mercoledì 15 aprile 2015

Dove crede di andare la gente?


La terra tra 1 milione di anni
I


Ma la gente cosa si è messa in testa? cosa le frulla per il cervello?
Si danno tutti tanto da fare, studiano, lavorano, fanno progetti e financo si innamorano; si sposano, ci credereste? e fanno pure dei figli, 'sti criminali!
Ma come, dico io, esiste crimine più grande del mettere al mondo un figlio? E non dico oggi, parlo proprio in generale. Vogliamo creare altra disperazione, non basta quella che c'è?
C'è gente, parola mia, che addirittura ne fa più d'uno, ne fanno tanti, e li chiamano pure con dei nomi assurdi, ci investono, li fanno pure studiare! Almeno li lasciassero analfabeti avrebbero qualche possibilità d'esser felici, ma lo studio, la cultura, ah!, peggio della cultura c'è solo il non credere più a dio: e che forse in un mondo come questo qualcuno può? Giusto gli analfabeti, i miserabili, i poveri di tutto, soprattutto di spirito. Al diavolo il dio dei cieli, al diavolo lui e i suoi giobbe proni come pecoroni.
C'è gente che sorride in foto, si fa le foto e ride! Ma che cazzo ti ridi brutto imbecille che domani muori e oggi già stai messo male, almeno fai finta di niente, che ne so, guarda da un'altra parte. E invece, guardano proprio l'obiettivo e ridono. Ma allora sei stronzo, dillo che lo sei, almeno lo so e manco ti calcolo più. E quello lì, cosa fa quello lì?
È felice! ahahah, roba da matti. Ma in che mondo vivono questi?
Quale realtà assorbono i loro sensi? No, non ci siamo. E dove vanno tutti, di fretta, in macchina, in moto, in scooter, in treno, in aereo, dove viaggia la gente, perché si muove tanto, perché ha la necessità di perdersi lontano, dove gira il mondo, cosa cercano, cosa fanno, un giorno moriranno: perché darsi pena, non va bene una bestia e una canna per pescare, non andavano bene le notti buie e le albe colme di speranza, i timidi Dei dei boschi e la furia della montagna? Non era perfetto, forse?
Ci voleva la civiltà a rovinare tutto questo, gli stati, le banche, il progresso, la scienza, la modernità, i lifting vaginali e gli sbiancamenti anali, la mitologia assolutista del deserto, l'annichilimento degli istinti umani, la grande corsa verso la follia di tutti, le gite in macchina, i paralitici al volante, lo stress, le malattie da stress, le cure alle malattie e le malattie di chi non si cura perché non gliene frega più niente e si ferma e dice: dove vanno tutti?
Vanno in campagna, il fine settimana, a vedere la natura. Ma va la. non vedi che le piante sono parassiti giganti, che le bestie vivono ruminando? Neanche la natura si salva più ormai. E quei colori, mi fanno impazzire. Il colore non dovrebbe esistere, solo la vita in bianco e nero ha senso.
Perché corriamo verso il gorgo che gira, nero, al limite di tutto, in questo impero di ferro e di macchine tutte uguali, dove anche la bellezza è a imitazione di quel paradiso che fu perduto, che era il non saperci, il conoscerci a malapena, il viversi accanto ignari di noi stessi: l'inconsapevolezza perduta, la fuga dai calmi mari del nostro primordiale stato di grazia in questo oceano moribondo dove niente resta a galla.
L'ottimismo, puah!
Mi dicono: sei negativo, pensi male. Ma finitela, pecoroni, tangheri! Cosa state facendo, una gara a chi si illude di più, una corsa verso la delusione?
Oggi ho sentito una zingara in tv, parlava di come va a rubare nei treni. La giornalista, una capra con la croce al collo, le ha chiesto se non le dispiace di lasciare le vecchiette senza soldi. Pensa un po' che domanda, Sauron. La zingarella le ha detto così, che a lei non gliene frega un cazzo, che tanto si muore, e la vita cos'è?
Cos'è la vita? Lo voglio chiedere a quello che va a fare i soldi in cina, o quell'altro che vuole andare al mare per abbronzarsi, per prendere più figa. Cos'è la vita, cosa siete voi?
È come dice la zingara, è tutto un fregarsene. Mi dai mille euro per ammazzare una vecchietta? Li prendo. Per duemila ti ammazzo anche il marito sordo. Fanculo la morale, al diavolo gli altri. Io, solo io e il mio cerchio: e fuori non mi frega più niente, li ammazzo tutti, li scanno per due soldi, pure gratis!
Tanto cosa sono i soldi, non te li puoi mica portare nel nulla, in quella notte senza aurora che è la parte finale di questo schifo di vita, che mi auguro non sia lontana, e poi c'è più un cazzo. Altro che, puah.
Questi vanno, ma dove vanno, dove crede di andare la gente?!

