mercoledì 28 dicembre 2016

Un inverno per sterminarli tutti



Sto scrivendo ed è il giorno più corto dell'anno, farà notte alle.. non so, diciamo verso le 16, va bene? farà notte verso le 16 o giù di lì, e fino a domani alle... non ne ho idea perché mi alzo alle 13, ma diciamo che fino alle 7 del mattino non si vedrà il sole.
Ci vuole un bel coraggio per lamentarsi di tanta oscurità, però ecco, non so cosa dire, alla gente non va mai bene un cazzo, ho sentito persone lagnarsi di tutto, persino del fatto che a dicembre fa freddo: che viziati.
Tra l'altro del freddo non c'è ancora traccia, stiamo diventando un dannato paese tropicale perennemente umido e afoso. Mi manca sempre l'aria e non sono ancora riuscito a mettermi un maglione, ho su magliette da agosto. Mi sembra che gli alberi stiano marcendo per quanta umidità c'è, senza contare che il freddo serve anche ad ammazzare certe bestie che altrimenti ci sommergerebbero, così come la pioggia a lavare un po' di schifo che c'è in giro. Ieri sera pioveva ma per la prima volta da un mese. Anche questo mi sembra poco normale.
Ho l'impressione che pure gli edifici storici stiano marcendo, è come se con la complicità di tutto, anche del clima, la nostra civiltà stia andando in putredine anno dopo anno, e allo stesso tempo riempiendosi di roba che non c'entra un cazzo e che ne accelera la putrescenza.
Eppure quanto ci farebbe comodo un Inverno rigido e nevoso. Perché? ma intanto farebbe bene a noi, tutti hanno il diritto di starsene almeno due settimane l'anno in casa a guardare la neve che cade infilando calmanti dentro il punch caldo, per poi rimboccarsi ben bene le copertone e sognarci dentro al caldo, col lenzuolo che copre la faccia; così come tutti hanno diritto a leggere un buon libro davanti al camino, mentre mandano giù calmanti, e fuori il gelo spacca le pietre.
Questo era pacifico.
Poi vediamo, ah sì, gli stranieri. Gli stranieri non sopportano il freddo, anche questo è pacifico.
Va da se che per stranieri intendo i non-europei. Pensate che effetto avrebbero certe temperature sugli africani, roba che se ne tornerebbero in massa nel loro bel continente, senza contare che, insomma, di sicuro finché le temperature sono glaciali non ne arriverebbero, o arriverebbero talmente cotti dal gelo da spezzarsi come statue di vetro appena toccano terra.
La natura, poi, verrebbe spazzata via, totalmente, senza pietà. Niente di vivo tranne le profondità delle radici e delle tane. In superficie tutto tace, nulla si muove che non sia stato scosso dal vento. Una rigenerazione vera, profonda, che permetta davvero un rifiorire a primavera, e che non sia una semplice pausa con diritto di partecipazione. Le piante devono morire come morivano una volta. Ora muoiono? ora non muoiono più, si limitano ad appassire per un po'. Devono morire! L'inverno che ho in mente farebbe morire tante cose. Pure un cavallo che se ne va in giro fuori dalla stalla, dove vai? tac, morto, stecchito. Così impari a stare a casa tua, no che te ne vai in giro. Il freddo non perdona. Se muore un cavallo figuriamoci un nord africano che non ha neanche il pelo.
Dodici metri di neve, dodici metri! le case dal tetto piatto non devono esistere, ma le avete mai viste quelle case lì? dodici metri di neve e poi che ci resta, crolla tutto e via, andate a costruirle in africa quelle schifezze. Mi sto innervosendo. E le palme nei centri storici? il gelo le brucerà, a primavera - lontana, non prima di luglio - devono esserci solo piante europee, le palme andate a piantarle al cairo maledetto il signore. Ci siamo capiti?
Se ci siamo capiti allora va bene. E poi sentite, io nel freddo dell'inverno che verrà ci voglio buttare pure chi guarda forum. Lo so che ci sono individui peggiori al mondo, vorrà dire che a quelli ci penserete voi. Io ce l'ho con chi guarda forum, stupidità popolare e giudici insieme. Ma andate a drogarvi. Mi verrà in mente altro quando ci penserò un po'.
Va be' su, non importa. Qualcuno sotto la neve ce lo si deve mettere per forza, poi con calma si decide chi e come. A proposito di calma: quando vedo le... non so neanche come chiamarle, lucine natalizie? Tutte quelle luci lucette e lucine sparse ovunque da dicembre a gennaio, che sembrano voler minacciare le lunghe notti con il loro sfolgorio epilettico e una tonnellata di cattivo gusto, ebbene quando le vedo non sto calmo per niente, anzi, avrei voglia di fare stragi indicibili e incendiare tutto. Perché rovinare il mondo con degli orpelli simili? non fa già abbastanza schifo?
Se su una brutta città stendi un manto di lucine rimarrà sempre una brutta città, tutt'al più assurgerà al rango di puttana travestita. Proprio così, e non è un caso che in generale si sentano tutti più puttane, il natale ci introglisce e ci rende pure un po' frocioni.
Dodici metri di neve sopra le città illuminate e i frocioni.
Qui ci vuole un po' di gelida rabbia, di astrattismo dilaniante per fare di tutto uno schizzo di sangue e proiettarlo sulla pelle e sui muri: e poi cannonate.
Mentre scrivevo è sceso un buio fitto e l'alba è lontana. Che pace, che rabbia.

Sto scrivendo ed è l'ora più lontana dal giorno, quella in cui si può fare e dire tutto a patto che nulla ci disturbi. Qualsiasi cosa la puoi tirare fuori. E farla.
Se quello che voglio fare lo scrivo poi non si avvera. No, oh no no, non si avvera. Bisogna che vada e lo faccia. Ora che è buio, sì sì, vado e lo faccio. Lo faccio lo faccio!
Li ammazzo tutti, tutti! e poi che mi vengano a cercare, qui, nella notte più lunga!




martedì 4 ottobre 2016

Sulla religione o giù di lì




Come ci regoliamo sulla questione della religione?
Sono abbastanza convinto che l'ateo, l'individuo che non crede a nulla, colui che non ha una fede, sia meno ricco interiormente, meno bello dentro. Intendiamoci, è una generalizzazione, ma che farsene di un universo senza Dei?
Allo stesso modo certo l'ateo pensa: che farmene di quest'universo?
E quando una cosa non ti serve, anzi appare come un peso, è ingombrante, indesiderata, allora prendiamo a detestarla, insomma ci sta proprio antipatica: così la vita. Così l'ateo e il nichilista.
Allo stesso modo, o in uno simile, mi chiedo: cosa farsene di persone del genere? a cosa possono essere buone?
Intendiamoci, non sto parlando di intelligenza o prontezza di argomenti, ma di pura e semplice utilità umana. A che cazzo mi serve un nichilista-pezzo-di-merda che non crede a niente? Costui non è convinto neppure - lasciatemelo dire - che sono davanti a lui mentre gli parlo.
Che forse posso fidarmi di un tipo del genere, che non crede nel bene e nel male, nel giusto e nello sbagliato - o che so, persino alla luce del sole, e in qualsiasi altra cosa, e anzi tutto soffre e ha in odio, tutto annoia nello stesso modo in cui lo percepisce inutile e privo di senso, e anch'egli si percepisce inutile e privo di senso - me ne posso fidare?
Forse sì, devo dire a difesa mia e del genere, ma probabilmente no. Cazzo no!
Qualsiasi discorso diventa superfluo, il minimo gesto un insulto alla vuotezza delle cose. Mi ha detto una ragazza con cui stavo parlando: "non riesco a leggere quando sto male" - che discorsi! uno legge solo quando sta male, se sta bene fa altro, le ho risposto.
E ancora mi ha detto "vorrei stare bene".  Assurdo, ho ribattuto, nessuno sta bene, è impossibile, il solo desiderarlo mi sembra incredibile, pazzesco, chi cazzo è che vive e al contempo sta bene? ma neanche delle piante coscienti, neppure chi è convinto di stare bene, di essere felice. Convinto di che poi.
E ho pensato che dev'essere proprio difficile parlare con uno come me, un nichilista totale, uno che non accetta che nei discorsi si usi la parola "spero" perché equipara la speranza alla fede in un Dio lontano; e ho pensato anche: a cosa servo?
Non che volessi trovarmi un senso, per carità, ma per gli altri, intendo, a furia di dire come la penso, di fare certi discorsi, di potare meticolosamente qualsiasi illusione dall'albero dell'esistenza, che idea do di me, mi scredito, sono pesante, faccio paura, offendo, molesto, ferisco o sono ingombrante?
Sì, sicuramente è così. Andiamo, la gente non vuole atei disperati et similia intorno. Persino io mi sento più tranquillo in compagnia di un credente. Non uno in particolare, un credente qualsiasi, fosse anche nell'oroscopo ma che per Dio creda a qualcosa!
Non che la compagnia di una persona capace di confidare in un ordine superiore mi renda simile a lei, nient'affatto, soltanto, diciamo, mi tranquillizza, allo stesso modo in cui vedendo un bel quadro mi percepisco al di fuori di quella bellezza ma ugualmente ne godo la presenza qui e adesso.
I nichilisti, puah, non mi fanno manco più ridere. Basta la mia di disperazione, non me ne serve una d'appoggio per concretizzarmi. Non scherziamo, è bellissimo parlare con gente di tutti i tipi ma specialmente con chi non capisce un cazzo. Non che io capisca più degli altri, s'intende, anzi, tutt'altro, però diciamolo, c'è gente che, mah, in testa ha il sacchetto dell'umido, non saprei bene neanche come definirli - come vogliamo definirli? -, quelli che credono agli alieni? - chi pensa che in tv ci sia qualcosa di vero? - quelli che "non lo so se credo a Dio" - o quelli che seguono tutti gli sport -, insomma non lo so, sicuramente alcuni non c'entrano niente, altri ne ho omessi, o forse sono solo categorie che vedo personalmente come avverse, tant'è che di gente sciocca ce n'è tanta e cristo, quant'è bello parlarci, o anche solo, ma sì, anche solo parlare con chiunque, qualsiasi sia il suo modo di pensare, e parlarci di cazzate, pure e semplici cazzate, ma sì, Cristo Dio, sane stupidaggini.
Non sono mica condannato all'inferno vivente in eterno.
Sicché all'inizio parlavo della religione, e in base a questo ragionamento storpio e sconclusionato mi verrebbe da dire che, in effetti, tanto vale credere a qualcosa - ma no, non è proprio ciò che voglio dire. In realtà penso che, semplicemente, volessi dire che mi sento più a mio agio, mi sento decisamente meglio con chi non è vuoto. Con chi non è ancora stato svuotato di tutto.
Per un po' quella falsa pienezza intrattiene, senza mai riempirlo, il buco nero che sono.
Naturalmente la fede è compresa. Io, guardate, appena uno mi dice che forse, in un certo senso, a qualcosa ci crede, ecco a me subito viene da sorridere, mi strofino le mani, lo guardo, lo guardo meglio, e sorrido ancora, e indipendentemente da cosa gli rispondo mi strofino le mani.
E sorrido mentre lo guardo.
Così, anche se in testa c'è il solito lamento cimiteriale, almeno mi faccio due risate, sulla religione o giù di lì.
Umani: sperate.

