martedì 31 gennaio 2023

 





Ho rivolto questa intervista allo stimato professor Severio Problemoni, che non ha bisogno di presentazioni. Essa non ha scopo alcuno se non quello di fare due chiacchiere amichevoli senza pretesa di assurgere a verità.

In effetti, gran parte di quanto detto dal professore assume le forme del delirio maniacale o di una grave depressione. Al lettore il compito, ove possibile, di trovare riscontri con la realtà.
D = domanda
R = risposta

D - Professore, lasciamo da parte, per brevità chi lei sia, e diamo per scontato che da quanto dirà capiremo cosa voglia, la domanda è: come si percepisce all'interno del mondo?

R - Ebbene, le dirò che io mi percepisco come un osservatore. Ora lei si immagini un qualsiasi parco durante le ore pomeridiane, dove cose e persone si muovono alla luce dentro l'aria. Io osservo tutto ciò all'ombra dell'albero più alto e frondoso. In una zona poco arieggiata. Persino scomoda.
Dalla quale ho l'assurda presunzione di vedere, se non tutto, molto.

D - Quindi lei è un sapiente? Ma permette che le dia del Voi? il lei è francamente inaccettabile. Permettete, dunque?

R - Permetto e anzi lo esigo. Da molto tempo ormai il femminile ha perduto la dimensione del sacro, oltre a essere le donne oltremodo divenute oscene. Per quanto ciò non c'entri.
Si deve invece attribuire alle masse e alla presenza di moltitudini psichiche una condizione di superiorità. Ma sto vaneggiando. Quindi mi dia del voi. Ad ogni modo no, non sono un sapiente. Io infatti so solo ciò che vedo. Che non può essere più di quanto vedano gli altri.
Si può invece dire che sia un intellettuale. In primo luogo perché sono morbosamente insoddisfatto, il che corrisponde al primo requisito per definirsi tale. Inoltre discerno e critico ciò che vedo grazie a un intelletto formato e tenuto in allenamento. Il che, s'intende, è un esercizio totalmente miserabile e non mena a niente se non al buio e all'abisso.

D - Non vedete di buon occhio il pensiero critico? E quale pensate sia l'anima dei nostri tempi?

R - Innanzitutto lasciatemi dire che non s'è mai visto un essere pensante felice. Ma neppure sereno.
Il pensiero è infatti paura e tormento, e la condizione di qualsiasi bestia preferibile a qualsivoglia coscienza.
Detto ciò, i nostri tempi non hanno anima alcuna (il prof. dice questo spegnendo la sigaretta su una pianta viva). La nostra società è stremata dall'ateismo.
L'approdo finale verso cui ci si sposta dalla nascita, con più o meno coscienza, è il nichilismo, ossia il non credere a nulla. Ma badate, non sto dicendo che ateismo e nichilismo siano la medesima cosa, bensì che l'una porti all'altra.
Così, l'uomo si dispera e a nulla può aggrapparsi. Il vizio lo consuma, il cielo è vuoto e rivela solo uno spazio tanto vasto quanto inutile. Straziato da un'introspezione dove Dio ha cessato di tendergli la mano egli precipita senza fine entro sé stesso.
Gli altri sono fantasmi e la società ne è infestata. Senza uno schema trascendente è impossibile sopportare chicchesia.
La scienza? da una parte ci ha alienati nella tecnologia e dall'altra ci ha dato qualche anno di vita in più. Anni che trascorriamo in modo ignobile.
L'eternità è perduta. Se la civiltà ci ha incatenati nel corpo in cambio di un po' di sicurezza, la scienza ha murato viva la nostra mente.
Che non vi siano ogni giorno, in ogni dove stragi e massacri, e che tanto più il luogo sia civilizzato e razionale tanto più stragi e massacri siano feroci e spietati, è cosa che ancora non mi spiego.
Le droghe in parte possono spiegarla.
Cos'è infatti, cos'è questa cosa che chiamiamo vita dentro queste stanze assurde? Ma via, mi sono fatto trasportare. Andiamo avanti.

D - A vostro parere non vi è nulla di buono in ciò che siamo e nel modo in cui viviamo?

R - Nulla. Come del resto tutto. Mi spiego.
Il modo in cui viviamo e dato da quello che siamo. Ora, va da sé come ci venga insegnato che siamo solo... carcasse. E nessuno può esistere sapendo di essere un alleato dei vermi e un antenato dei cadaveri. E nient'altro.
D'altro canto è presente in noi, proprio per questi motivi, una dimensione eroica straordinaria, che per secoli l'uomo ha dominato e fatto sua attraverso la narrazione di miti e leggende che forgiavano la sua esistenza.
Ma la nostra società uccide anche l'erosimo, e nelle periferie moderne vagano solo vili e depressi.