II


C'è quello lì, uno a caso, che mi fa, mi dice, andiamo a mangiare in cima a quel monte, c'è uno che fa i cascioni come quelli di mia nonna, con dentro spinaci e ricotta.
Dov'è che vuoi andare tu?
All'inferno ti mando, ti ci spedisco a craniate, tu e il cascione del cazzo. Fattelo fare da tua nonna, almeno non marcisce davanti la TV.
E ma, mi dice, è per farsi un giro.
Cos'è che vuoi fare tu? i giri?
Ma io questo non lo capisco, non lo capisco come non capisco uno che pesca con le bombe a mano o cose così, ma dico io, non lo vedi, cazzo non ti rendi conto che sei uno scheletro che cammina, che sei nato, sei nato al mondo, sei fregato, sei distrutto, sei una forma di dolore cosciente, e vuoi andare a gare un giro?
In un pozzo devi stare, fermo, zitto, a guardare il buio, a odorare la muffa. Da solo, tu e la maledizione che ti porti dietro, altro che monte, altro che giri, per Sauron!
La regola, l'obbligo, è non divertirsi, non cercare di essere felici. Stare male, sempre, e poter dire: io sto male, quindi esisto. Io non cerco l'illusione, non voglio illudermi: quindi pienamente esisto.
Non sono sfocato, etereo come chi ride. La mia non è un'emanazione spettrale, un a malapena esserci, come chi fa programmi, chi viaggia. Come chi si sposa e crea altri condannati a morte.
Se la nostra civiltà fosse anche solo un po' progredita rispetto ai tempi in cui brancolavamo per le foreste, la sua prima legge dovrebbe esser quella di non fare più figli, di estinguerci. Facciamola finita per piacere, questo carrozzone di dolore che si lascia dietro fumo e macerie, ma che senso ha!
Mettetevi intorno a un tavolo e decidete, una buona volta, che è ora di farla finita. Sterilizzatevi tutti, tagliatevi quei dannati cazzi. Chiudete le donne in casa. Non scopate più, non amate ché l'amore è solo uno spettro del dolore, non figliate, non lavatevi neanche, cosa vi lavate a fare, tanto non dovete più scopare. Ottenebratevi nei sensi, fuggite dal vero: la verità non serve, è una forma di decadenza.
Chi resta sveglio spacchi pure tutto, distruggiamo le nostre città di profumo e cemento, i negozi dove la gente va a comprarsi la dignità di apparire, i bar tutti uguali, le botteghe, le edicole che vomitano merda, tutto alle fiamme, urliamo come scimmie ché è la cosa che meglio sapiamo fare.
Odiamo il diverso, profondamente odiamo ché l'odio ci definisce e fa di noi qualcosa che pulsa, che attrae; e basta essere curiosi: fregatevene di tutto, tanto a che serve, lo ha detto la zingara, dopo muori, la vita cos'è? Nietzsche dice: vivete in modo che alla fine abbiate voglia di vivere un'altra vita.
Io dico: vivi e sbrigati a crepare, e non dare la vita a nulla ché la vita è un male di cui sbarazzarsi, dal quale tendere alla felicità della materia inanimata, o tutt'al più all'ebetismo delle piante, segreto che il buddismo ha da tempo fatto suo. Meglio vegetali che umani.
Meglio pietre che esseri coscienti.
Meglio essere sassi lanciati nel vuoto, e presto lo saremo. Quanto può durare ancora questo universo; poi ne verrà un altro! Affanculo pure quello, io maledico questo e tutti gli universi a venire, che si dannino tutti, che sprofondino in un baratro di inconcludenza come vi è sprofondato questo: che la vita non debba mai aver senso! mai!
Che tutte le creature soffrano e siano condannate a decadere in morte, in dolore, a non comprendersi mai, a odiarsi, a star male, a vagare, cieche, agonizzanti, in questo e in tutti gli altri modi!
Che tutto sia maledetto e perduto, vagate nel buio soli! gemete stelle!
Che l'urlo irreparabile di tutte le cose ci getti nello sconforto e nel pianto.

Non riletto.