Scritto e non riletto.

mercoledì 17 agosto 2016

Ferragosto




E così è Agosto, è la metà di agosto, e tutti se ne vanno in giro coi sandali a prendere l'aria fresca - di sera - e fare vita sociale, vagare per le città, le spiagge, partecipare, sentirsi parte di qualcosa, l'estate, che è un po' come una colossale puttana: accoglie tutti e li fa pascolare, e anche se non si divertono ti dicono pur sempre: mi sono proprio divertito! Perché è un dogma, un dovere sociale.
Tutte le sere ci si getta nel pantano appiccicaticcio di zanzare, guarda come sono bello, e come sto bene in mezzo alla plebe, io sì che mi diverto, mica come te, Alessà, che a ferragosto...
A proposito, che fai a ferragosto?
Ecco io... A ferragosto:

A FERRAGOSTO IO:


Devo essermi svegliato verso le undici, ma sarà stato anche mezzogiorno. Tanto finché c'è il sole tutte le ore sono sbagliate per alzarsi. Faceva un caldo da piantagione africana e con una mezza erezione, senza manco voglia di esaurirla facendomi una sega, sono andato errabondo al cesso, davanti al cui specchio ho esclamato: ma fai schifo! cioè fai proprio schifo!
Pisciavo, ovviamente nel lavandino, e dopo aver fatto una linguaccia, la faccia da pazzo, canticchiato una canzone di De andré mentre me lo sgrullavo ben bene, per me la giornata era già finita, che altro devo fare? potendo entrare in un varco temporale sarei immediatamente balzato alle due di notte per prendere il Minias e sprofondare nel sonno più nero senza sogni: ma la realtà è cosa assai più ardua, e così, scoraggiato fin dall'inizio, ho pensato a cucinare qualcosa. E non importa cosa, tanto quando fa caldo nulla è buono, si mangia così, giusto per non svenire; dopodiché l'orzo, ché il caffè mi fa impazzire il cuore, e poi divano, divano profondo, divano abissale, giù, nella materia dei cuscini, una console portatile in mano e la tv davanti, un libro affianco, Odissea immobile.

Ulisse partì da Troia per tornare a Itaca, nel mentre visse molte avventure tra donne meravigliose e mostri terribili: io no. Oddio, volendo avrei potuto, per chi mi avete preso? è solo che... non mi va, non mi andava. Il sonno veniva a tratti, ogni tanto mi affacciavo per scacciare un gatto. Tra una fetta di salame col vino bianco e una poesia di Budelaire mi sembrava di essermi, finalmente, scaricato di ogni significato, oh oh, eccoci qui, niente più fardelli, neanche l'orologio, neanche il caldo, sudo ma non sto sudando, perché forse è paura, o forse è altro, sicché a un certo punto il cortile s'era adombrato e ho potuto scendere al verde prato, le piante, i fiori, i parassiti, le radici: tutta la vita sul pianeta terra è un enorme, gigantesco parassita, come me, come chiunque altro: incredibile questa cosa che per esistere bisogna fagocitare altri pezzi di vita e assimilarli attraverso una lenta e dolorosa digestione. Lo pensavo vedendo gli insetti, che succhiano, succhiano via tutto, sono vampiri del colore, e le mosche, le mosche sulla merda, come i bagnanti a ferragosto intorno al mare, come la gente sulla vita, che schifo, che noia, il caldo esaspera tutto, non mi va neanche di lavarmi la faccia, devo essere piano di caccole da sudore negli occhi, sicuramente puzzo, ho la maglietta bianca piena di strane chiazze gialle, sembra un sudario. Sbadiglio e mi gratto.
Ho un colorito malato, e chiunque mi veda non fa che dirmi di tagliare la barba e prendere un po' di sole. Ma che cazzo volete? non ve l'hanno mai detto che dovete morire? Una persona che sa di dover morire non dovrebbe mai, e dico mai, perdersi in discorsi inutili: eppure sembra non facciano altro. Anche io, s'intende, non faccio altro. Siamo condannati a perseguire l'inutile.
Comunque qual era l'incipit del post... ah sì, il dannatissimo ferragosto, le ferie di Augusto. Questa poi, suvvia, qualsiasi richiamo al mondo romano mi pare oltremodo ridicolo. Loro almeno avevano la guerra, noi cosa abbiamo? Ascoltiamo musica orribile per sfogarci, e i più fortunati scopano. Altri rimedi al mondo moderno non ne conosco; la droga costa troppo; Baudelaire dopo un po' ti fa venire voglia di andare in guerra; ma guerre non ce n'è; allora torni alla musica; e insomma che sta finendo la giornata, questa umida - dedicata al mal di schiena - lenta giornata: dovrò mica cucinare?
Con questo caldo è una tortura, è come scopare col pene cosparso di aculei. Però a pensarci avere il pene cosparso di aculei è decisamente una cosa ideale, dispensare dolore e trarne piacere! oh sì, è così barbarico, ma in un certo senso anche cristiano. Che idiozie mi vengono in mente. Tant'è che debbo cibarmi di qualcosa, ma prima voglio stare ancora un'ora sul divano, con la psp: sto giocando un tattico, gdr jappo da super nerd senza scopi nella vita, sessanta ore di gioco in una settimana, dove tutti i sogni si raggrumano in un necromante meticolosamente addestrato per scagliare orde di morti e disperazione; ho preso anche uno xanax, quindi lentamente sto crollando, gioco e pian piano oscillo, poi mi piego verso destra, verso sinistra, faccio un rutto e... ed entro poco sto dormendo:
Sogno di non essere vivo, che la vita non serva. Sogno un universo fatto di materia inanimata, di sassi e gas velenosi, orbite infinite senza nessuno ad ammirarne l'inutilità.
Mi sveglio e ho voglia di gridare. O è voglia di scopare? boh
Da una finestra aperta si sente il rosario. Dunque? ah già, mangiare, devo mangiare? ma sì dai, ovviamente il mio corpo non si è dimenticato di sudare, ho la maglietta umida, le mutande fradice. Strabuzzo gli occhi, sempre pieni di caccole velenose, catrame e sudore, cerco di capire dove sono, poi me ne ricordo e vorrei dimenticarlo, e allora dai, andiamo nell'orto a prendere due pomodori, poi mi sembra di avere della carne da cuocere: insomma alla fine la cena è pronta, bisogna solo mangiarla.
Altra fatica non da poco, chi cazzo ha voglia di mangiare con questo caldo; e mentre mangio sudo, mi sembra di sudare anche solo pensando, e sicuramente suderò lavandomi i denti, e poi portando la spazzatura, ma intanto s'è già fatta prima sera e poi notte, e lo xanax mi esclude dal mondo dei viventi, dal tormento della compagnia altrui, dal ricordarsi di far parte del gregge degli impegnati.
Ancora qualche ora e potrò addormentarmi pensando a qualcosa di piacevole, e anche questa giornata, ah già, è ferragosto, sarà passata, mangiata svogliatamente come la cena, passata per sempre, addio ferragosto duemilasedici, addio e a mai più rivederci, chiunque si sia divertito ha fatto bene, tutti gli altri non hanno fatto un uso peggiore del loro tempo: io almeno non mi ricordo cosa ho fatto; qualcosa è successo ma... boh, è sparito dalla mente. Domani cos'è?
Ah, è ancora agosto? Svegliatemi quando nevica, anzi non svegliatemi che poi mi incazzo.
Mi sveglio da solo.


