miei denti, che mi hanno fatto male fino a che più che addormentarmi sono caduto in un deliquio di stanchezza, e ho sognato che stavo male.
Il giuramento dei figli di Feanor (Silmarillion)


Ad ogni modo, tralasciando questi miei viaggi nel dolore notturno, qual è il modo giusto di leggere Tolkien?


Inizierei con questa premessa, e cioè: l'ideale, intanto, è non aver visto i film.
Per molti motivi, primo fra tutti lo svelamento della trama. Ma non è l'unico. Infatti accade sempre, nel vedere un film tratto da un libro, che poi, provando a leggere il libro, nei personaggi e in generale in ogni immagine evocata dallo scrittore vadano a pietrificarsi gli attori e le scene del film, così che risulti impossibile creare da soli con la guida del testo, ma si tenderà a rivedere quanto proposto da questo o quel regista.
Insomma, in parole povere, il film rovina l'esperienza del lettore che non riesce più a creare dal nulla le visioni del libro.
Certo anche avendo visto i film se ne può godere alquanto, e magari con uno sforzo riuscire a sostituire le proprie immagini a quelle viste sullo schermo.
Detto ciò: da quale libro iniziare?

Ora, si sa, i libri che contano sono tre, Il Signore degli Anelli, Il Silmarillion, Lo Hobbit.
Nel primo abbiamo la parte conclusiva della macro narrazione tolkeniana sotto forma di romanzo epico. Qui il protagonista è Sauron, assente ma sempre vivo nei pensieri di chi ne sfida le ambizioni.
Nel secondo vengono raccontate per sommi capi, e con un linguaggio ricercatissimo che sfrutta la mitopoiesi, le vicende di Arda, dalla creazione iniziale di Illuvatar alla caduta di Melkor e oltre ancora. Non si può nascondere che sia un libro indigesto ai più, ricordo bene che la prima volta che lo lessi dovetti farlo col dizionario ben vicino tanto erano astrusi i termini che vi trovavo. Rimane comunque il testo senza il quale è impossibile comprendere gli altri due. Qui il protagonista è Morgoth Bauglir, Valar votato alla tenebra e creatore di ogni male.
Il terzo, Lo Hobbit, è una fiaba che racconta gli eventi che anticipano Il signore degli anelli, una sorta di prefazione. Non inganni il termine fiaba, sebbene infatti i toni siano più leggeri vi sono alcuni punti di grande spessore. Qui il protagonista è Bilbo, l'hobbit che trova l'Unico Anello che era andato perduto.

Uff, che male. Ho anche finito i brufen. Sdraiato non posso stare, sento la testa che si gonfia e pulsa come un raviolo al vapore. Sarà meglio sedermi sul letto. Ma sì, fumo. Tanto peggio di così non posso stare.

Dicevo... difficile dare un ordine di precedenza a questi tre libri. E poi, a dirla tutta ce ne sono altri tre. Ma di questi parlerò poi. Se me ne ricordo.
Da dove si inizia?
Verrebbe logico dire dal Silmarillion. Lo leggi, conosci la storia delle prime tre ere, e sei pronto per capire nei minimi dettagli gli altri due, ambientati alla fine della terza era. Sai chi è Morgoth, chi è Feanor, cos'era Gondolin, cos'è un Balrog, da dove viene Sauron, le guerre per i Silmaril, ecc ecc.
Ma non lo dirò. Infatti la complessità del testo è tale che solo una volta incuriositi dalla lettura degli altri due si può intraprendere questo testo.
Allora Lo Hobbit, che precede Il signore degli anelli?
Forse.
Sarebbe la scelta logica, ma data la natura del tutto diversa del testo dagli altri due, come detto fiabesco e destinato a un pubblico più giovane (del resto è stato scritto 20 anni prima di tutto il resto) si rischia di avere un approccio sbagliato.
Ma allora quale?
Non resta che ISDA, ma sarà una lettura di non facile comprensione, infatti i riferimenti agli altri due libri sono innumerevoli. Si rischia di finirne la lettura lasciandosi dietro molti buchi neri.
Ed è quello che successe a me. Chi è questo Morgoth di cui si parla; e i Noldor cosa fecero per irretirlo? Da dove giungono gli Istari? E chi è Elbereth di cui cantano gli alti elfi rimasti nella terra di mezzo? chi sono gli orchi?
Il libro non spiega questa come tantissime altre cose, ma le lascia sospese chiedendo al lettore lo sforzo di immaginarle da se. Queste vengono svelate solo nel Silmarillion, e sono proprio tali domande che ne fanno intraprendere la lettura da parte di chi si è fortemente appassionato al testo.

Per questo io dico: prima ISDA, poi Lo Hobbit, infine Il Silmarillion.
E poi, infine, ancora ISDA, per comprenderlo pienamente. In effetti quello che sto dicendo è che servono almeno due letture in quest'ordine.
Poi sia chiaro, ognuno fa come crede, ma a me questo sembra il metodo migliore.

Fingolfin Re dei Noldor sfida Morgoth (Silmarillion)


Vi sono poi altri tre libri come detto.
I racconti perduti.
I racconti ritrovati.
I racconti incompiuti.
Tutti questi testi sono delle integrazioni, talvolta delle ripetizioni, del Silmarillion. Vengono riportate le leggende delle prime tre ere a volte in modo diverso, a volte più approfondito.
Solo nei racconti incompiuti (che sono, appunto, non finiti) Tolkien svela qualcosa in più, come la natura degli Istari o chi furono i Nazgul nei regni mortali.
Certo si tratta di approfondimenti interessanti ma destinati ai grandi appassionati. Insomma una lettura ulteriore a cui ci si presta dopo le tre iniziali.

Comunque, con questo dolore in faccia, di dormire non se ne parla. Continuerò la mia quarta lettura del Silmarillion. Infatti a ogni rilettura inizio da quello.
Ah, comunque la sigaretta ha peggiorato tutto.