lunedì 13 aprile 2015

Necromante

Ogni tanto mollo lì tutto e me ne vado a spasso col mio amico Necromante.
Necromante è un gatto nero, ma ha un'indole da cane. Per nulla infastidito dalla presenza umana si lascia seguire e risponde ai richiami, eredità questa dei primi giorni di vita in cui lo abbiamo, se così si può dire, addestrato a seguirci nel bosco.
Si sveglia dalla dormita pomeridiana verso le cinque, e guardandosi attorno sceglie il da farsi. Bosco o campo? Altopiano o giardino?
In quel momento ti avvisa: guarda che io vado! Mi segui o no?
Ma sì, certo che ti seguo, cosa vuoi che stia a fare qui, arrivo, andiamo. E si va. Nel bosco o per i campi. Prende sentieri strani, piste animalesche e guerriere, stradine inventate dagli elementi del bosco. Si guarda attorno con sguardo fiero, poi torna indietro e ti salta accanto; ha visto qualcosa, è dietro l'angolo dell'invisibile all'umano. Con Necromante tutto è spettralmente presente, un topo che fugge nell'erba, una talpa intimidita che sbuca da terra. Un merlo, un qualche uccellino.
Punta tutto e si lancia per osservarlo meglio. Poi torna e si rimette a fare strada. È sempre lui a fare strada, e io sollevato dal compito di prendere qualsiasi decisione gli cammino un paio di metri dietro.
Passiamo davanti all'altare di Pantarei, il Dio del bosco. Intanto che accendo il lumino Necro mi si rotola affianco. Penso lo faccia per coprire il suo odore alle prede che va cacciando.
Ho finito, e prendiamo la pista dei cinghiali. Per terra è tutto un susseguirsi di zoccolate e nasate, la terra sembra arsa. Sono basse le piste dei cinghiali, i rovi vi formano delle cattedrali silvestri. Cammino un po' curvo, ma Necro mi aspetta. Intanto morde una foglietta fresca. Poi arriviamo in un boschetto di pioppi con una radura in mezzo che sembra il pozzo dei cieli; non sarebbe male ora cadervi all'incontrario, precipitare fino al sole. Necro cammina su un tronco divelto da qualche demone del vento, ci sculetta sopra sospettoso. Poi si alza in volo un fringuello, si riposa, di nuovo vola. Necro lo guata concentrato, muove un po' la coda per darsi il giusto balzo. Parte.
Ma  è un attimo e l'uccellino è già nell'abisso che ci sovrasta, eppure Necro ancora eccitato torna indietro e salta addosso a me, come a dire "qualcosa ho preso, ho preso te!", poi ricorre sul tronco e sparisce in un ciuffo d'erba scura.
Mi avvicino a un laghetto, una polla piena di fango da cui escono strane bolle. Mi chino in avanti e le guardo. Una, due... scoppiano come galassie, vorticano in aria come mondi lanciati nel nulla.
Le fisso e scopro Necro a fissarle. Per lui sono solo cosette che si muovono, ne tocca una con la zampina. Poi si lecca e miagola. Vuole andare avanti, arrivare alla fine del bosco. Niente galassie, niente mondi, solo andare avanti fino a un'altra cosa da fare. Sono pragmatici i gatti.
Seguiamo il sentiero e arriviamo alla quercia capovolta. Lo scorso inverno è franata e ora ha i rami nel terreno e le radici puntate in su, verso il cielo. Sembra un grosso mostro lovecraftiano pronto a lanciarsi in avanti. Mi siedo un po' sotto la sua grottesca ombra, e Necro si siede davanti a me.
Ogni tanto si gira per annusare qualcosa, essere sicuro che tutto sia a posto.
Venendo giù dall'esile sentiero che scende dall'altopiano arriva Democrito, l'altro mio gatto.
Immediatamente si lanciano uno contro l'altro, due morsi e finisce subito in leccate. Demo si aggira come sempre sospettoso, colmo di iniquità come solo sanno essere certi gatti.
Ha un fare malvagio, deplorevole verso tutto e tutti. Ma si trattiene poco, ha sentito qualcosa e deve correre a perseguitarla. Si allontana quasi sul ventre, ha un'andatura da serpente, sembra strisciare di nequizia. Necro prova a guatarlo un paio di volte e poi torna indietro. Saliamo verso l'altopiano.
In cima, dove iniziano gli ulivi, c'è un cane spelacchiato con una pancia da alcolista e lo sguardo da baro. Si avvicina, ma a Necro non interessa assolutamente nulla.
Immagino Democrito che per venire giù deve aver fatto come minimo una deviazione di un chilometro. Necro gli va incontro come se manco esistesse.
Io ho un bastone, se da fastidio al gatto glielo distruggo in testa. Ma è un bravo cane, annusa entrambi, fa un paio di cose stupide, cose da cane, e poi si leva dalle palle.
Bene, andiamo. C'è un orto più avanti, e mi manca il contorno.
Non c'è nessuno, si può prendere qualcosa. Ma non c'è niente. In effetti, in questo mese... Prenderò dell'insalata, del rosmarino da trapiantare, questo mi sembra ben grasso. Magari due peperoncini che stanno seccando chissà da quanto. I carciofi li hanno già tagliati tutti, cazzo.
Intanto Necro gli lascia un ricordino davanti al carretto.
Ieri sera gli ho cucinato del fegato in padella e di roba da lasciare ne ha parecchia.
E poi torniamo indietro, sui passi del nostro viaggio.
Il ritorno è più breve, mi fermo giusto un paio di volte a urinare sulle piste dei cinghiali. Stanotte, con quei loro nasoni, sentendo il mio odore impazziranno. Andranno davvero in paranoia.
Andiamo alla radura, la radura abissale. Qui a maggio ho in mente di fare dei gran falò sotto le stelle. Ho già fatto il cerchio di pietra, le sedie coi tronchi. Necro sa, sa già tutto. È abituato sin da cucciolo a venire ai falò, sebbene tecnicamente cucciolo lo sia ancora. Compie un anno il tre maggio, faremo una gran festa. Si siede su un tronco e sembra quasi chiedersi dov'è finito il fuoco.
Ammucchio un po' di legna, sposto due cose. Basta, quasi quasi torno su.
Qui il legame si separa per ritrovarsi altrove. Necro ha ancora da fare, pisciatine, caccia, cose così. Non serve manco salutarsi, fa un giro attorno a me e si butta verso il ruscello, passando per la Tana del Dolore, un posto dove ho in mente di aprire i cancelli dell'inferno. Ma ne parlerò un'altra volta.
Lo lascio andare, mi piace che siano liberi di fare tutto i miei gatti, anche di farsi del male.
Perché no, dopotutto cosa sarà mai, se finiscono in qualche grana.
Alla fine tornano sempre, sono furbi quanto matti.
E dopotutto siamo solo una bolla che esplode, un frammento d'aria che si getta nel tempo.
Finisce il pomeriggio, e tornando verso la casa vedo le prime stelle. Anche le stelle stanno a guatare, come i gatti nell'ombra dei loro cosmi.
Che bello, mi rilasso sempre con Necro.