- Scritto di getto -

mercoledì 27 luglio 2016

L'ultimo uomo sulla terra




Scende una finissima pioggerella dal cielo giallastro, e un odore di stagno aleggia nell'aria piacevolmente fresca. Io osservo queste e altre cose dalla finestra del primo piano, vagando con lo sguardo dal giardino qui sotto fino al cancello d'acciaio, di fianco al muro e ad altre sbarre; più oltre la strada ancora ben conservata, delle auto abbandonate frettolosamente, alcune vie strette che si infilano nel borgo, uno scorcio di piazzetta, le porte delle case spalancate, le porte sbarrate, vasi rotti e altri detriti qua e là, e su tutto il vagare dei Morti-Vivi, che si trascinano perplessi e idioti a bocca spalancata con gli occhi gonfi di fame.
Io sono l'ultimo uomo sulla terra. Come lo so? in realtà non ho prove, ma se ce ne fossero altri li avrei visti, in qualche modo si sarebbero fatti sentire. E invece sono mesi che non vedo, non sento, non percepisco nessuno. Nessuno che sia vivo. Qui ci sono solo i Morti-Vivi, città abbandonate, lo sfacelo di tutto ed io.
Mi sembra passato così tanto tempo... e all'inizio, io, noi tutti, gli altri, non capivamo come... ma no, non ne voglio parlare. Le cose sono precipitate in fretta, ogni giorno perdevamo contatti col resto del mondo, poi le persone hanno iniziato a morire, anche chi scappava moriva, così, col tempo, nessuno ha più provato neanche a scappare. La fame ha spinto tutti in strada, ma le strade erano abitate dai Morti-Vivi, ossia quelli di noi che da morti decidevano di tornare, e anche loro avevano fame.
Ho dei terribili ricordi, gli incubi mi stanno uccidendo quanto la realtà.
A un certo momento mi sono guardato intorno, e non c'era più nessuno. Prima ho urlato. Mi pare di aver urlato giorni, dal tetto, dal muro del giardino. Nessuna risposta. Non c'è più nulla che funzioni in casa. Forse, non so... forse non funziono più neanche io.
A volte mi sembra di essere impazzito e che nulla di tutto questo sia vero, poi penso che impazzire forse sarebbe il modo migliore per andarsene, e salvarsi.
Non so perché scrivo queste cose, nessuno leggerà mai le mie parole. O sì?
In casa ho un crocefisso e dei libri, ma nulla mi è più di alcun conforto. Cibo ne ho ancora, e l'orto, del resto, qualcosa dà. Ma quando sarà inverno morirà anche l'orto, come tutto qui intorno è morto. Le scorte stanno finendo. L'inverno ucciderà anche me, me lo sento.
Ieri mi sono affacciato dal muretto cercando di stordire il Morto-Vivo più vicino. Loro non corrono, non sembrano capaci di prodezze fisiche, anzi dispongono di poca forza. Ma non sono come gli zombie dei vecchi film, no, hanno una loro intelligenza, sembrano pensare, e parlano. A voce bassa, come tutto in loro è basso, il vigore, le intenzioni, le energie fisiche, ma parlano. Da lontano non li si sente, così a volte mi sporgo oltre il muretto, e mentre cerco di colpirli li ascolto. Essi sempre ripetono che non sono morti, che vivono, e dicono di aver fame, che in fondo a qualcosa c'è un pozzo pieno di luci che brillano come stelle lontane, un luogo remoto, come alla fine dell'universo, ed è da lì che sembrano parlare tanto le loro voci suonano distanti, e quel vuoto li divora, concede loro solo di aver fame: un nulla che si rigenera.
Poi iniziano a mordere l'aria, a me viene nausea, ho freddo, torno nel giardino e li sento ancora, da dietro il muro, sospirare parole, di morte, di disperazione, e dicono che hanno fame, che hanno fame.
A volte ho provato a fuggire, ma per andare dove? Certo, ho trovato del cibo qui nei dintorni, ma prima o poi finirà, prima o poi finirà tutto. Non ci sono veicoli, non funziona più niente, neanche le finestre, le porte, è tutto rotto, una maledizione nera sembra calata su questa terra. Gli animali sono scomparsi, come precipitati altrove. Il tramonto dura ore, all'alba il sole indugia sempre più. Nel resto del tempo un crepuscolo stanco si proietta sulle cose. Ma anche le ombre nell'allungarsi sembrano tremare.
Probabilmente la mia mente non funziona più, dopotutto nessuno può rimanere sano avendo assistito a questi eventi. Non so se diventerò anche io un Morto-Vivo, penso che dovrei uccidermi prima, o lottare disperatamente contro di loro, fino alla morte, ma lottare per cosa?
Vorrei sentire un po' di musica prima di andarmene, e non essere solo, non essere più così solo, da quanto poi, da mesi, e per quanto ancora? se fossero anni?
E piove sulle rovine, sui Morti-Vivi che recitano le storie dell'abisso, sul davanzale della mia finestra davanti la quale scrivo, che ora chiuderò per togliermi il dolore dagli occhi, per sdraiarmi da qualche parte, al buio, e forse anch'io inizierò a parlare, parlerò un po' tra me e me, come ho fatto certe volte coi Morti-Vivi, cercando quel pozzo di cui raccontano, per vedere se c'è, se posso vederlo anch'io, per caderci, spiandolo, e poi tornare, perplesso e affamato.

Stanotte ho fatto un sogno, ho visto il pozzo coi suoi bagliori profondi, ci cadevo dentro. Al risveglio ero stanchissimo, quasi non riuscivo ad alzarmi. Ora, anche da lontano, li sento, le loro voci sembrano più chiare, mi chiamano, e una parte di me vorrebbe andare. Forse dovrei farlo, non ha senso resistere.
Ho aperto la finestra e loro erano lì, ad aspettarmi, mi fissavano, e dicevano che non sono davvero morti, che hanno fame, che c'è un posto da qualche parte come un abisso pieno di luci, dove devo cadere, e poi sarò come loro. Ho ancora bisogno di dormire, mi serve un lungo sonno. Penso che non scriverò più.

lunedì 27 giugno 2016

Per l'estate pensavo di ammalarmi



Fa caldo, e sudo, sudo talmente tanto che ormai non piscio più; il ventilatore rantola, quando si gira verso il nulla mi sembra di precipitare, poi riecco l'aria, ma è solo un attimo e rieccomi all'inferno.
Penso a un film, un film che ho visto. L'hanno dato su raimovie qualche tempo fa.
È la storia di un ragazzo che non beve non fuma e non guida neanche l'auto tanta paura ha di morire, con una discreta ragazza, un amico scemo, una bella casetta e un lavoro soddisfacente. Mentre è in giro a correre per tenersi in forma sente un mal di schiena sospetto. Va in ospedale e si fa visitare. La diagnosi è questa: ha un cancro alla schiena.
Le sue possibilità di guarire sono al 50%. Come tirare una monetina. Da una parte c'è la vita, dall'altra la morte. Ovviamente l'universo gli crolla addosso, gli amici piano piano si allontanano (non per cattiveria, è solo che funziona così), la ragazza lo tradisce, si ritrova a prendere l'autobus da solo dopo ogni chemio, e roba del genere. Insomma, cade tutto a pezzi e sta sempre male.
A un certo punto, però, la sua psicologa, quella che dovrebbe rendergli tutto più sopportabile, si invaghisce di lui. E lui di lei. Sì, non è molto esperta, ha avuto solo altri due pazienti, è giovane, ma si sa come vanno queste cose, la sua carineria sopperisce al resto, e lo aiuta, gli sta vicino, gli vuole bene, e pam! lui trova la forza di andare avanti, segue le terapie, si opera, guarisce, riallaccia i rapporti coi suoi genitori, si accoppia con la psicologa ed è felice. Oddio, felice... diciamo che non è più disperato. Forse sì, perché no, anche felice. Per un po' suppongo che sia possibile.
E io... io non riuscivo a crederci, ero scioccato, basito. Com'è possibile, mi chiedevo, che un tizio che sta per morire abbia una vita migliore della mia? A questo punto mi conviene ammalarmi.
Perché no, nel film ha funzionato. Va bene, è solo una commedia, è hollywood, non c'è nulla di reale, è la solita merda a spruzzo propinata dagli americani, e probabilmente se mi venisse un cancro finirei in un lazzaretto gestito da suore filippine a pane acqua e rosari; eppure forse varrebbe la pena tentare. Anni fa pensavo che amputarmi una gamba avrebbe migliorato la mia vita sociale, il ragionamento  è simile.
Ora poniamo il caso che, diciamo a giugno, mi venga un cancro. Mi ricoverano, fanno accertamenti, parte la terapia e subito ho l'aria condizionata. Mica male, considerato che qui si schiatta di caldo. Ed è già un miglioramento.
Poi naturalmente qualcuno dovrà parlare con me, uno psicologo specializzato, quelli che hanno l'assurdo e impossibile compito di farti apprezzare la vita, che per carità, potrebbe essere un cinquantenne che fuma la pipa, ma potrebbe anche essere simile alla tipa del film che ho visto - è un rischio che val la pena di correre. E poi è scontato che mi daranno degli antidolorifici, magari dell'erba, se le cose si mettono male anche di più.
Aria fresca, psicologa carina che mi ascolta e mi droga. Un bel miglioramento. Mettiamoci anche i pasti dell'ospedale che a me son sempre piaciuti.
Sia chiaro che l'obiettivo, oltre a questo, sarebbe anche quello di guarire. Dico sarebbe perché, in fondo, non è poi così prioritario; morire tra sei mesi o fra quarant'anni che cambia, davanti all'eternità è ben poca cosa - ma penso che forse vorrei comunque guarire. La vita è davvero ostinata.
Comunque non ho niente, anzi, mi sento quasi bene. Almeno fisicamente. Che sfiga. È inutile, si finisce sempre a tormentarsi con delle sciocchezze, e a quale scopo; Cioran dice che è inutile fare qualsiasi cosa se poi si ritrova l'universo ancora intatto, però si sa, son frasi che si dicono, in occidente nessun filosofo è mai stato coerente con quello che scriveva e, sebbene non sia un filosofo, neanch'io faccio eccezione, il che vuol dire che dopotutto un cancro non lo vorrei, nel senso che non credo del tutto a ciò che scrivo, ma neanche lo disconosco completamente. Insomma, come sempre, un po' di cose sono vere, altre no. Che caldo.

