sabato 25 gennaio 2014

Sci



Dopo tutto quanto, e per "tutto-quanto" intendo dall'atrocità dell'esser nati fino alla deriva esistenziale del nostro vivere morendo, ebbene, dopotutto questo mi tocca pure sopportare le gare di sci.
Infatti, io credo, non esiste niente di più noioso dello sci. Chiaramente non mi riferisco allo sciare in se, che io come pratica ignoro, ma non stento a credere che sia anche divertente. Mi riferisco per l'appunto al vedere chi scia. Ma poi, del resto, se lo si fa dal vivo, e magari si alza il gomito, con la neve, l'aria frizzante, magari buttando lo sguardo qua e la, può essere piacevole.
Allora diciamo che, in definitiva, mi riferisco al vedere le gare di sci in tv.
Ma cosa c'è dietro? Ci dev'essere qualcosa di orribile, di nascosto; ci dev'essere un segreto che fa paura.
No, non me la raccontano giusta.
A volte non riesco a dormire. A volte, non riesco a dormire neanche dopo aver fatto qualcosa che, di solito, mi fa dormire. Così non resta che provare a dormire senza far nient'altro. La mente, appesantita, quasi minacciata dall'oblio incombente e quindi tesa e rigorosamente in contemplazione di qualcosa, vaga un po' ovunque, e ci si ritrova - per quietarla, e acquietarsi - a coinvolgerla in nenie visive, ossia a immaginare movimenti, ondulazioni, onde, gorghi, centrifughe e rintocchi del pensiero; mari cangianti, turbini colorati, pendoli fantasma, cadute vertiginose dove cadendo ci si rilassa, proprio perché si cade altrove. In questi esercizi del pre-sonno, si vaga lontano, in dimensioni che si sommano a formare la struttura del nostro inconscio, mediando con la necessità di dimenticarsi.
Lentamente, oscillando pigramente, facendoci noi riverberi onirici, la mente si abbandona, si assenta dentro se stessa, si fa vuoto contenitore di se, e arriva il sonno.

Mi sono detto che lo sci è la stessa cosa. Me lo sono raccontato. Mi sono spiegato che guardare lo sciatore che viene giù sullo schermo è un surrogato del pendolo notturno, di quella cosa che agitiamo dentro di noi per ipnotizzarci a dormire.
Mi sono detto anche che le persone che guardano le gare di sci, probabilmente, tendono al letargo.

Le sento, la tv è accesa. Che noia. Passo in salotto e vedo sciatori venire giù, cadere non si sa dove. Li guardo e, in effetti, mi viene sonno.

giovedì 9 gennaio 2014

Il Beone che salvò il mondo




Caio beveva. Da qualche anno ormai.
Era arrivato al punto in cui, dopo 12 ore senza bere alcol, non aveva le visioni; non precipitava neanche nel delirium tremens: veniva direttamente circondato da dei super-mostri terrificanti!
Girava tutti i locali nell'estate italiana. Senza una meta precisa. Soldi non ne aveva.
Non aveva neanche molti amici. Da quei pochi che aveva, fossero anche semplici conoscenti, cercava di spremere una bevuta, anche un solo giro di alcol.
Dovendo spostarsi spesso, e a piedi, per effetto dello sforzo fisico non era mai completamente ubriaco: lo era giusto un po', quel tanto che bastava per continuare a spostarsi.
Quella sera - la sera in cui è ambientato questo racconto -, Caio salvò la specie umana, me, te, tutti, e anche se stesso - se mai salvezza esiste.
Era andato, Caio, dal suo amico... ma non importa il nome, basta dire che era un suo amico, anche se lo aveva visto si e no 3 volte, e che questo suo amico poteva procurargli qualcosa da bere.