Non riletto.


Andiamo?

martedì 7 aprile 2015

Monte Vodka



Verso la fine del primo dannato decennio di questo nuovo fottutissimo millennio passavo le mie notti-incubo in una soffitta. Avevo, questo sì, una stanza mia, volendo. Ma la soffitta era meglio.
Intanto non ho mai sofferto il freddo e gli spifferi non mi infastidivano; poi, cosa volete, ho sempre avuto un debole per ciò che cade a pezzi, per il fatiscente; e inoltre, cosa da non sottovalutare, lì non mi dava noia nessuno. Ero per così dire lontano da tutto.
Avevo una branda e un PC. All'inizio sedevo su una sedia per usare il PC. Poi per far prima c'ho piazzato direttamente il letto davanti. Era un letto buono a tutto, a qualsiasi posizione. Mi ci sedevo con un cuscino dietro, mi ci sdraiavo, volendo ci stavo bene pure colle ginocchia infilzate nel materasso.
La stanza va da se che non fosse proprio pulita. Oddio, a dire il vero all'inizio la curavo, nei ritagli di tempo spazzavo e pulivo. Poi, piano piano, con l'avanzare del mio incupirsi, me ne sono interessato sempre meno. Un bel giorno si ruppe l'unica luce, e da allora fu sempre buio.
Avevo una abat jour e facevo tutto con quella, ma la sua luce era poca cosa, così che, dall'altro lato della stanza, era sempre buio, una sorta di lato oscuro della mia stanza, lato che a volte mi sorprendevo a fissare come se mi aspettassi di vedervi strisciare fuori chissà cosa, chissà chi.
E del resto a strisciare nella mia stanza avrebbe avuto, qualsiasi cosa fosse uscita da quell'angolo catacombale, il suo bel daffare, per motivi che vado scrivendo.

All'inizio furono gli estatè. Usavo molto il pc, appena tornavo da lavoro mi mettevo a fare cose, quasi sempre a giocare. Acqua non ne bevevo, e anche il cibo a dire il vero lo inseguivo poco. Mi nutrivo al 50% di estatè, con quel suo bel succo micidiale tutto zucchero e ultra-caffeina. Non avevo tempo di alzarmi, a malapena accettavo di dover andare a fare pipì. Così bevevo e appoggiavo, bevevo e appoggiavo. Era una droga quel dannato tè. Ricordo nitidamente come, una mattina assolata, così chiara che quasi si scorgeva il fondo del lato oscuro della stanza, mi alzai sul letto e vidi qualcosa come cinquecento brick di estatè appoggiate ovunque, sulle mensole e per terra, accatastate dirimpetto al muro e tutt'intorno alla tastiera. Faceva caldo e non avevo tempo di pulire: in quel tempo puliva qualcun'altro.
Poi venne il periodo della birra e delle mangiate notturne.
Compravo delle scadenti lattine da discount e appena tornato a casa mi mettevo a vedere film in streaming tracannandole. Verso le due di notte scendevo a farmi un pacco di tortellini rana con un sughetto tutto aglio, pomodoro, peperoncino e una valanga di parmigiano. Li divoravo davanti al PC e poco dopo svenivo nel letto. Il giorno dopo era come non aver dormito affatto, ma non mi sono mai distinto per essere uno che tiene a brillare sul lavoro. Difatti non molto tempo dopo mi licenziarono.
Ma non per la mia attitudine allo zombismo, avevo solo dato un paio di schiaffoni a uno.
Così, senza l'incombenza quotidiana dello schiavismo lavorativo, ebbi modo di dedicarmi con più passione alla mia soffitta.
Con tutto quel tempo libero la prima cosa che feci fu di cessare immediatamente qualsiasi velleità sanitaria. La pulizia era un demone ricacciato dentro qualche cancello degli inferi da non nominare mai più. Ragnatele, polvere e bottiglie di birra. Credo di averne ammucchiate a centinaia, dal letto alla porta c'era un sentiero, tutto all'intorno bottiglie, la valle dei vetri. Al buio sembravano tanti fanti pronti alla guerra, e arrivavano fin laggiù, al lato oscuro, scivolando in una penombra inquietante. Ogni tanto se ne muoveva una senza cadere. Chissà cosa ci passava accanto.
Poi venne Monte Vodka. Dapprima furono solo alcune bottiglie vuote appoggiate al muro, in mezzo alla stanza, tra la luce della abat jour e la fitta tenebra del lato oscuro. Col tempo si accrebbe, le notti una dopo l'altra donavano un pegno alla montagna. Divenne possente e vasta, a tratti in ordine, su altri versanti prossima alla valanga. Davanti a Monte Vodka un altopiano di bottiglie di birra vuote, rifiuti, scatarrate e cicche di sigarette.
Come un'isola umana in un mondo alieno il mio letto fungeva da salvagente e da nave. Il sentiero verso la porta si faceva via via sempre di più difficile percorribilità.
E in questo modo le cose andavano avanti, senza che me ne importasse nulla. In camera ci andavo solo per dormire e usare il PC. Bevevo e lasciavo tutto in stanza. Sacchi entravano e mai nulla ne usciva.
A un certo punto iniziarono le frane.
Non so bene come successe, tant'è che spesso la notte mi destavo, nel mio sudicio letto, e udivo il vetro scorrere e spostarsi quasi fosse vivo. Sia chiaro che anche di quello me ne fregavo, dopotutto può mai interessarsi di qualcosa qualcuno che non si rifà il letto da sei mesi e dorme in jeans? le coperte al massimo le rimescolavo come si fa con la polenta.
Nella soffitta non veniva mai nessuno di esterno alla casa. A un certo punto, più o meno da quando iniziarono le frane, smisero di venire anche gli interni.
Rimasi solo in un posto che ormai, semplicemente, aveva raggiunto un tale livello di sozzura, di disordine e di cumulazione di rifiuti da essere irrecuperabile. Solo un incendio o la detonazione della casa avrebbero potuto sanarlo.
Fu allora che mi spostai al piano di sotto, lasciandomi dietro le mostruosità di tre anni scellerati ma bellissimi.
Potei farlo grazie alla rottura del mio PC. Ricordo ancora quando avvenne.
Stavo scolandomi un cartone di tavernello mentre guardavo qualche oscenità in streaming, e all'improvviso la macchina prese fuoco. Era gennaio e c'era un metro di neve fuori dalla porta.
Pensavo di avere un infarto, sentivo un gusto metallico in bocca. Poi mi comprai un portatile, e grazie a quello potei evitare di tornare spesso lassù.
Fuori dalla soffitta c'era un vasto terrazzo completamente in abbandono. Lì iniziai a spostare le bottiglie che all'interno non sapevo più dove mettere. Pensavo di buttarle via, prima o poi.
Ma non lo feci mai. Quando ce ne andammo da quella casa il proprietario ci chiese, cortesemente, di sgomberarla e riconsegnarla pulita.
A modo mio lo feci, spazzai e buttai fuori la vecchia branda e il PC ancora annerito dalle fiamme. Tolsi persino lo stereo che un giorno avevo lanciato contro il muro, e una catasta di vecchi fumetti imputriditi dall'umidità. Per il rigagnolo scuro in terra nello spazio in cui passava il fiume soffitta (ci pioveva dentro) feci il possibile, ma un segno di marciume rimase.
L'unica cosa che lasciai furono cinque o seicento bottiglie di alcolici, tutte ben bene ordinate lungo il muro, e una grossa scritta sul muro, un colossale PORCODIO, non disegnato ma scavato direttamente nell'intonaco. Il tizio provò a dirmi qualcosa quando lo rividi, ma chi cazzo l'ha sentito.
Andarmene mi dispiacque, ma in fondo bisogna sapersi lasciare alle spalle i propri ricordi.
Da allora non ho più scalato nessun Monte Vodka, e a volte quella lurida topaia mi manca.