Ragionamenti estivi




mercoledì 15 giugno 2016

Torno sull'albero

Un albero a 64 bit


Parecchi anni fa, per evitare non ricordo più cosa, la mattina mi alzavo presto (ma non prima di aver visto Le avventure del bosco piccolo) e, sicuro che in casa non ci fosse nessuno, scendevo in cucina, prendevo un contenitore di plastica e ci condivo dei fagioli cannellini con cipolla olio aceto e sale.
Dopodiché chiudevo ben bene il tappo, arraffavo qualche fetta di pane, infilavo il tutto in uno zainetto e... sparivo.
Non mi andava di essere trovato, avevo cose da fare che di farle non m'andava proprio; e poi c'era qualche altro motivo ancora, ma l'importante è che volevo, appunto, sparire.
Così uscivo e andavo in un vecchio boschetto di ulivi non lontano da casa. Ci entravo dentro e senza impegnarmi troppo sceglievo un albero: e ci salivo.
Stavo lì non so quanto, tre, quattro ore, un po' leggevo, un po' non facevo un cazzo. Quando avevo fame tiravo fuori i fagioli e me li mangiavo, facendo delle gran scarpette col pane.
Se c'era il sole guardavo il cielo, i campi... col brutto tempo, o col freddo, pure. Solo più coperto.
Gente lì non ne passava. Al massimo ogni tanto faceva un giro il proprietario, ma era mezzo orbo e non m'ha mai visto. Una volta c'è andato vicino, chissà cos'avrebbe pensato. Chissà.
A pensarci bene vorrei lo avesse fatto, giusto per vederlo in faccia mentre mi notava lì in cima a un albero a mangiare fagioli. Lo avrei fissato senza dire niente. Lui anche. Poi forse mi avrebbe chiesto qualcosa, o forse no, andandosene perplesso come un orso pazzo.
I ricordi - questi e altri - sono scomodi e a volte tolgono l'aria. A volte, per ricordarmi di vivere, vivo senza ricordi. Uno stato blando, superficiale. Come un pesce rosso.
E del resto è pieno di pesci rossi, gente che sembra avere tre secondi di memoria, che a sentirli ti pare di affogare, come se ti trascinassero in acque poco profonde per stordirti col loro nulla fitto di alghe marce, a boccheggiare, pah!, pah!, come i pesci rossi nelle fontane.
Però mangiano sempre loro, proprio come i suddetti. Più gli dai da mangiare più mangiano. A dargliene troppo dicono possano scoppiare. Vedremo, ma ci credo poco.
Ad ogni modo... ah già, quasi quasi torno sull'albero.
Per l'estate pensavo di ammalarmi, c'ho scritto anche un post che non ho pubblicato, non saprei, magari una polmonite da scrittore russo che manca il fiato e il mondo diventa un letto sudato, oppure un cancro invalidante testa rasata e occhiaie cavernose da gargolla, ma poi ho pensato: e se, semplicemente, tornassi sull'albero?
Naturalmente si fa così, giusto per ciarlare; non mi ci vedo a mangiar fagioli appeso a un ulivo mentre osservo le altre piante. Al massimo mi porto un libro, sì, ma poi via, cosa dico... Nessuna delle due, solo chiacchiericcio stanco. Impossibile, impossibile. Figuriamoci le zanzare, il caldo.
Son cose da fare in primavera quelle, ora non si può, non è il caso.
Sto anche bevendo poco. Anzi, niente.
Cioran mi sputerebbe in faccia, Celine mi darebbe dei gran schiaffoni. Dostoevskij m'ammazza.
Comunque non importa, volevo parlare dell'albero, di quando vegliavo sugli ulivi stanco di tutto, in fuga dalla nausea quotidiana, dalle ansie che erano gli altri, e in fondo nulla è cambiato, si sono solo un po' smussati gli angoli, il mondo non dà più alla testa, ma se mi fermo un attimo, e ci penso, bene, allora non mi sembra così scomodo quell'albero,troppo basso. Ci vorrebbe una quercia, un cipresso indemoniato, su, lassù, a maledire i venti che passano accanto, a guardare gli uomini pesce che boccheggiano, lontano dal dolore e dal pianto, dalla miseria dei fagioli a colazione, che sono sempre gli stessi da anni e ammazzerebbero anche il diavolo, in un delirio da miserabili, senza canne da pesca per sondare i passanti: neanche più la tentazione di tornare al terreno dove per ogni metro quadrato giacciono sepolti diecimila umani, che urlano muti nella mia testa, e nessuna scaletta per scendere, buttata via per non tornare, buttata giù con un anatema, finalmente in cima, pietrificato dalla lucidità ma sveglio, il mio demone silenzioso accanto; tornato, infine, sull'albero.


- Scritto e non riletto -


giovedì 26 maggio 2016

Tre sciocche storielle e una fatalità




1

Una giovane contadina cadde in deliquio durante le prime ore pomeridiane, il dottore del villaggio, subito chiamato da suo marito, dopo averla visitata la trovò grave.
Disse che le restava poco da vivere e, poiché il loro amore era da poco sbocciato, suo marito molto se ne dolse, e la giovane donna non sapeva darsi pace.
Giunta che fu sul confine da cui non si ritorna, quando già la sua pelle cambiava colore, così si rivolse al marito: "ti amo tanto che non voglio lasciarti, ma sento ormai venirmi meno. Promettimi che non amerai mai altre donne e che serberai intatto in te il mio ricordo. Ma se non lo farai allora tornerò e ti tormenterò senza fine".
L'uomo acconsentì al suo ultimo desiderio. Poi l'anima della giovane fuggì via.
Il marito per i primi tre mesi rispettò il volere della defunta, ma poi incontrò un'altra donna, se ne innamorò e alla fine si fidanzarono.
Appena i due andarono a vivere insieme successe questo, ossia tutte le notti il fantasma della moglie scomparsa tornava per tormentare il giovane uomo; e lei conosceva tutto: le dolci parole che scambiava con la nuova compagna, i punti del corpo dove la accarezzava, di cosa ridevano, dove erano stati durante il giorno, i caldi abbracci della loro passione e le tristezze della sera, quando lontani si mancavano, e queste cose usava per torturarlo, accusandolo di aver trovato altre felicità con una donna, mentre lei disperava in un luogo che non ha nome.
L'uomo sconvolto decise di consultare un vecchio frate che aveva fama di frequentare gli spiriti.
Dopo aver raccontato la storia all'anziano padre, questi ebbe a dire: - Certo tua moglie ora è diventata un fantasma e conosce tutto quello che fai e ciò che dici alla tua nuova amata; e ciò che le regali; e come la ami; dev'essere senz'altro un fantasma molto sagace, e a dirla tutta dovresti ammirarla. Ma ascolta bene, la prossima volta che verrà a trovarti dille che è così abile da non poterle nascondere nulla, e se saprà rispondere a una tua domanda romperai il fidanzamento e resterai vedovo.
- Che domanda devo farle?
Il vecchio frate rispose - Prendi una manciata di semi e tenendoli in mano chiedile esattamente quanti sono. Se non saprà dirlo allora sarà stata solo la tua immaginazione e lei non tornerà più.
L'uomo tornato a casa attese la notte e il fantasma come sempre venne a trovarlo.
Subito prese ad adularne la sagacia, e il fantasma, annuendo, disse - Infatti so che oggi sei andato da quel vecchio frate.
- Ma dimmi allora, quanti semi ho in questa mano?
E non ci fu più nessun fantasma che rispondesse a quella domanda.


2

È in notti come questa che vivo solo per aspettare l'alba. Per aspettare lei. Lo faccio seduto sulla spiaggia, davanti al mare, e penso a Mirel.
Mirel che, da quando non c'è più, che senso ha la mia vita? Eppure sembra un istante fa che lei era qui con me, mi pare come se mi girassi e lei fosse qui, a guardarmi ridendo.
Ma lei non c'è, e non tornerà mai più. I ricordi sono confusi, sbiadiscono a onde, certi come sono certo di esistere, ma su di essi non potrei giurare.
È successo tutto in una notte di luna piena come questa. Stavamo passeggiando sulla morbida sabbia tenendoci per mano. Ci siamo guardati a lungo in viso, gli occhi negli occhi, poi ci siamo sdraiati a guardare le stelle. Il mare cantava per noi.
Mirel, nuvola silenziosa, Mirel, sabbia assopita. Col suo sorriso di vento incoronato da dune lontane.
Il corpo bianco come la luna del mattino.
Ci siamo amati, io so che lo abbiamo fatto. Ora... è tutto così confuso, a volte mi sembra che per il dolore non riesca a ricordare.
Di giorno mangiavamo al sacco dietro le canne del delta, a lei piaceva il rumore degli insetti eccitati dal sole. Ma ricordo meglio le nostre notti, tutte qui su questa pallida spiaggia solitaria, io e lei, al centro del mondo, dell'universo, bonaccia d'amore, e poi vento, vento che soffia dalle stelle su di noi, e poi... Mirel. Mirel, voce lontana, conchiglia di mare, cosa mi disse? non rammento più cosa successe...
Ora sono solo qui su questa spiaggia in una fredda notte. Sono solo da così tanto tempo che mi sembra di esserlo da sempre. Ma io so, so che Mirel era qui con me, lei, figlia dell'oceano, come vorrei raggiungerla. La sento chiamarmi!
Ma non c'è, e non tornerà più. I ricordi sono confusi, sbiadiscono a onde, certi come sono certo di esistere, ma lo potrei giurare?