Ora, apro una parentesi.
Alla fine della galassia, non proprio della nostra ma di una limitrofa, a circa 2000 anni luce dalla terra (più o meno) sta Rigel, una stella nana bianca, coi suoi pianeti orbitanti; uno dei quali, il cui nome cifato è intraducibile a meno di non usare centinaia di cifre del nostro sistema numerico, ma che noi chiameremo Alpha-Rigel, ospita una civiltà molto evoluta di grossi vermi spaziali. Essi non strisciano: fluttuano. La loro tecnologia ha annullato ogni limite della materia. Per primi, ma di questo nessuno sarà mai certo, hanno messo in pratica la teoria di Einstein, ossia che la materia non può viaggiare più velocemente della luce senza trasformarsi in energia.
Così loro viaggiano nell'universo, ma senza lo spiacevole disturbo di trasformarsi in energia (sarebbe nocivo persino alla loro forma di vita). Semplicemente isolano dei grossi cubi energetici, e li proiettano nel tempo sfruttando il principio di rottura-dello-spazio. Così che, 2000anni luce, spostandosi nel tempo, divengono niente, e la distanza si annulla, permettendo loro di essere ovunque immediatamente. La spiegazione è questa. O è un'altra. Che importa.
Ciò che importa è che quella specie evoluta necessita sempre di nuovi schiavi: ne vuole di intelligenti per affidare loro compiti elevati; di forti e un po' stupidi per i lavori manuali. E in generale ogni forma di vita, bella o brutta, forte o stupida, serve i loro scopi.
Così, da un momento all'altro, dopo milioni di pianeti esplorati, eccoli dare un'occhiata alla terra. E quella sera Caio stava proprio andando dal suo amico, o conoscente, o semi-sconosciuto occasionale, a scroccare un bicchiere.
Ed ecco arrivare nel loro cubo i due vermoni, che chiameremo - dato che i loro nomi sono intraducibili - A e B: fiondatisi dalla cosmolinea sub-spaziale che va dalla bianca Rigel all'umida Terra.

E così, Caio...
- Amico, mi devi offrire un bicchiere. Sai quant'è che non bevo, lo sai?
- A giudicare dal tuo odore direi da quando hai voltato l'angolo. Ad ogni modo togliamoci dalla strada, andiamo in un bar e prendiamo qualcosa. Comunque dovresti smettere, ti prenderà il delirio se continui così.
- Oh, mi ha già preso - rispose Caio -, vedo i mostri. Ma cos'è la vita se non una serie infinita di mostri? Meglio berci su.
- Si, certo. Beh vieni, sbrighiamoci.. ma...

Apparvero loro, in quel momento, nella via notturna, A e B, fluttuanti, azzurrini e leggermente fosforescenti, dato che l'ossigeno terrestre faceva riverberare di un lucore opalescente la superficie dei loro corpi.
Sapevano la lingua.
Conoscevano il modo di raggiungere i loro sensi.
Quello che non sapevano ancora molto bene, avendo solo osservato alcune loro comunicazioni, era come fossero fatti, che caratteristiche fisiche avessero e di cosa abbisognassero per vivere.
Così A chiese - Come si chiama la vostra specie? La vostra civiltà conosce la rottura spaziale per muoversi tra i mondi?
L'amico, o il conoscente di Caio, fate voi a seconda del significato che date alle parole, svenne subito.
Un fumatore appeso alla sua finestra, e che osservava la scena, si fiondò dentro e sbarro la tapparella.
Caio invece, come se niente fosse, rispose ad A - Ma che domande sono queste, scusa, e che modi. Tra l'altro è strano, perché le mie allucinazioni fanno molta più paura, e poi sembra avervi visti anche il mio amico qui, che ora è svenuto. E chi mi offrirà da bere, ora, dite un po!
- Vieni con noi, creatura, dobbiamo conoscerti. Solo tu, l'altra creatura sembra troppo debole. -  disse A, e B fece avvicinare il cubo.
- Ma c'è da bere? - chiese Caio
B disse di si. Caio non credeva davvero che ci fosse da bere, ma ormai tanto valeva entrare. Tanto era un'allucinazione, la sua stessa vita era tutta un'allucinazione. Al massimo avrebbe potuto lamentarsi. Così seguì A e B nel cubo.