D - Vi devo dire, professore, che in verità molte persone partecipano con soddisfazione a questa realtà. E che, inoltre, l'infelicità che voi descrivete non è così diffusa. Mi pare in sostanza che la facciate troppo tragica.

R - Voi volete forse dire che la vita è pur sempre meglio del non esistere affatto, e che in fin dei conti, sebbene a prezzo di enormi sofferenze, stare bene è possibile. Ma senz'altro, senz'altro!
Eppure nulla di tutto questo è vero. Non facciamo che inventare ogni cosa per evitare di impazzire. Il resto ce lo fornisce l'istinto.
La caratteristica di questi tempi è quella di aver abbandonato illusioni durature sostituendole con altre limitate nel tempo e nell'efficacia che finiscono per amucchiarsi l'un l'altra.
Abbiamo suddiviso e moltiplicato le nostre fantasie con parossismo industriale per adattarle al mercato in cui viviamo.
E poi siamo troppi. Ovunque ci si giri sbattiamo in un altro muso. Dove va il nostro sguardo lì c'è una casa. Non c'è più contemplazione né silenzio.
Qui come all'inferno l'ambiente è sovraffollato.

D - È possibile distrarsi da tutto questo?

R - Distrarsi è necessario e anzi è la sola cosa che possiamo fare. Ogni cosa non è null'altro che una distrazione col preciso scopo di uscire fuori dal tempo.
I nostri antenati perseguivano questo stesso fine negli eventi della loro vita. La religione, il lavoro, la procreazione, gli affetti ecc avevano una dimensione sacra; mentre oggi ci distraiamo per fuggire anche da queste cose. E da molte altre.
L'evasione, relegata un tempo a sporadici momenti della vita, ora è tutto, la si insegue, come gli Dei, la croce, gli ideali o la ragione sono state inseguite per innumerevoli generazioni.
Distrarci dall'essere vivi è il nostro monoteismo, e il nostro Dio unico si genera nell'incoscienza.
Mille secoli di evoluzione della coscienza per desiderare soltanto di non averla.
Dopo l'assurdità delle stelle il nostro è il fallimento più grande.

D - Se quanto lei sostiene è vero perché gli umani praticano la discriminazione sociale?

R - Il primo motivo è che l'essere umano è una creatura gerarchica che ama in particol modo esercitare un potere sugli altri. Discriminare pone in una logica di superiorità che ci permette di essere dei tiranni. Dopodiché ciò avviene perché non abbiamo piena coscienza della nostra condizione. Chiunque si renda conto del ruolo che ricopriamo nella cosiddetta creazione non può mantenere la ragione e in men che non si dica giunge ad autodistruggersi. Sebbene spesso l'istinto di autoconservazione ce lo impedisca.
In quel caso diveniamo ombre che, di tanto in tanto, accettano di partecipare a questa o quella farsa, nel teatrino grottesco della vita.

D -  Ritenete che tornando a un sistema religioso e dogmatico staremmo meglio? E sarebbe possibile?

R - Qui e ora, no. Ormai gli individui non riescono a focalizzare l'attenzione su qualcosa nemmeno per pochi minuti. Per venire ascoltati bisogna gesticolare in un video. Per rispondere alla seconda domanda.
La società globalizzata si basa sull'ateismo, essa lo brama per appiattire ogni cosa su sé stessa. Lo genera perfino uccidendo ogni tradizione. E lo fa con avidità di fanatismo. I fanatici del vuoto interiore. Dietro i loro schemi di logica aleggia il puzzo di cadaveri che galleggiano in un liquido asettico da ospedale. In fondo ai loro occhi lo stesso sgomento della morte che s'appresta: per tutta la vita.
Non a caso la nostra civiltà ha smesso di produrre opere dell'orrore rilevanti. Ai più basta viverlo.
Tornando alla prima domanda, come dubitare che un sistema religioso non possa farci stare meglio? Si è mai veduto un essere più solo dell'uomo nel cosmo?
Se c'è, non posso neppure immaginarlo.
Solo la pienezza di un Dio può abbracciare la nostra solitudine. Invero i nostri stessi Dei sono dei solitari.