Ricordo che una notte me ne stavo sdraiato sulla brandina a bere birra ascoltando musica. Pensavo a una tizia che mi piaceva a lavoro e che progettavo di avvicinare. Mi dicevo che sarebbe passata anche quella cosa come passa ogni dolore quando sentii il solito trambusto venire dal lato oscuro e mi voltai a guardare. Non vedevo niente inizialmente. Poi qualcosa si mosse, fece dindinnare le bottiglie come tante campane pazze per fermarsi a un angolo, a osservarmi.
Ma cosa sei, tu, che vivi nel buio e mi guardi star male? Vieni, vieni avanti.
Non so cosa avrei voluto che fosse, a volte desideravo uscisse una bella ragazza, a volte qualcosa che mi divorasse. Quella sera volevo decisamente una ragazza che mi divorasse.
Ma non uscì proprio nulla. La cosa così com'era venuta sparì senza una mossa. Magari è ancora lì o forse è morta.
Ma sì, infondo potrebbe trovarsi ancora nella vecchia soffitta e aver ricostruito Monte Vodka.
Qualsiasi cosa fosse qualcosa da me deve aver imparato.
Spero non tutto.





venerdì 3 aprile 2015

Mia nonna

Mia nonna non assomiglia manco per il cazzo a questa qui



Si aggira per la casa una presenza strana, talmente assurda che sembra quasi irreale. Mia nonna striscia lenta fuori dalla sua tana, col gatto in braccio, farneticando parole sdrucciole, per poi sparire dietro l'angolo.
Ansimando poi torna indietro, e con fare sospettoso si guarda intorno, in cerca di qualcosa che non c'è mai stato, ma con un dubbio accennato. Poi precipita nuovamente nella sua grotta fatta dal buio e da uno schermo acceso, e io la osservo pensando: ma cosa c'è dietro?
Primo Levi ci ha ben detto che in determinate circostanze un uomo cessa di essere tale, ma mia nonna? è ancora umana?
Cos'è infondo l'uomo se non la percezione che abbiamo di noi stessi, un errore della storia, dell'evoluzione?

Oh beh, poco importa, sono le due e mia nonna è davanti alla televisione, in camera sua.