3

Elric il guerriero, l'eroe di mille battaglie insanguinate sui freddi mari baltici, attendeva i suoi fratelli d'arme per il sontuoso banchetto della sera. In una vasta aula dai muri ornati dal ferro delle armi osservava il lungo tavolo di pino nero che attraversava l'intera stanza.
Pensava al gelido vento del nord che piega le vele e l'anima dei mortali, al diafano riflettersi del sole sulle eterne nevi delle montagne quand'era pazzo di giovinezza, al tramonto che tinge di rame il chiaro acciaio dei guerrieri in marcia verso la notte e al sangue di tutti gli uomini la cui anima aveva gettato nel vuoto o, come sostenevano i padri, nei palazzi di Valhalla.
A questo ed altro pensava, ma si trattava ormai di ricordi scavati. Gli anni s'erano arrampicati in fretta sulla sua forte schiena di fabbro, marinaio e maestro d'armi, e uno dopo l'altro lo avevano appesantito come un maglio che batte sul rosso ferro delle fucine iperboreane.
Se non sarà più la guerra, allora saranno le strategie e l'organizzazione delle battaglie, pensava Elric, volendo continuare a servire il suo Re e i tetri Signori del nord, che dal grigio del mattino osservano spietati gli uomini gemere e schiantarsi, laggiù, dove la trama si fa d'ombra e tira i fili nel sangue.
Le barche scricchiolavano nel porto come ossa di scheletri che rotolano nel giaciglio, il fitto vento tra i pini altissimi raccontava di cime lontane e segreti nelle montagne. Elric sedette incurvato sul suo spesso scranno di legno chiodato, attendendo l'arrivo dei suoi compagni, dei lontani capitani che formavano il regno per cui aveva lottato e urlato contro il cielo e gli usberghi terribili.
Brevemente si addormentò. In sogno si vedeva correre con una gigantesca ascia in mano vestito di pelli di lupo, e davanti a lui i nemici fuggivano senza voltarsi. A questo ricordo dal suo occhio scese una lacrima. E benché i forti uomini del nord non conoscano cosa sia la commozione, in quel caso pianse forse di felicità.
Il sogno andò avanti, e strane ombre umane si mossero verso Elric, il forte, il vecchio. Sapere cosa vide  non ci è dato per intero. Ma venne il crepuscolo, a confondere gli altipiani innevati col cielo, e con esso la sera che accende le prime stelle, lassù, al nord, e guidati da esse giunsero i primi ospiti di Elric, che lo trovarono assiso sul suo trono di guerra, con uno strano sorriso, la testa dritta e la spada accanto.
Prima che la notte fosse matura il suo corpo ardeva in mare sul suo drakkar, strappato alla vita dal tempo che fugge chissà dove, come un fiammeggiante cuore impazzito e tutti i guerrieri con grida assordanti gli rendevano omaggio. Le spade sbattevano sugli scudi e bandiere pazze garrivano al vento creando rumori strappati.
La sua anima precipitata nel vuoto o, come sostenevano i suoi strani padri, nella terra di Valhalla e i suoi rumorosi palazzi.






Un attimo prima di impazzire

C'è un qualche uccello notturno che lancia il suo verso qui dietro, tra la notte e il bosco. Un tempo lo avrei coperto con della musica, ma negli ultimi mesi per la notte ho scelto il silenzio; così per i primi minuti era solo un verso, ma è ormai già da un'ora che sono sicuro mi stia parlando. Egli dice: apri la porta e vieni qui, vieni a vedere cosa c'è di notte nel bosco, vieni a vederlo.
Da pochi minuti se n'è aggiunto un altro, più stridulo e lontano. Questo mi parla al di là della notte e del bosco, come un'avanguardia del mattino, e dice che non c'è nessuna notte e nessun bosco.
A breve so che arriverà il terzo e li smetterò di scrivere questo diario per seguirlo nel sonno, dove senza menzogne sarò io a cantare i miei versi, e muti mi ascolteranno gli abitanti della notte, e del bosco.



martedì 24 maggio 2016

Un altro punto della situazione

Il paesaggio che vedo fuori dalla mia finestra
In certe culture asiatiche dopo un grande dolore si cambia nome per rappresentare il fatto di non essere più quelli di prima, quale sarà ora il mio?

A volte ho voglia, per sfogarmi ma non solo, di scrivere grosso modo cosa mi sta capitando, e come mi sento. Sono, del resto, esercizi di retorica, brevi elucubrazioni sulla situazione attuale. La mia. Una volta erano anche un potente sfogo, ma come si vedrà non è più così, o non completamente.
Ora, bisogna dire che, se non altro, l'estate ce la siamo lasciata alle spalle, e questo autunno piovigginoso promette un fresco e rincuorante inverno nemico del caldo e del sudare. Dicono anche che nevicherà.
A parte il tempo - che ha comunque la sua importanza -, gli aspetti che maggiormente contano, e che mi sento di far risaltare, sono altri. La salute, certo, e poi gli affetti, la situazione sentimentale, e perché no, anche come si sta mangiando in un dato periodo, l'economia personale, la passione a cui ci si sta dedicando, i progetti e tutto il resto.
Le palpitazioni al cuore e l'ansia, se Sauron vuole, sono passate. Un bel sollievo, non c'è che dire, e anche il sonno sembra come... restaurato. Il suo dominio non conosce più l'ostacolo della veglia; dormo bene e mi sveglio sereno. Questo perché, s'intende, particolari preoccupazioni non ne ho.
Non ne voglio parlare in maniera approfondita, ma ultimamente mi trovo molto bene con una ragazza, e se non si tratta di amore è comunque una forte sensazione. Lei, si capisce, ricambia, e cosa potrei chiedere di più?
Con gli amici ci si diverte sempre, senza zone d'ombra o allentamenti nei legami, si beve e si va in giro tutte le settimane, ci si consola a vicenda di eventuali magagne, e quando poi torno a casa trovo, non una situazione idilliaca, ma quantomeno un calo della tensione coi famigliari. Ma questo meriterebbe un approfondimento a parte.
Soldi non ne ho molti, ma ho avuto la fortuna di trovare un lavoretto che mi permette di poter racimolare quel che basta a pagarmi gli svaghi senza peraltro portarmi via troppe ore, così che anche di leggere ho il tempo, cose nuove e stimolanti, senza che subentrino mai cali di concentrazione o periodi in cui il solo approcciarmi al pensiero provoca scosse cerebrali.
Con l'aria fresca è tornato anche l'appetito, mangio di gusto e mi concedo, nei limiti del possibile, leccornie e prelibatezze ricercate. Ora ho un peso ideale, né troppo magro né troppo grasso, anche un po' di fiato m'è tornato, poiché senza ansia fumo meno, faccio attività fisica, lo sforzo dissipa i pensieri, la mente si libera, il fitto nulla va dipanandosi lasciando spazio a riflessioni colorate e trasparenti nella loro tranquillità.
La tensione all'oblio è scomparsa. Il mondo pare ora ai miei occhi un luogo meno aberrante, e sebbene dentro di me sia costante la consapevolezza della gravità di esistere, ci penso meno, ho un passo leggero, una saggezza cangiante finalmente acquisita, una marcia lenta per godermi il paesaggio, occhi splendenti per ammirare lo slancio delle cose, e angoli profumati per rinchiudere i miei desideri, che sono sempre gli stessi, e in fondo avendo quasi tutto quello che mi serve non sono poi tanti, e in un certo senso se tutto restasse così com'è potrei farne a meno.
Sì perché, finalmente posso dirlo, le cose come sono mi stanno bene, e anche col bere... Ora bevo meno. Certo, il piacere di una bevuta, anche coraggiosa e abbondante, non me lo levo, ma tutto si ferma lì, e anzi certe volte non ne avverto più nemmeno la necessità.
Altri vizi particolari non ne ho adottati, né mi tentano; ombre dentro di me non ne avverto, non di enormi, nulla che le cose belle di cui ho la fortuna di godere non riescano a dissipare.
Non sono mai stato insicuro, sebbene a volte ne avessi motivo, ma recentemente, poi, riesco a essere sicuro di me sentendo pienamente come questa sia una situazione meritata, nient'affatto frutto di convinzioni personali, sicché anche nei rapporti con gli altri - tutti gli altri -, archiviate determinate indecisioni, risulto più sciolto e piacevole, come allo stesso tempo mi vanno più a genio quelli che incontro.
Medicine non ne prendo più, risolto il problema del vivere male ora anche la depressione rimpicciolisce, striscia come un'ombra al mattino verso gli angoli scuri da cui è nata, la tengo a bada, è domata, se non proprio vinta quantomeno avvilita, e col sollievo che è proprio di una impresa del genere posso finalmente dirmi, se non felice, vicino alla felicità, che vedo essere lì, a portata di mano, giusto un po' aldilà, oltre il confine che voglio varcare, lontana dal baratro da cui sono emerso, un po' più al largo della riva dove mi trovo, ma ho davanti un mare calmo e so nuotare.

Il cielo è blu e l'aria è pulita, buona da respirare, da soffiare fuori dalla bocca per vederla condensarsi in nuvolette di vapore sbrilluccicanti; le mie ferite sono sane; le cicatrici rosee e morbide; nulla fa più male. Il futuro è un fantasma distante la cui paura è divenuta accettabile, il presente fattosi acquiescente non spinge più la mia anima nel buio, e il passato ha smesso di urlare nelle orecchie.
Ho visto una mappa dell'universo, con le galassie, i soli, le sfere lontane, e tutto sembra così bello, così magico. Dirò di più: non pare tutto avere senso, finalmente un senso?
O così oggi mi pare. Hahahaha, ma che giorno è oggi?
E cos'è meglio, una felicità a buon mercato o una sofferenza che eleva?


mercoledì 18 maggio 2016

La dolcezza dell'abisso




Il mese di maggio, nella Cina meridionale, sugli altipiani ammantati di nuvole crescono i papaveri, e il mondo sembra soffice visto da lì, pare sognarsi. Seduti sotto a un salice raccontavamo le storie del tempo passato, e i maestri che illuminarono il mondo ai tempi dei nostri avi ci raggiungevano lassù, come sognati.
Il Buddha, parlava mio nonno, raccontò una parabola proprio qui, seduto sotto questo salice, e tutte le cose si piegarono a sentirlo, come un fiore si piega al sole, e così facemmo noi ad ascoltare mio nonno.