D - Lasciatemi dire, professore, che voi siete completamente disperato. E me ne dispiaccio. Pure, vi comprendo. Al di là dei suoi mali l'uomo ha l'arte. Una seppure minima consolazione. E l'Amore, dico bene? Forse mi esprimo ingenuamente?

R - Definirla ingenuo è un eufemismo. Voi siete un povero pazzo. L'arte, in definitiva, non è che l'espressione dei nostri tormenti.
Riguardo l'amore poi mi pare persino ridicolo parlarne.
L'amore di Dio è morto. E le donne ormai non sono che prostitute. Intendiamoci giovanotto, gli uomini non sono da meno. Ma la situazione delle donne è spaventosa.
Per un capriccio abortiscono o abbandonano i figli. Il loro unico scopo pare essere quello di umiliarsi. Non appena la natura ha abbassato la guardia si sono trasformate in altro. Esse sono oggi l'incarnazione del mondo: volubile e dorato, ma vuoto.
Ma dopotutto, se ciò è potuto accadere, è anche per il declino e lo smarrimento del maschio. Esso soltanto può riprendere in mano la situazione e ristabilire l'ordine, ma è ormai castrato e intrappolato dentro un'infanzia senza fine.
Ma badate bene, queste sono osservazioni senza senso e quasi me ne vergogno. A un'agonia ne succede sempre un'altra, e su ogni uomo e in ogni tempo peserà sempre una maledizione ridicola.

D - Eppure la nostra vita si allunga. Il dolore fisico lenito. Le malattie curate. Vasti tentativi sono in corso per dare a tutti dignità. E l'uomo impara a conoscere lo spazio che lo circonda. A ben vedere c'è speranza.

R - Voi non siete solo un povero pazzo: siete addirittura un mentecatto che si agita nel buio. Vi dirò ora che tutto ciò che non è eterno o che perlomeno non sfiora l'eternità... che farsene? né lo sapete voi se aprite un poco gli occhi.
Le prime due cose che avete detto sono in realtà un'unica sola, e cioè la vita si allunga, sì, ma nel dolore. Mentre la malattia ci divora e la dignità universale non è che il sogno di un uomo appestato nello spirito.
Ma lo sapete, voi, che l'uomo si è messo in testa, pensate un po', di non fare più la guerra, o almeno di provarci, e che tutti sono uguali, e liberi, e che anzi la libertà è l'elemento fondante di questa umanità! Ma l'uomo è guerra, e la libertà è la catena più pesante che può stringersi al collo. Guardate me, io sono libero e non so che farmene. Tutta questa libertà ci ha strangolato e non è neppure vera.
Infatti nulla possiamo desiderare se non dove morire e quando.
Lo spazio poi è totalmente ostile alla vita e sarebbe meglio astenersi da qualsiasi cosa che non sia guardarlo con superstizione.
Quel poco che abbiamo fatto, quella manciata di chilometri che siamo riusciti a mettere tra noi e il pianeta, ci è riuscito esclusivamente in nome della guerra e della rivalità tra umani.
Ma si è capito presto che non si andava da nessuna parte. Niente Dei né viaggi tra i mondi ma solo pietre orbitanti nel nostro cielo.
Abbiamo retrocesso le stelle a soli lontani, e nel buio siderale non abitano più le antiche speranze.
La Terra è un pianto nella notte cosmica e tutto quello che abbiamo ottenuto è di saperci qui intrappolati.
Rimpiango quando ci si credeva al centro dell'universo: ora siamo ridotti alla periferia di noi stessi e non c'è neanche una risata che possa salvarci.

D - Uno scenario desolante quello che dipingete. Credete in Dio? È la domanda conclusiva. Inoltre sembra essere l'unica cosa che conti per voi.

R - Non vi dirò nulla su questo. E in fin dei conti è irrilevante che io creda o meno. Credo nell'eternità e che non ci sia dato in nessun modo di entrarvi se non attraverso le idee. Dio è un'idea, la più grande, la prima. Gli Dei, gli eroi... abbiamo ridotto la mitologia allo squallore quotidiano ed elevato lo squallore a mito.
Siamo creature ridotte a sospirare per un abbraccio. E tutto questo è patetico.

D - Fatemi dire professore che voi sembrate un uomo molto triste e solo.