- Allora signori vermoni giganti - disse Caio strascicando le parole -, il goccio che mi avete promesso?
B disse, nel suo linguaggio criptico, ad A - lo analizzerò
- Fai - rispose A -, di cos'è fatto?
- Di molte cose - disse B - una creatura complessa, ma la molecola dominante è una certa CH3CH2OH, la quale si trova ovunque, dalla superficie del suo corpo fino all'unico cervello. È dotato di intelligenza ma...
- Si -  lo interruppe Caio - proprio quella roba lì, l'alcol, quello che mi avete promesso. Dov'è?
A si assentò in un altro luogo del cubo. Tornò poco dopo con un contenitore colmo di un liquido giallastro.
- Bevi
Caio bevve.
- Amico, sarà pure un sogno ma questo nettare è degno di un Dio - e così dicendo ne buttò giù un altro sorso, appena mezzo litro.
A spiego a B, - al 50% è quella sostanza che lui chiama alcol, al 45% acqua, il restante 5% sono sostanze di cui ha bisogno per vivere, consigliatemi dall'omnibus galattico. Ora che è nutrito potremo osservare se è utile ai nostri scopi.
- Creatura - proseguì A - qual è il tuo nome?
- Senti vermone, vuoi sapere il mio nome? Ma è solo un nome, cosa vuoi che sia, qui, nel mondo dei sogni, il mio nome?
A insistette per saperlo.
- Va bene, va bene - disse Caio - estrasse un foglietto e vi scrisse il nome, poi lo diede ad A che lo afferrò con uno strano tentacolo emerso.
- Ed ora, per piacere, un altro goccetto.
Bevve ancora.
- Sembri intelligente e possiedi una volontà cosciente, creatura, ma hai capacità fisiche?
Caio beveva senza far caso alle domande.
- Corri - disse B -, corri lungo la superficie del cubo, dobbiamo testare la tua resistenza
- Ancora un goccio - chiese Caio
Bevve ancora.
- Bene, sono pronto a correre - partì, e dopo due passi cadde rovinosamente. Rimase fermo.
- Assurdo - fece A - appena due passi. E ora rilevo che ha perso del tutto conoscenza. Come se la coscienza andasse e venisse, e per giunta sembra anche insensibile al dolore.
- Così com'è - disse B - non ci serve a niente.
- No - gli fece eco A -, la sua specie è quindi del tutto inutile, ma possiamo portarlo ad Alpha-Rigel, è pur sempre la creatura più strana e inutile che abbiamo visto nel cosmo. Attirerà molti studiosi all'esposizione delle stranezze universali.
A quel punto Caio iniziò a russare. ZzZzZz-ngh - ZzZzZ-ugh - ZzZzZ-ikh
A e B si guardarono. - Non conosco questa lingua terrestre - disse A
B preparò il cubo per il ritorno alla stella d'origine senza fare altri commenti.

Così viaggiarono, e 2000anni luce si ridussero a niente, a nessuna distanza, ed erano su Alpha-Rigel.
Caio venne messo in una grossa teca di vetro metallico trasparente, con tutte le comodità utili alla sua specie, una enorme vasca di siero alcolico, e fu reso visibile da ogni visitatore del museo inter-galattico.
A volte si faceva persino il bagno in quella vasca, dicevano i suoi custodi. E probabilmente, ma questo lo dico io, pensò da quel momento di vivere in un bellissimo sogno d'ebbrezza.
Chiunque passasse poteva scorgerne il nome, scritto chiaramente sulla sua targhetta, ed era il nome che Caio passò sul foglietto ad A : il nome era "Beone"
E tutti andavano a vedere Beone, lo strano alieno incapace di fare due passi senza cadere, e tutti commentavano l'inutilità della sua specie. Si diceva addirittura che ne esistessero di più inutili, di ancora più deboli, difatti certuni esemplari svenivano all'improvviso, come raccontò l'equipaggio che portò Beone su Alpha-Rigel, senza alcun motivo apparente.
Lui poi, Beone, visse per sempre - dato che fu reso immortale - ubriaco e comodo, nella sua alcova.
E così i lontani abitatori di Alpha-Rigel, osservando Beone, ci credono inutili, e mai più tornano sulla terra in cerca di schiavi.
C'è poi da dire, e lo dirò, che, se mai tornassero, e potrebbero anche tornare, e tornare da me, da te, o da chicchessia, sarà molto meglio, per la salvezza di tutta la specie, farsi trovare ubriachi.