Un uomo camminava lontano da qui, in un campo pianeggiante, quando si avvide che una tigre lo guatava. Spaventato corse via, inseguito fino all'orlo di un burrone.
Non sapendo cosa fare, si aggrappò alla radice di un albero dalle foglie d'oro lasciandosi penzolare nel vuoto.
Ora, lì appeso, guardò in alto, e la tigre lo fiutava, e guardò in basso, dove un'altra tigre lo divorava con gli occhi. Solo l'albero dorato lo teneva appeso alla vita.
Due scoiattoli, uno bianco e uno nero, iniziarono a rosicchiare la radice.
Una fresca brezza gli scompigliava i capelli, voltandosi notò una fragola rara, cresciuta sulla parete del baratro.
Afferrò la radice con una sola mano, e con l'altra spiccò la fragola dal suo nido. Poi la mise in bocca: com'era dolce!



martedì 3 maggio 2016

Storia di un uomo di successo (cioè io)




Non scrivo certo per vantarmi, tutt'al più lo faccio per indicare la via a chi ancora deve costruirsi un futuro. In questo mio breve testo vorrei solo spiegare quanto sia difficile trovare una propria strada nella vita, cosa che tuttavia si rende possibile non appena - come vedremo - si abbia un minimo di volontà.
Del resto, passiamo subito ai fatti. Sono nato una trentina di anni fa, e per i primi anni di vita non sembravo possedere particolari attitudini in questo o in quel campo. Correvo, parlavo un po', mangiavo di gran gusto e davo la caccia alle lucertole (per le quali avevo costruito un ossario, a pensarci bene la mia prima opera). Il cambiamento avvenne intorno ai sette anni.
Me ne stavo tranquillamente seduto in salotto a guardare i cartoni animati quando avvertii il desiderio di disegnare. Così presi carta e pastelli e decisi di raffigurare un ritratto di paperino. Quale meraviglia mi colse nel constatare la perfezione del becco, talmente era identico al modello! semplicemente perfetto! Provai e riprovai, e mi resi conto che, se anche il resto del disegno lasciava a desiderare, il becco era sempre perfetto. Da allora mi specializzai in becchi: a scuola tutti mi chiedevano, quando capitava loro di disegnare un papero qualsiasi, di fare il becco. Inutile dire l'enorme popolarità che ciò mi portò. Certo, subito non ne trassi un profitto decisivo, la mia intuizione per gli affari non essendo ancora sbocciata, ma col tempo ci sarei arrivato. Per il momento ero quello che disegnava i becchi.
Passò qualche anno, e i becchi parvero non bastare. Così fui costretto a rimescolare il mio talento per trarne fuori qualcosa di decisivo. Questo avvenne durante le scuole medie.
Rispettato e benvoluto da tutti, non ero però ancora riuscito a crearmi un mio spazio sociale, quando, per quella capacità tutta mia di sapermi reinventare, passando davanti a dei ragazzi che ridevano mi venne in mente che, perché no, avrei potuto dire qualcosa, e la dissi, dissi esattamente: ratatò!
Risero ancora più forte, per cui capii subito che dovevo ridirla: e ratatò! e anzi, rrratatooooò!
Fu subito un successo incredibile. A tutte le ore venivano per sentirmi dire quella incredibile parola che col mio talento avevo inventato, e, sapete, ne inventai anche altre, come ad esempio sicichi, urusuah, taraccara! e molte altre, tanto che, in breve, mi emancipai dalla mia precedente attività basata sui becchi per divenire Parolaio Magico. Questo fu il mio primo lavoro, nonché l'accesso principale verso i miei futuri successi.
Una persona normale si sarebbe forse accontentata, ma mi sentivo indomabile. All'improvviso decisi che dovevo pensare più in grande: volevo conquistare i cuori delle donne. Nel mio piano perfetto stimavo possibile entrare in intimità con loro entro i trentacinque anni, purché, s'intende, mi mostrassi sempre ossequioso e dedicassi loro delle parole speciali: per rincalzare la dose disegnavo i contorni delle mie mani con una matita su un foglio, altra arte che ormai padroneggiavo con efficacia, e regalavo il tutto alle ragazze. Da come ridevano quando ero davanti a loro non potevano esserci dubbi, mi adoravano. Ma cosa volete, i piani erano già stati fatti, e tra il far la punta alle matite, e l'inventarmi sempre nuove parole, stimavo possibile riuscire ad avvicinarmi compiutamente a loro non prima di quindici o venti anni. Inutile dire che le stime furono quasi esatte.
Quando i miei compagni di scuola, che mi adoravano, iniziarono ad allontanarsi da me, probabilmente per intraprendere delle loro attività, imitandomi, dovetti creare un nuovo spazio per i miei commerci: entrai nel mondo del lavoro. Giovane promessa qual ero, mi corrucciai a lungo prima di individuare la strada del successo, ma infine l'azzeccai in tutto e per tutto. O quasi.
Spesso, passando per i vicoli della mia cittadella, notavo stormi di piccioni assiepati nelle antiche feritoie, sui cavi tesi e sopra ogni cornicione. La gente, chiacchierona com'è, non faceva altro che lamentarsi. Così pensai: è il caso che possa farci dei bei soldi. Infondo, il commercio delle parole inventate iniziava a stagnare, al posto delle risate e dell'accettazione sociale ricevevo freddezza e distacco - forse le persone a cui mi riferivo erano ormai depresse, non potendo contare su una energia vitale come la mia -, e anche per i disegni... va da se che fuori dalla scuola era più difficile piazzarli. Allora mi decisi, e usando anni di risparmi acquistai una pistola ad aria compressa, e diverse munizioni che consistevano in sfere di plastica dura. Piazzandomi nei luoghi decisivi presi subito a menar piccioni. Gliele davo in tutti i modi, sulle ali e sul becco, sulla testa tonda e talvolta pure sul ciuffo del sedere. Insomma: ero diventato il loro flagello. Non che mi riuscisse di ammazzarli, questo no, ma a infastidirli ero un portento. Talvolta in neanche due giorni riuscivo a cacciarne decine da un vicoletto, salvo che poi tornavano, e fu allora che ebbi il terribile impatto con la realtà: non avevo preso nessun accordo di pagamento. Mi si conceda che è impossibile anche per un genio come me pensare a tutto, e questa sfumatura del progetto era fuggita alle mie attenzioni. Dubbioso, iniziai a reclamare i miei compensi casa per casa, definendomi lo Sloggiatore di piccioni. Ma la gente non sempre è bendisposta, e le accoglienze furono varie. In certi casi fui addirittura cacciato. L'investimento della pistola non si ripagava, e l'inverno avanzante scacciava da se i piccioni fin dentro le tane più alte. Poi iniziarono le piogge, e triste presi a vagare per le strade, senza un lavoro, o un talento che mi favorisse.
Ma ascoltatemi ragazzi, voi non vi dovete mai abbattere, perché nella vita tutto può accadere, e tutto accadde. Me ne stavo nella piazzetta a veder la gente andare e venire, distrattamente, quando passando su una pozzanghera da poco formatasi una signora mi schizzò tutto d'acqua, e dopo lei un'altra, e un'altra ancora. Allora, il mio genio tornò ad ardere. Forse potevo sistemarmi.
Certo, pensai, le pozzanghere sono tante, e se ne può ricavare qualcosa, e immediatamente, assecondando la mia ispirazione, corsi dal ferramenta e cambiai tutto quello che avevo, ossia una cartella, delle matite, qualche foglio e la pistola coi pallini, con una grossa coperta di tela, che mi avvolsi intorno al corpo, e con la quale andai a sdraiarmi dentro la pozzanghera.
Al primo passante dissi: buonuomo, camminate pure su di me, non vi sporcate, al vostro cuore la mia ricompensa. Probabilmente sbigottiti per il mio fiuto per gli affari, i passanti presero a camminarmi sopra, con uno sguardo che emanava ammirazione e, ci scommetterei, un pizzico di invidia. Naturalmente molte ragazze camminarono su di me, e le loro mance erano sempre un po' più abbondanti (so bene di possedere un fascino non da poco), quindi, contrariamente alle mie previsioni iniziali, mi ritrovai ad avere rapporti fisici con molte donne prima dei trent'anni.
Il resto è storia nota. Ormai possiedo tre coperte e se d'inverno lavoro come tappeto per pozzanghere, nelle stagioni calde grido parole per le strade deserte, tra i vicoli sotto ai piccioni, e siccome nessuno si avvicina, neanche i ladri passano là dove mi trovo, e i miei concittadini mi lasciano mance fuori dalle loro case, e sui davanzali.
Le notti sono belle, ci sono tante stelle. Di giorno mi annoio un po'. Mi sono anche innamorato, è una ragazza che passa sempre vicino alla fontana dove dormo. Fa dei gran sorrisi, a volte mi saluta con la mano. Io lo so come si gestiscono queste cose, bisogna saper aspettare, e intanto cucio, rattoppo le mie coperte, disegno la mia mano sui muri, e posso dire di aver raggiunto, in questa difficile vita, un certo successo. Sono ormai pronto per il matrimonio, del resto da come mi guarda, quella ragazza, non lascia dubbi: vuole sposarmi. Ma ora ho troppo lavoro, sono in piena carriera. A breve comprerò un'altra coperta per pozzanghere, e poi ci sono le stelle, il vento di notte, le cicale d'estate, i chicchi di riso tra i sampietrini, i piccioni lontani, quelli vicini, le corse per le strade, e sono così felice che mi sembra di impazzire, mi sembra proprio di impazzire.