Vi si ritira appena finito il pasto. Predilige gli spazi scuri per via della depressione, e sebbene se ne lamenti ha in realtà abdicato ai rapporti umani. Infatti non sta granché bene in compagnia, esibisce un disagio quasi adolescenziale. Adottata dalla sua televisione, orfana inconsapevole dell'esistenza, vi si è arenata davanti senza porsi l'obiettivo di comprenderla. Si sposta da un canale all'altro senza soffermarsi mai troppo a lungo, ignara di ciò che vede. Ancora non senile, il suo è un ebetismo voluto, una sciocchezza desiderata.
Ma infondo è sempre stata così, superficiale e pressapochista.
Ricordo che una volta mi mandò in campeggio con un costume da bagno bianco, un paio di mutandine completamente chiare. A ogni bagno si vedeva tutto, ero in pratica un nudista. Ma è inutile ripensarci, dopotutto l'essere cresciuto con lei per via della dissolutezza dei miei genitori era una prova a cui non arrivava preparata. Incapace di badare ai suoi stessi figli sin da giovane non poteva certo riuscire ad assistere me, salvo assediarmi con una mollezza caratteriale sfociata in un soffocamento madonnineo, un elogio del dolore-amore verso la prole tipico del proletariato cristiano.
Rimpianto di tutto, esegesi del parto vivente, mia nonna è salita sulla cattedra del girarsi dall'altra parte, santa per meschinità, nobile per piccolezza.

Per parlare di mia nonna oggi, però, serve un linguaggio più sciolto, un'espressività scritta non pensata; per scrivere di mia nonna devo pensare come lei, facile e immediato!
Ora, dicevo, ha un gatto, che condivide con lei i lunghi pomeriggi densi di cupezza. Il mattino, sia chiaro, errabonda verso il cimitero. Va a trovare sua figlia, morta qualche anno fa.
Lì si scioglie in pianto, esaltando le sue doti drammatiche. Dopodiché si rifugia in casa, e inizia l'eterno calvario.
Freddie, il micio, il suo "amore piccoletto", non pesa ormai che qualche grammo. Sembra un ossario. Depresso come un dannato, Sisifo tra camera e salotto in questa piccolissima casa, mangia e vomita come in preda a una bulimia ossessiva, gonfiato come si gonfierebbe un rospo da attenzioni maniacali.
Davanti alla TV, al suo fianco, vegeta come una pianta dotata di vista; spaventato da tutto, in attesa solo di un altro pasto, vive a malapena, come in attesa di una catastrofe imminente.
Per lei è il più bel gatto del mondo, la sua stellina dorata. A vederlo provo quasi pena e mi chiedo se non sia il caso di soffocarlo col cuscino.
E tuttavia non lo faccio, sarebbe capace di spendere migliaia di euro per la sua sepoltura. In realtà anche la possibilità che si ammali è da temere: in quel caso le spese sarebbero assurde. Anche se non è da escludere una imbalsamazione. Magari fatta in casa.
Quel che posso augurarmi è che continui a vegetare ancora per un po', col suo miagolio anemico di gatto annoiato.

Il modo in cui mia nonna vede la televisione, poi, è più che mai singolare. Tra suicidio e speranza, oscilla da un canale all'altro, pendolo solitario, senza soffermarsi su niente. Osservandola pare quasi che non colga dialoghi o risate: solo osserva i visi cercando di cogliere emozioni ch'è ormai incapace di provare lei stessa. A qualsiasi stimolo reagisce scocciata, alle telefonate ribatte con fare scontroso.
Se esposta al sole si dibatte come una creatura della notte.
Prima, affacciato, guardavo il giardino e mi abbronzavo. Mi è passata dietro col gatto in braccio - lo porta a fare pipì, povera bestia - borbottando innervosita. Troppa luce! Troppo vasto il cielo che si vede dalla grande finestra. Catacombale in ogni lamento torna subito a rifugiarsi nel suo antro ammobiliato.
Le feste la fanno adirare, come tutte le persone profondamente ferite dalla vita desidera il malessere comune senza che questo, avverandosi, le dia gaudio. Non cucina né fa altro. L'immobilità è il suo dogma. Sebbene sia sana di corpo come è ancora lucida di mente. Propensione alla malattia immaginaria, dentro di se si sente tutta una lagna. Un lamento di tutte le cose le vive dentro senza avere i mezzi per esprimersi. Così lì dentro muore, imputridendosi e puzzando.
Fa una gran puzza mia nonna, e come se non bastasse cammina scoreggiando.
I problemi di udito l'hanno ulteriormente isolata e inacidita, si esprime solo con toni vocali altissimi e pretende altrettanto.
Il mio eloquio non urlato le è intollerabile, come quello di chiunque altro. Capacissima di non proferire parola per delle ore, spesso se ne esce dal nulla con le più assurde stramberie mai udite.
Ossessionata dall'ordine, cambia posto ai suo piccoli soprammobili quotidianamente, sposta mobili e crea passaggi. Nel suo salotto-casa sembra di trovarsi in un gigantesco orologio, dove giornalmente come ingranaggi le cose si spostano di qua e di là, tictaccheggiando pazze.
Atea nel profondo, bisognosa del tutto-adesso, prova talvolta a rifugiarsi nell'erosione del cristianesimo, religione che per povertà interiore le si addice, senza però trovarvi un vero conforto se non quello del pianto. Poco simpatizzante del dio morto per lei troppo complesso, e diffidente verso la vacuità del Padre eterno, si lascia ammaliare dal fanatismo esplosivo dei santi, dalla loro propensione al martirio e al dramma umano. Rivedendosi in quelle vertigini sgolate, in quel luttuoso amore verso il creato, chiude gli occhi e si finge anch'essa tale: autolapidazione interiore, rattrappimento disperato.
Ogni tanto viene una vecchina che sta di casa qui accanto. Le chiede se ha bisogno di qualcosa, ci parla un po'. Ma la tratta malissimo, la tratta come una bestia. La sua è una vecchiaia mostruosa, con le unghie e i denti, e appena può prova a sbranare qualcuno.