R - Ma voi... voi fraintendete. Io parlo così fintanto si entra nel merito di certe questioni. Per il resto non sono più tormentato di voi... E anzi, già ora a quel che ho detto non penso più. E vedete... forse neanche lo pensavo allora. O non sempre lo penso.
Certe cose si vedono solo al buio.

lunedì 2 gennaio 2023

Primo viaggio dell'anno









La vigilia di un lungo viaggio è sempre traumatica, ti prepari tutto il giorno e vai a dormire consapevole che dovrai alzarti prestissimo e per 10 ore muoverti da una meta all'altra. Nel viaggio si è stranieri di tutto, non c'è modo di socializzare, o comunque non mi va. Che senso ha conoscere persone in viaggio, non ne ha nessuno. Il mio pensiero indugia sull'ennesima inutilità di questo sforzo, pregusta la morte, la vede su ogni cosa su cui posa gli occhi.   
Al mattino presto le persone sono ancora chiuse dentro il loro guscio di debolezza, se ne sbarazzano verso le 9, ma alle 9 sarò già partito. Nel primo treno, fino a Milano, ho dormicchiato, ero seduto vicino a una ragazza che per tutto il tempo ha guardato fuori dal finestrino: ma che modo di viaggiare è? che cazzo, almeno portati una rivista. Va be'. A Milano ho trovato solo sporcizia e sbirri, una magrebina mi ha messo in mano due biglietti del treno chiedendomi dove doveva andare. Le ho detto di andare dove cazzo le pare tanto siamo tutti morti, ma non ha capito un Mordor, così le ho indicato un binario. Ci si può uccidere facilmente in una stazione dove passano così tanti treni, ma a me buttarsi sotto un treno è sempre sembrata una morte improbabile, troppo chiassosa, quindi ho rinunciato: ho invece preso un caffè, e ho fatto male perché mi ha dato lo stimolo di andare in bagno, e di sicuro non cago in stazione centrale a Milano, perché anche prendere l'ebola mi pare un pessimo suicidio.
Curioso quante volte le persone pensino al suicidio accarezzandone le possibilità: possibilità illimitate. Comunque ho aspettato un'oretta osservando la gente andare e venire da un binario all'altro, mi sono goduto l'immondo spettacolo della folla umana. Un tizio mi ha fatto accendere ché avevo dimenticato l'accendino, diomerda, ho fumato; mentre fumavo ho spiato due cinesine che parlavano di non so cosa, una carina l'altra un po' meno; in generale le asiatiche mi attirano tutte, mi danno un'impressione di dolcezza pragmatica, senza tanti cazzi per la testa.
Sul secondo treno, quello che mi porterà ad Ancona, siamo schiacciati come sardine ubriache su 4 posti attaccati, e se non altro mi è venuta fame. Ho da leggere e da fare cose al pc, ma sto talmente scomodo che qualsiasi cosa farò sarà una merda. Intanto scrivo, il che mi permette per un po' di dimenticare le fatiche dell'essere, ascoltando musica per isolarmi dal vociare fastidioso tipico delle moltitudini. Sì cazzo, siamo veramente tanti in questo treno, e parlano tutti, dio Mordor, ma che farci, i viaggi sono così. Quelli davanti a me scoreggiano parole idiote, sono padre e figlio. Lui, il figlio, vuole vedere il telefono del padre, il padre non vuole, intanto rompono il cazzo a me; quello di fianco mangia e sbriciola tutto, è mezz'ora che mangia, ma dai cazzo.
L'ultimo treno che prenderò è un regionale, per fare Ancona - Civitanova, e poi finalmente a casa potrò cagare e ricaricarmi nella solitudine buia della mia stanza. Ma per ora conviene che mangi qualcosa anche io, non vorrei perdere i sensi e ritrovarmi stuprato e derubato da un capro nero. Cose che in treno possono accadere. I samurai attraverso la loro spada vivevano per morire, io muoio un po' alla volta intanto che cerco di vivere.
 Il panino con l'arrosto s'era indurito, quello coi funghi s'è smosciato; l'ultimo, quello col prosciutto, l'ho barattato con una stella di super Mario: me la sono messa qui sul tavolino per avere qualcosa da vedere che non sia il monotono paesaggio delle periferie italiane che si vede dal treno.
Ma è tutto inutile, anche a guardarla non mi viene sonno.
C'è un luogo più buio della notte e più disperato di una Teutoburgo, sono gli scompartimenti dei treni dove viaggi per ore e ore. Ti sembra, alla fine, di essere arrivato da qualche parte, ma sei sempre lì, all'Inferno, e devi viverlo finché non avrai scontato la vita.