Scritto e non riletto.

lunedì 18 aprile 2016

Primavera lugubre




In questo periodo non ho appetito né sonno; in compenso l'ansia mi divora dall'interno. Una carogna adagiata sul cuore. Ma è un'ansia abulica, non vuole niente. Dopotutto, l'unica che valga la pena provare.
Strangolato dalla noia mi capita talvolta di fare passeggiate pomeridiane; ma la campagna esige molte salite, e sul viale alberato c'è troppa gente. Non vorrei mi prendessero per uno dei loro: così vado al cimitero.
Quello che ciò suggerisce non è del tutto esatto: non amo stare tra i morti. Beninteso, neanche mi infastidisce. Semplicemente: loro sono lì. Il luogo è tranquillo, ben arieggiato, con ampi spazi di luce e ombra, l'odore dei fiori è gradevole, la gente zitta, rumori molesti non ce ne sono, bambini che giocano neanche, nessuno si fa promesse o pensa al futuro o fa programmi, in un certo senso sono meno vere anche le illusioni che vagheggiano in testa. Le panchine sono comode e bendisposte, ci si può prendere anche il sole; o si può passeggiare tra i cipressi tutti uguali. Dipende dall'umore.
Va da sé che le tombe si fanno notare, anche se a dire il vero è un camposanto prosaico, dove persino le cappelle sembrano rivaleggiare in modestia.
Di solito vado dopo pranzo, sebbene certe volte mi capiti di salire (si trova su di una collinetta) anche al mattino presto. C'è di buono che la situazione non cambia, in entrambi i casi non c'è quasi nessuno, escluso quando inumano delle bare.
L'altro giorno mi ero seduto su un muretto e me ne stavo lì, con al fianco una lucertola inebetita dal sole, mentre in alto, a quaranta metri da me, portavano la cassa di un ventitreenne morto in un incidente d'auto. Stranamente non c'era molta gente. Di solito, quando muore un giovane, si radunano grandi masse. Non ho mai capito perché. Comunque, nel suo caso, c'erano giusto una decina di addolorati, o che almeno sembravano tali. Ho pensato, in quel momento, che se fossi morto anch'io a ventitré anni ci sarebbe stato lo stesso esiguo numero di persone, o forse ancora meno. Non ero molto socievole a quell'età.
E se morissi oggi? ce ne sarebbero comunque troppe. Che assurdità tutto questo, i riti, i cimiteri; non possiamo fare che quando uno sente che sta per morire prende e se ne va da qualche parte, da solo, e poi resta lì, senza tante scene? Esultiamo quando qualcuno nasce - non dovremmo dolerci per lui? Ci addoloriamo quando muore - esiste liberazione più grande? Poi cos'altro è rimasto? ah sì, quando si sposano, tutti contenti. In nessuna di queste tre occasioni si trova un po' di sincerità, mi paiono gestite assai male. Ma la gente ha le sue esigenze, che prevedono innanzitutto di illudersi. Quanto siamo razionali durante l'arco della giornata, venti minuti in tutto? Mi sembra già tanto.
Ad ogni modo, ero lì, prendevo il sole, osservavo, e poi mi è parso di non avere più nulla da fare, così ho preso a passeggiare. Girando, ho notato dalla grande tomba loro dedicata che non muore un frate dal '97. Lì appresso c'è un convento. Allora l'ho chiesto al guardiano:
- Antò, com'è che non muore un frate dal '97?
Mi ha risposto che quelli non li ammazza niente, con quello che mangiano e bevono sono immortali. Invece tombe dei bambini ce ne sono diverse. Si capisce subito, fin da lontano, a quando risalgono. Se sono "fresche" i giocattoli sopra e tutt'intorno sono nuovi e puliti. Un pupazzo sbiadito dal tempo indica già una minor cura, il dolore si è indebolito. Se sopra c'è un orsetto marcio e delle automobiline mezzo sepolte dal fango, la famiglia probabilmente si è ripresa.
Non ci sono statue, non c'è nulla di monumentale, giusto un paio di graziose madonne, qualche crocefisso goticheggiante. Nient'altro.
Salgo e scendo un paio di scale senza meta, mi muovo giusto per non trovarmi sempre sotto al sole. Dopo un inverno notturno bisogna che ci vada piano. E poi mi stufo subito, anzi ho già voglia di tornare a casa. Non mi sono mai portato da leggere al cimitero, di solito ci vado con l'intenzione di non pensare a nulla. Un giorno potrei provarci, o magari potrei cambiare luogo dove passeggiare. C'è una pista ciclabile qua vicino, ma vedere gente che fa attività fisica mi angoscia, e i ciclisti mi inquietano. Così forse resto al cimitero, e magari mi porto qualcosa da leggere, e da mangiare, e da bere, e poi magari un sacco a pelo, una piccola tenda, ecc ecc, insomma, mi porto avanti.



giovedì 25 febbraio 2016

Tele d'insonnia




Tic tac, tic tac... Il tempo è morto, anche lo spazio è morto. In questa penombra che osservo con occhi abituati al buio - sicché ogni cosa sembra il suo fantasma - ci siamo solo io e i miei pensieri, e forse ci sono solo loro. Anch'essi, come il resto, morti.
Morti diverse che non trovano pace, morti che tutto sanno e tutto contengono, omnicomprensive, insonni.
Nell'angolo nero in alto a destra c'è il covo dei ragni che tristi tessono i ricordi; un'impressione sbagliata (come tutte, del resto), un bacio dato solo col pensiero, l'attimo che mi condannò alla vita, quello che infine me ne strappò... e da tutto questo ormai mi separano i secoli sempre uguali: da quanto dura questa oscurità?
Ricordo che quando esistevo non ero mai felice, ricordo che un momento prima di precipitare qui ho pianto. O forse volevo piangere, ma non trovai nulla che mi costrinse a farlo, sebbene ne sentissi il bisogno.
Lei era al mio stesso tavolo, inutile descriverla. Mi guardava e io guardavo lei. Mi ha sorriso, o almeno credo. Comunque qualcosa in lei rideva. Poi se n'è andata in qualche segreto. Un momento dopo era nel letto di un altro, forse un amico, forse lo era stato. Facendo finta di non averla vista sotto le coperte mi avvicinai a lui per chiedere un consiglio, dopodiché i nervi cedettero e fuggì affranto.
Ora, chi mi si avvicina, è il ragno. Stavo sognando?
Di nuovo fisso il soffitto annerito e le sue fuliggini danzanti. C'è un'altra ragazza che conosco, mi dice che si è innamorata di qualcuno. Quel qualcuno è sposato. Lei decide di uccidersi, e decide di farlo l'ultimo dell'anno, nel mio congelatore. Non so cosa dirle, la lascio fare: perché impedire una cosa così naturale? Ma non ne ho il coraggio, o forse ne sono ammaliato, e poco dopo la mezzanotte apro lo sportello e le dico che forse non dovrebbe farlo. Ha le sopracciglia congelate, le labbra viola, lo sguardo opaco. Esce, e ripreso il colorito va a festeggiare. Io la guardo, mi si avvicina, e invece è il ragno.
Stavo ancora sognando?
La finestra si affaccia sul mondo dei lampioni come un'alba sfinita, e come in una tomba tutto tace. Sono morto. Diecimila anni fa non mi riuscì di amare né di credere a niente, eppure non desideravo altro. Ora sono qui in un momento che non sta accadendo, mi strappo i capelli, agonizzo, penso che non c'è più niente, solo io sono rimasto, in questa tenebra, ad attendere di disperdermi.
Il mondo non esiste più, ora la stessa finestra si affaccia su di un'altra. Tutto è spento e io accendo un lume. Ora di là viene una luce, e io mi sposto per guardare, e da lì qualcuno guarda me.
Poi mi sorprendo a sognare e non appena me ne accorgo rieccomi qui, nella notte, quella vera, o una delle tante. Non è ancora quella definitiva.
Per chi penso queste cose? Lo faccio senza rendermene conto, eppure non c'è più nessuno con cui parlare. Penso ancora alla ragazza coi capelli corvini che mi spia dal lenzuolo. Ai suoi occhi neri. Ma infondo uno sguardo non è una promessa, una risata non è un contratto. E dopotutto non stavo sognando? E ora? Mi piacerebbe svenire, precipitare, cadere all'indietro come un treno fermo in stazione, dopo una strana sera, che inizia a retrocedere, nella nebbia. Ma sì, ora ricordo, non sono morto, ho solo inciampato in qualche ragnatela, e sento anche... a cosa serve spiegare?
Ancora questa mania del respirare, dell'essere, mentre tutti si dormono addosso, ed è come se fossero - loro sì - morti, e io, all'improvviso, immobile, mi ricordo di essere vivo, ma è così buio, fuori e dentro, che non ne sono più sicuro. Anche il regno dei lucori là fuori s'è spento.
Se solo potessi svanire, tutto è così stanco, tutto ha bisogno di arrendersi.
Penso per un po' a qualcosa che mi dà pena, immalinconito cado nel sonno.
E ancora buio, ancora Lei, e poi i ricordi, ed ecco il ragno.

domenica 21 febbraio 2016

A occhi chiusi






Chiudi gli occhi che ti bacio
ma domani devo lasciarti...