mercoledì 8 gennaio 2014

I santissimi Belar e Sakamaner




A Sumer della valle ombrosa le guglie nella sera incombente s'ammantavano di caligine, e l'incendio del sole morente lambiva l'orizzonte come se anche l'ultimo orlo estremo del cosmo fosse in fiamme. Sakamaner il bello, l'esploratore dorato, il difensore dell'altare di ciò che è vero, osservava dalle mura di Sumer le orde barbariche su carri armati di cannoni Fauser, i Rikatzler addestrati  cavalcati dai nomadi Askr delle steppe di Fine-bosco, i legionari delle paludi salmastre dalle ultime regioni del culto di Ashur-Zar; tutti avanzare per fare della fortezza sacra un cumulo di macerie.
Belar il santissimo, primo sacerdote di Ashur-Zar, signore del mattino, benefattore della specie umana, assiso sulle alte mura assieme a Sakamaner, discuteva di come tutto ciò che rappresentavano, uomini prescelti dal Dio, e palazzo sacro al culto, andasse preservato dall'attacco imminente.
- Noi difendiamo ciò che di vero esiste, dalle lontananze indefinite alla fine dell'universo al piccolo fiore che sboccia e soffia la vita. La fortezza come se racchiudesse tutto questo va difesa, con le unghie e con i denti, con l'ingegno e con l'infinita comprensione che Ashur-Zar ci ha dato dell'esistenza. Questo è il suo tempio e perderlo significherebbe la fine della specie umana per come noi la conosciamo. Terribile sarebbe l'ira di Ashur-Zar.
- Ma come - gli rispose Sakamaner - noi due, soli, contro 10.000 barbari eretici? Impossibile. Tutti sono fuggiti, tutti ci hanno voltato le spalle.
- Sciocco - gli rispose Belar -, se io pregherò nel tempio sotterraneo, e tu combatterai quassù, sulle dorate mura di Sumer, con l'aiuto di Ashur-Zar potremo farcela! Butta giù le scale, schiva i colpi mortali e corri con ardore. E la sacra fortezza sarà salva.
In Sakamaner la fede era forte, l'insegnamento impartitogli della dottrina di Ashur-Zar, il portatore di luce, l'unico vero Dio, era radicato in lui. Egli era il primo cavaliere del culto; non ebbe esitazioni. Corse in cima alle mura, si mosse di feritoia in feritoia, di torre in torre, da merlo a merlo, e saltò, lanciò, ributtò indietro e inveì contro il nemico richiamandosi ad Ashur-Zar.
I barbari, le tribù stanche e armate che volevano distruggere il culto del sacro Ashur-Zar, esauste da anni di tirannia da parte del clero, dapprima stettero a guardare allibite la furia di un sol uomo, dopodiché con ritrovato ardore ripresero l'assedio, come demoni crepuscolari.
E già la sera era matura che la roccia tremò fin nelle fondamenta al fuoco dei cannoni Fauser, le mura oscillarono, le torri gemettero, ma Sakamaner il bello, il dorato difensore di Ashur-Zar, persistette alla difesa.
Tuttavia trascorse il tempo, e la fortezza era perduta.
A notte inoltrata era persa ogni speranza di tenere le mura e Sakamaner corse via verso la cupola centrale, e da lì scendendone gli abissi fuggi nei sotterranei.
Nel basso tempio Belar non c'era.
Dov'è mai Belar il santo - si chiese Sakamaner.
Ovunque andasse per i sotterranei Belar pareva svanito.
Non era forse qui a supplicare il grande Ashur-Zar di prestarmi aiuto nella lotta? - si chiesa ancora Sakamaner.
Correndo qua e la, agitato dall'avvicinarsi delle orde rivoltose, Sakamaner notò una botola aperta. Vi scrutò dentro. L'arrivo dei nomadi Askr, preannunciato da grida feroci, che seppellivano vivi a testa in giù i servi di Ashur-Zar, lo convinse a scendere.
Era assai buio nel condotto, e trattandosi delle fogne - come poi scoprì - vi era un odore sgradito. Uscì all'aperto duecento metri dopo, in una conca coperta dove le falde della montagna su cui la fortezza era assisa si univano come in preghiera a formare uno stretto condotto dove la melma putrescente si infilava.
Dopo aver strisciato nei miasmi putridi scorse il purpureo esplodere dell'alba oltre la valle, e nella sua luce si guardò attorno.
Lì era Belar, sporco e agitato, mentre cercava di ripulirsi dopo aver a lungo strisciato nella sporcizia.
I due si guardarono. Non dissero nulla.
Poi fuggirono correndo, lasciandosi dietro un odore poco invitante.
Dietro di loro il sacro castello di Sumer veniva distrutto, con buona pace del culto, senza che nessuna tragedia in particolare colpisse i suoi distruttori.