Sono io, come dicevo, a cucinarle, ma nulla le va mai bene. Ex cuoca in un ristorante da beoti, s'illude in cucina come in tutto il resto di aver compreso la verità più intima, ottenuto il segreto del "così va fatto!". Ma è solo un attimo, la sua incapacità nell'interessarsi a qualsivoglia cosa, eredità di una vita trascurata, unita a una depressione cullata a lungo e deflagrata con la morte di sua figlia, le impediscono di affermarlo, e dopo un attimo è lei stessa a non esserne più sicura, questo relativismo affranto.
Potrei invitare una ragazza a casa sua, portarla in salotto, spogliarla e farci di tutto, senza aver mai paura che lei possa all'improvviso uscire dalla sua stanza. Quando sta per farlo, si annuncia schematicamente allo stesso modo. Dice al gatto "andiamo", e ciò vuol dire che ha deciso di dargli da mangiare. Poi piano piano lo scuote, ci parla, si lascia andare a effusioni imbarazzanti persino per una balia russa, una nanja, (e lo dico io che ho due gatti), e piano piano, con una pigrizia incattivita, lo prende in braccio; ma non c'è dolcezza, i suoi modi sono bruschi e ansimanti. Appena esce dalla stanza, senza remore, si lamenta della troppa luce, del sole e di tutti gli astri, "cos'è tutta questa luce", bercia, trotterellando in bagno disgustata. Lì attende che il gatto faccia pipì nella sua vaschetta, poi gli dà la sua pappa. Quel povero animale, prolungamento del suo strazio, mangiucchia qualcosa, e a tal punto è atterrito che subito rifugge nella sua stanza. Neanche con la porta spalancata si azzarda a uscire di casa. Così lei lo segue. Oppure fa una merenda veloce. Mangia in piedi, mangia da incazzata. Si da fastidio da sola perché lascia briciole e macchia. La casa per lei non va abitata, va solo pulita e tenuta in ordine. Così facendo mette in ordine e pulisce se stessa, ossessionata da ciò che in lei non va senza avvertirlo.
Tornata in stanza si ributta a capofitto tra un canale e l'altro, senza che ciò - ne sono sicuro - le dia sollievo. Mi immagino faccia finta di essere lì, di parlare col tizio che parla, di giocare a quel gioco, di essere un qualcuno che ha fatto qualcosa e lo sta raccontando. Vive nella finzione di essere altrove, si sceglie un ruolo e vi si adatta.
La frase che è più spesso esclama è qualcosa che si avvicina al "non me ne frega niente", apolide del mondo tangibile dev'essersi creata un qualche paradiso fittizio in quel suo cervello esasperato.

In realtà, sebbene non a questi livelli di avvelenamento, è tutta la sua generazione che davanti alla TV vive morendo. Lei lo fa particolarmente bene, si può quasi dire che lo faccia a un livello estremo, col suo stendardo rannicchiato, prodromo di ogni rinuncia.

Ora, cosa volete, mi par di aver scritto anche troppo su mia nonna, la chiudo qui. Mi alzo, prendo un coltellaccio, entro nella sua stanza e pongo fine a questa eutanasia dilatata, che tra l'altro non ha nulla di dolce. Prima lei, poi il gatto. O forse lascio vivo il gatto. Magari con un cadavere in stanza ritrova l'appetito.

Dimenticavo. Qualche tempo fa sembrava avere un sussulto vitale. Si era innamorata del nuovo papa. Che poi mi sono sempre chiesto se si masturbi ancora, con tutti quei telefilm che vede chissà cosa le bolle in testa. Va beh, dicevo del papa. Se n'era proprio innamorata. Mi chiamava - in quel periodo ero in Liguria - per dirmi che, effettivamente, il papa era proprio un papa, mica come l'altro che non sembrava un papa, e che insomma, con quelle scarpe, quei modi di fare, era uno di noi, uno come lei.
Insomma s'era infatuata di francesco, quel gesuita mondialista maledetto. Ma io, cosa volete, le davo corda, tanto lo sapevo che non durava. Non dura mai niente con lei. Ora s'è già stufata, non gli dà più peso neanche se lo vede al telegiornale. Oddio, qualche ritorno di fiamma si vede ancora, ad esempio ha preso il suo calendario. Lo tiene nello stanzino dove dà da mangiare al gatto. Sì perché, ecco, funziona così, il gatto da solo non mangia neanche più, tra un po' bisognerà imboccarlo. E mentre aspetta che il gatto mangi, lei cosa fa, guarda il papa. Ecco cosa fa.
Ma va bene, lasciamo pure stare. Come ho detto ora prendo il coltello, e vado.