È una vecchia canzone dei Beatles, ci pensavo stamattina mentre andavo in giro. Se n'è sbucata fuori dal nulla e mi è entrata in testa. Ma il portafoglio? mi tasto subito la tasca. Da quando l'ho perso in un'estate di qualche anno fa ho l'abitudine di controllare con-ti-nua-men-te.
Non c'è. Guardo nello zaino. Non c'è. Cazzo. Dunque: sono stato in posta... dal  pizzicagnolo... alla crai... Ah! era a sinistra. Non ce lo metto mai, chissà com'è che... Va be', l'importante è che ci sia.
Ho come l'impressione che la gente oggi sia vestita a festa, sono tutti così eleganti. Che poi a pensarci bene sono io che faccio schifo, al solito ho gli abiti con cui ho dormito. Mamma mia, che disastro.
Ho dormito poco stanotte, chissà che faccia ho. Ma sì, che mi frega, posso mica badare a 'ste cose. A cosa mi debba realmente interessare, se devo dirla tutta, non l'ho ancora capito.
Ad ogni modo torno a casa. Devo tagliare la trippa. Ah! che bella trippa che mi ha dato il macellaio, piena di reticoli come piace a me. La faccio a listarelle, i pezzi più sottili li lascio interi. Impozzarli nel sughetto è un piacere. A sto giro, però: in bianco. Trito cipolle carote e sedano, faccio rosolare, poi alloro e salvia, peperoncino, un po' di brodo e avanti con la cottura. Mi siedo e aspetto. Blop blop blop. Senti come borbotta, è scontrosa... e domani devo lasciarti, e darò tutto il mio amore a te. Ancora la musichetta in testa. Na na na, trippa: chiudi gli occhi che ti bacio, Trippa. Ma domani sappi che dovrò lasciarti. No! non insistere, le cose devono andare così. Già. Un po' di sale. Tutto il mio amore, du du dum, lo darò a te. L'insalata, ti lascio, la taglio, ti bacio!
Bon, basta così, preparo l'insalata. Certo che le canzoncine del cazzo quando ti si infilano in testa sono una malattia. Affettiamo cipolla carota pomodoro e insalata. Sale e un'innaffiata di aceto nero, quanto mi piace l'aceto nero. È l'oscurità di Morgoth. Olio. Poco ma buono.
La trippa canticchia pure lei, ora si sta asciugando, fa plup plup pupsh. Lingue lovecraftiane. Hum, è ancora dura, aggiungo un po' d'acqua. Non mi piace frollata dal troppo cuocere, ma neanche croccante. Una via di mezzo. Tipo come quando tutto cade in macerie e tu tra l'impazzire o l'addormentarti scegli di far finta di niente. La via in mezzo.
Devo anche tagliarmi i capelli, che rottura di palle assurda. Non li sopporto i parrucchieri, ma ho già provato a fare da solo ed è venuto fuori un disastro. Vabbè vah, ci vado il mese prossimo. Procrastinare è un'arte. Oh cristo, m'è venuto in mente che tra neanche tre mesi è di nuovo estate. Un'altra rottura di coglioni mica da ridere. Caldo e sudore. Meglio non pensarci. Ma a cosa devo pensare? No dico, seriamente, su cosa dovrei concentrarmi? Tutto questo è ovviamente un esercizio di distrazione, un vaniloquio sul nulla. C'era, o mi pare ci fosse, qualcosa a cui non pensare, è che ora a forza di non pensarci ho dimenticato cosa fosse. Finalmente qualcosa che mi riesce. Assolutamente sì, fuori discussione che sia stato un successo.
La trippa è pronta. La mangio stasera. Ora non ho fame, dev'esserci un po' di stracciatella avanzata da ieri, mi finisco quella che basta e non mi serve altro. Ma tu guarda che roba che danno in televisione la mattina, come fa la gente a vedere certi programmi? Certo bisogna essere proprio disperati. Fermi un attimo però, io sono disperato ma non ce la faccio comunque a vederli. Servirà anche qualcos'altro allora, una disperazione ulteriore, della demenza. C'arriverò.
E ora che ho fatto in parte quello che dovevo fare, e non ho intenzione di fare altro, mi sdraio da qualche parte, e chiudo gli occhi. Mi torna in mente la musichetta ma la scaccio subito. Reset. Ne evoco un'altra. È un rumore di vento misto a pioggia, qualcosa rimbomba. Fa freddo, ed è notte. Qualcuno sta battendo sopra una cassa, sembra che la stia inchiodando. Nella cassa ci sono io. Pam pam pam! Quindi è così che ci si sente quando ti ci infilano. Bene, era anche l'ora, non se ne poteva più. Eccomi qui, ora ci sono, e tra un attimo, un istante, non ci sarò mai più. Devo trovare un ultimo pensiero, qualcosa che... ma cosa importa. È buio ma ci vedo, me ne sto qui spalancato sull'abisso e non cado, non cado, ancora non cado... chiudi gli occhi che ti bacio, domani ti lascio... No! che palle!
Maledetti Beatles, stavo benissimo laggiù infondo al nulla. Pazienza, comunque penso che resterò a occhi chiusi ancora per un po'. Solo un altro po'.

domenica 7 febbraio 2016

Alberto Angela è una merda





La cultura, il sapere cose, non piace a tutti, a certuni viene persino a noia, ma a chi piace, per necessità o per passione, va di cercarlo un po' ovunque, persino in luoghi che, di questi tempi, non sembrano particolarmente adatti a diffonderlo. Uno di questi è la TV.
Fra i tanti o pochi programmi che si occupano di diffusione culturale ne potrei elencare diversi, ma mi soffermerò ora su uno di essi, o meglio, su un personaggio ad essi legato, cioè l'alberto angela qui già - ahimè - esposto in foto.
A me alberto angela sta sul cazzo, si muove come un orango che prende a schiaffoni la nebbia ed è così narcisista da darmi la nausea. Nulla contro i narcisisti, s'intende, ma lui non ha ritegno. Poi, diciamolo, ha proprio la faccia da posacenere che ti viene voglia solo di spegnergli cose roventi addosso. Intendiamoci, di gente così ce n'è a bizzeffe senza che debba scomodare proprio lui, eppure gli riesce di eccellere con noncuranza in una qualità ben specifica, ossia fingersi e venir percepito come intellettuale senza esserlo.
Mi imbatto, di tanto in tanto, su pagine, in rete, che ne celebrano la grandezza, lasciando intendere che lui, l'alberto angela, sarebbe , dicono, l'esempio di come gli italiani dovrebbero essere. In realtà egli è l'esempio di come gli italiani sono, senza idee e impersonali. Nei suoi orribili programmi fatti da filmati comprati un tanto al chilo dalla TV inglese o americana, e nelle ospitate, l'alberto mai, e dico mai, che s'avventuri a esprimere la sua opinione su alcunché, tanto che sembrerebbe proprio non averne alcuna. In aggiunta al mestiere dello spiegare, ma sarebbe più adatto definirlo presentare o introdurre un argomento, non porta altro. Al di là di una studiata parvenza d'entusiasmo, parrebbe quasi uno che, per così dire, ha la testa vuota.
Ma come? mi si presenta come punto d'arrivo del genere umano un personaggio che non si esprime su nulla?
Ma come? lo si sventola quale intellettuale quando in vita sua non ha mai esibito una critica, accompagnato un argomento con un suo convincimento personale?
Ma per questo andava bene anche un presentatore qualsiasi.
Che equivoco dannoso, quanti danni fa alberto angela! Il messaggio che gli esplode tutt'intorno è questo: idee e convinzioni non servono. E ancora: la diffusione culturale non necessita di alcuna interpretazione, la si può recitare a memoria come una guida turistica qualsiasi, e questo egli è, di volta in volta, guida turistica o conoscitore di luoghi in cui introduce il suo povero telespettatore, stordendolo di ovvietà preconfezionate. La fase finale della cultura mass-mediatica, un prodotto che non approfondisce né permette di riflettere su niente che non siano le immagini e le vuote parole che le accompagnano.
Allora, dico io, non è forse peggio, molto peggio alberto angela - intorno al quale, tra l'altro, s'è diffuso uno strano culto sessuale, per cui diverse donne vorrebbero giacervi affianco; perché mai? perché non ha idee personali e ha la stessa espressione sia che parli delle allergie primaverili o della musica di Bach, cioè quel suo sorriso ebete? -, dicevo, appunto, non è forse molto peggio alberto angela dell'ultimo fra gli imbecilli che ci rincorrono dalla televisione?
Da questi ultimi non ci si aspetta null'altro che una vuota evasione, mentre davanti ad alberto angela il pubblico meno accorto rischia di perdersi in colossali ambizioni di chissà quale miglioramento culturale, quando invece ottiene lo sesso vuoto sopracitato, che a lui pare chissà cosa, e non è altro che l'ennesima esercitazione a non pensare.
Allora scopatevi alberto angela o, a seconda della vostra inclinazione, fatelo presidente della repubblica, o quel che vi pare; ma, per piacere, fate sì che non si occupi più di diffusione culturale, perché come diceva qualcuno di cui ora non ricordo il nome, l'intellettuale è essenzialmente un insoddisfatto che, tradito dalla realtà, si ingegna di raccontarla per come esso la percepisce, attraverso lo strumento della critica e della reinterpretazione, e non un manichino col copione, cotonato, e, diciamola tutta, pure raccomandato, sennò col cazzo che stava lì, il che beninteso è la sua colpa minore.

Quindi, in conclusione, se la cultura, la storia, l'arte, sono le massime espressioni dell'umano, in splendore o in atrocità, esse vanno raccontate da chi ciò lo ha compreso nella sua interezza e parimenti si fa carico di spiegarlo agli altri con mezzi adeguati. In questo per me consiste la diffusione di ciò che è bello o che è stato, e il personaggio quivi descritto non mi pare appropriato.
Naturalmente tutto ciò non ha alcun senso, e sperare in checché sia è vano.

Scritto e non riletto.