lunedì 6 gennaio 2014

Gli uccellini

La nostra cultura è stata distrutta dagli uccellini.
 Svegliarsi al mattino col pigolare dei nidi sugli alberi e sui tetti, sentire lo svolazzo con atterraggio di rondini e piccioni e quant’altro, e il loro canto all’alba, ci dispone verso una ebete benevolenza, ci illude fin dal risveglio che il mondo è un posto felice, che la natura è bella, che gli uccellini cantano per noi.
La percezione che abbiamo della natura è importante, ed è fondamentale chiarire subito che essa è ostile, e ostili sono tutte le forme di vita che la compongono. Se cani e gatti fossero più grandi, ci mangerebbero. Se gli orsi fossero più piccoli vivrebbero nelle case dell’uomo.
In realtà dobbiamo guardarci anche dalla nostra stessa specie. L’essere umano nasce bestia, e per poter poi coesistere ha bisogno di essere addestrato, depauperato dei propri istinti. Tuttavia più sa e meno è felice, proponendosi come adatto a un’istruzione parziale, che lo renda capace – apprendendo il meno possibile – di  vivere un po’, senza far danni, e poi morire.
Perché si lodi così tanto la cultura, e chi ne è detentore, è un mistero. Come misteriose sono le vie che portano ad ammirare il canto degli uccellini, il loro volo, e ci fanno ignorare il verme che si contorce nella pancia.

L’unica felicità è l’ignoranza, l’ignavia.
Oppure andarsene e non tornare mai più.