giovedì 2 aprile 2015

Mutilazione e altre amenità

Il mio kit per mutilazioni 

Quando avevo sedici anni le mie capacità di socializzare erano pressoché nulle e fortemente condizionate dal profondo disagio interiore che mi divorava.
Di logica avrei dovuto escogitarmi migliore, balzare dalla corruzione umorale in cui stagnavo verso una maggiore caparbietà comportamentale. Ma non sono fatto così. Io, ecco, sono invece fatto in quest'altro modo, ossia cerco di fare il meno possibile, di farlo male - o artisticamente, come viene viene buona la prima - in attesa che gli eventi mi franino addosso.
Che siano macerie o allori poco importa. Cosa importa in fondo?
Così, adombrandomi alla ricerca di una soluzione, trovai questa: mi taglierò una gamba!
La cosa, bisogna dire, aveva un suo senso. Intanto il problema del reddito era risolto per sempre. Che forse lo stato avrebbe potuto dimenticarsi di me, poverino, senza una gamba, di uno che per recarsi da un posto all'altro doveva saltellare, che persino nello stare seduto abbisognava di reggersi ben bene con le mani? Non avrebbe potuto, assolutamente. Così avrei avuto una pensioncina tutta mia, e una cosa era risolta.
Va da se che neanche gli altri avrebbero potuto continuare a dimenticarsi di me, com'è quel detto? ah sì, Quando resti mutilato tutti si ricordano di te, già, e siccome una cosa tira l'altra, e nel trascinarmi in giro con fare gentile - grazie, grazie tante! - i miei nuovi amici mi avrebbero presentato a tante persone, alla fine mi sarei anche trovato una ragazza ( a sedici anni ne avevo un bisogno disperato), una ragazza a cui avrei potuto tranquillamente dire, per piacere, prendimi l'acqua, in estate, e la vodka d'inverno, perché dopotutto senza una gamba anche la mia pigrizia avrebbe assunto nuove giustificazioni.
Ehh, se solo a sedici anni avessi avuto il coraggio di tagliarmi una dannata gamba ora la mia vita sarebbe migliore. Oddio, non che faccia completamente schifo, cose belle ogni tanto ancora ne accadono, ma... inutile girarsi intorno, senza gamba sarebbe stato tutto diverso.
Ne parlai anche a mio padre, un giorno gli dissi "forse senza una gamba andrebbe meglio". Mi rispose che ero un imbecille. Non  ne tenni particolarmente conto, in fondo era la sua risposta standard per qualsiasi cosa. Paura del buio? Imbecille. Problemi con gli altri? Imbecille. Insicurezza e ansia? Imbecille. Non te ne tenni affatto conto. E fu anche l'ultima volta che provai a parlarne con altri.
In realtà a farmi desistere fu qualche altra idea, sicuramente più accessibile e meno dispendiosa di energie, perché dopotutto io cerco sempre di fare il meno possibile, male, in attesa che qualcosa mi frani addosso. Possibilmente quello che desidero, ma se anche viene altro cosa volete che sia, non è la stessa cosa alla fine?

A pensarci bene in quello stesso periodo in cui fantasticavo di amputarmi una gamba per accrescere la mie capacità sociali, non proprio tutto fu da buttare via. Ricordo, infatti, che mia zia, la sorella di mio padre, quello che mi dava continuamente dell'imbecille, stava per sposarsi. Beninteso lui al matrimonio non venne, la considerava una cosa da imbecilli - specie dopo il suo divorzio -, mentre tutti gli altri più o meno vi si dedicavano. Il mio compito, nella fattispecie, era di non fare assolutamente niente. Non prendere in giro gli sposi, non fare battutine, non rovinare i preparativi, non rivangare troppo il passato. Insomma, nulla di nulla,
Mia nonna, poi, neanche fossimo chissà quale famiglia dell'alta borghesia, pensò bene di preparare un rinfresco, da consumarsi esattamente la mattina del fatidico giorno, prima della cerimonia e, ovviamente, del pranzo pomeridiano.
Così non badò a spese! Per appena una ventina di persone che sarebbero venute a vedere la sposa uscire di casa acquistò centinaia di bibite, salatini, tramezzini e altre sciccherie varie da bar. Eravamo realmente invasi da ogni sorta di ben di dio, tra cui ricordo con un pizzico di commozione le dieci scatole di crodini, bevanda di cui all'epoca, prima di scoprire il dolce abbraccio materno dell'alcol, andavo ghiotto.
Il suo errore fu, probabilmente, di dotarsi di cotante scorte non uno o due giorni prima del matrimonio, ma ben due settimane, così che ebbi tutto il tempo di dedicarmici con avidità e un pizzico di crapuloneria. Al giorno stabilito sopravvivevano sufficienti salmerie da soddisfare gli anemici invitati, già sazi prima di attingere al banchetto. Ma io, sanato nella mente e nel corpo da siffatte prelibatezze, come se per due settimane avessi succhiato un morbido seno, ero completamente appagato, così tanto da non spendermi con neanche troppa cattiveria nel ricordare, agli sposi e gli ospiti tutti, che matrimoni e promesse, progetti e illusioni sulla vita a venire, altro non sono se non, appunto, illusioni, miraggi nel tempo, ma a malapena ne accennai, troppo soddisfatto com'ero da tutto quel crodino, quei tramezzini, quelle tartine preconfezionate, il bitter, le pastine (salate, odio i dolci), e poi ecc, ecc, ecc
E per quei giorni dimenticai persino di tagliarmi la gamba. Infatti alla fine non se ne fece niente.
Ma che mangiata. Ecco, quello è stato non dico il migliore ma uno dei più bei periodi.
Il periodo dei crodini che mi impedirono di tagliarmi la gamba.

Ne bevvi circa duecento in due settimane