Eppure Nicolay decise che avrebbe odiato l’ignoranza, e anche la felicità altrui. Nel suo mondo, che non è proprio il nostro – o meglio, mi sento di doverlo specificare -, non è il mio, ne è il vostro, a scapito di chi potesse pensare, o astrarre, che condividiamo un mondo, appunto, nel suo mondo ebbe voglia di mangiare qu..al..co..sa, sentiva il cervello rallentare, se non avesse mangiato qualcosa, magari un pasticcino cremoso, avrebbe seriamente corso il rischio di diventare acefalo.
 Sì recò, com'è normale recarsi se si ha voglia di pasticcini, alla pasticceria con un nome stravagante: Pasticceria pasticceria.
Un ambiente chiuso, senza finestre ne vetrine, oppresso da una cinerea luce al neon che fluttuava da un soffitto insolitamente basso, con un grigio bancone al centro, dove dietro a un vetro opacizzato dal tempo erano accampate delle paste che parevano loro stesse emanare una pallida luce al neon.
Erano in quel luogo altre persone, e nonostante vi fosse uno spazio di circa 4 metri da muro a muro, esse se ne stavano silenziosamente, in fila drittissima, dietro al bancone, così da formare, assieme al bancone, una lugubre forma geometrica somigliante a una L.
Messosi in fila, Nicolay, in ossequioso silenzio, senza sapere chi o cosa si ossequiasse tutti insieme, aspettò il suo turno, strascicandosi sul pavimento appiccicoso verso il mostruoso obeso assiso lungo la cassa, finché non fu il suo turno di scegliere cosa voleva comprare, comprarlo, e andarsene.
Nell’esimia persona del commesso era tutto ciò che potesse ricordare un rospo, dalla mole massiccia alla pelle untuosa, con uno sguardo nient’affatto vivo, e un odore non percepibile nella distanza che li separava, ma indovinabile nell'appiccicume dei capelli; le chiazze sotto le ascelle;  la pelle squamata delle orecchie: ossia un puzzo metaumano.
Nikolay, per niente scoraggiato dalla fila, attese il suo turno senza pensare a niente, neanche alle paste. Poi, arrivato il suo momento, si dispose a parlare, con quei movimenti impacciati che ci portano a comunicare con qualcuno che non ci guarda: attendendo che, appunto, ci guardi.
- Buongiorno – esordì Nikolay – vorrei una.. aaaaeh, aaaa – ed emise una serie di lamenti inintellegibili, seguiti da un soffiare esausto, e accompagnandosi con lo sguardo verso le paste.
- oooooooohh ehhhhhh – continuò Nikolay, sospendendosi come davanti a un nulla cosmico con la bocca spalancata, un rivolino bavoso sul labbro inferiore, e lo sguardo leggermente compresso nelle palpebre che si disperdeva, questa volta, dal soffitto al commesso, molto, molto lentamente; espressione di chi stia portando la sua attività cerebrale ben oltre le soglie dei suoi limiti.
Il commesso, immoto come una statua, con la sua espressione scolpita nel legno, tanto da somigliare a una polena rappresentante la perdizione – e certo la sua nave avrebbe avuto come nome “tutto è perduto” – esitò lungamente, sempre impassibile, seppure iniziasse impercettibilmente ad ondulare avanti e indietro, come un pendolo umano che altro non scandisca se non la propria inutilità.
Poi emise un grosso peto, né lungo né corto, ma solo violento,  come se stesse lì da ore, e per passare avesse bisogno di una certa pressione. Sì cercò il naso per grattarselo, dopo aver trovato orecchie, fronte e collo, e lentamente, dinoccolato, si mosse verso le paste, recitando un flebile lamento a labbra socchiuse, una litania sulla lettera U, un lungo uuuuuuu-uuuuh, trascinando le sordide scarpe, il cui raschiare sommesso, simile a un tarlo antico, forniva il sottofondo spettrale al lugubre locale.
Il concistoro dei clienti dietro Nikolay seguiva la scena come si assisterebbe alla lunga attesa prima di una battaglia tremenda.
Andata e ritorno si fecero attendere lungamente, dato che, durante quel tragitto onirico, una mosca (la quale è ipotizzabile avesse la sua casa dentro una delle paste) disegnando rotte euclidee nell'aria colma di effluvi miasmatici, ebbe l’ardire, e il buon senso, di posarsi sul commesso, il quale si fermò, come colto da indicibile stupore, a ponderare non si sa cosa, guardando non si sa dove, fino a quando il saggio insetto, compiuto il suo dovere, non pensò di tornarsene in qualche pasta.
E finalmente la pasta si posò solenne dinnanzi a Nikolay, così tenebrosa da chiedersi dove fossero i necrofori che fin lì l’avevano condotta; ed era una pasta enorme, era grande almeno quanto il commesso, il quale, per sottolineare argutamente la grandezza della pasta, pensò bene di elargire un altro peto, ma più lungo: un peto di almeno due minuti. La colonna sonora per l’arrivo della pasta.
Nikolay, confuso da tanta devozione, si commosse, e per il peto e per la pasta. Sì fece asciutto, contorcendosi, e pianse. Poi fissò la pasta, strabuzzando gli occhi e tremando leggermente, piangendo lacrime senza emettere alcun suono che non fosse un risucchiare l’aria debolmente, a singhiozzo, emettendo di tanto in tanto dei rochi sussurri, nei quali sembrava chiamare la pasta per nome, adularla; poi tacque.
La prese, pagò, si congedò dal commesso balbettando un po’ di vocali, e se ne andò.
Il commesso restò immobile, non disse niente; i clienti nulla dissero, non si girarono; la mosca mise per un attimo la testa fuori da quello che sembrava un orecchio umano, ma non si crucciò più di tanto.
Non più in nessun luogo di questo racconto, ma altrove, Nikolay fissava obnubilato la pasta, improvvisando una rapsodia lamentosa, mentre dal mondo esterno giungevano cinguettii volanti e pigolii d'uccelli.
Doveva già essere mattina, e doveva certo essere anche la fine di quel mondo in decadenza, di Nikolay, e di chiunque lo abitasse; eppure, in ascolto di un suono così inusitato, tanto da sembrare giungere da realtà incommensurabilmente distanti, Nikolay, emaciato e stretto alla pasta, parve riaversi.
Provò a dire qualcosa, ad alzarsi. Biascicando suoni incomprensibili si sporse alla finestra, respirò profondamente, lentamente, e disse: - Uccellini, belli uccellini. Millantatori nati. Quanto vorrei mangiarvi tutti.

Tornò dentro e amò la pasta.