martedì 30 dicembre 2014

Buon anno e buona fine del mondo





E così quest'anno sta per finire, e assieme ad esso il mondo.
Avvicinandosi alla mezzanotte tutti godranno magicamente di una grande consapevolezza, un verme strisciante nel cervello di ogni essere umano, bambini compresi, che scivolando qui e là troverà il punto giusto, quello dove si intersecano i pensieri, e ci farà venire in mente un'idea, questa: niente ha senso.
Dopodiché le cose andranno finalmente a posto.
L'acqua sparirà tutta, se ne tornerà al cielo e leggera su su fino allo spazio, un nuvolone enorme fluttuante verso altri mondi. Quaggiù solo fuoco e polvere. La gente si lancerà istintivamente a bere il sangue di altra gente, e degli animali, persino dei topi e dei negri.
A questo punto potranno sopravvivere solo i più forti e i più intelligenti, le strade battute da morbi innominabili e cenere velenosa.
Quindi alla conquista dei bunker. Ce ne sono alcuni con depositi di acqua potabile. E cibo. E femmine da rapire, nella notte. Si torna a te che esci, ti guardi intorno, vedi una che ti piace e la copri.
Si torna a cacciare nei boschi, a fondersi con la natura.
Dai fuochi sgorgati dalla terra si trarrà calore e speranza, e la speranza diverrà sogno, e dal sogno nasceranno nuovi dei, divinità terribili, e avranno il nome di ogni sciagura, Freddo, Morte, Fame e Orrore, e saranno neri come la notte e terribili come la terra da cui non c'è ritorno.
E danzeranno i nuovi uomini intorno ai loro idoli, e tra gli idoli più forti vi sarà guerra, e la guerra porterà malattie e disperazione, e dalla disperazione altri sogni, e altri dei ancora, questi coi nomi di tutte le malattie dell'uomo, e questi saranno Pietà, Dolore, Paura e Debolezza, cari specialmente agli ultimi, il cui lamento si leverà sulla turba umana come un sudario di sonno della ragione, e questo tutt'uno formerà il Dio della paura, il Dio bambino della vendetta.
E poi accuse, rapimenti, io prendo il tuo dio tu prendi il mio. Io mi impongo, tu anche.
Dov'erano i mari saranno paludi, dove svettavano i monti deserti pietrosi; le verdi praterie campi incendiati dal sole, le città tumuli spettrali.
Le fiere più feroci evolveranno in mostri temibili, gli uomini dalla pelle gialla in fiere e quelli marroncini in scimmie rapidissime.
I negri andranno a vivere sottoterra e nel corso di poche generazioni diverranno bianchissimi, mentre i bianchi scuriti dal sole e abbruttiti dalla vita terribile in superficie diverranno negri.
Tutti gli uccelli marini privati del mare perderanno il sonno, e al posto degli occhi verranno loro due cavità tenebrose, con versi simili a grida infernali.
I gatti invece non faranno altro che dormire, imparando a ingrassare anche nel sonno. Si poseranno ai bordi delle strade e si potrà vederli espandersi a vista, gonfiarsi fremendo di lussuria. Ma non li si potrà mangiare, poiché sono sacri all'uomo dai tempi della civiltà sul Nilo.
Ci si nutrirà invece delle femmine senza figli, poiché una donna senza figli varrà quanto un ebreo che non sa contare.
A proposito, gli ebrei distrutti e privati di tutto abbracceranno finalmente la croce, la alzeranno sulle loro sinagoghe scintillanti e piangeranno sulle costole del cristo, già rinato come Dio bambino all'inizio della catastrofe ma non riconosciuto da loro.
C'è solo cristo 1, dice l'ebreo, e Yhwh non può rinascere.
Per questo sarà allora perseguitato e gettato nelle caverne dei negri, e imparerà a fuggire e ad adorare anche Orrore e Morte, e i suoi occhi saranno rossi di notte e freddi di giorno.
E torneranno le grandi civiltà del passato, e greci e romani s'incontreranno nel mare del mito ancora una volta.
Tutte le persone felici saranno ridotte in tristezza, tutti i tristi iniziati alla temperanza.
I depressi avranno una loro personale divisione delle SS e perseguiteranno ferocemente tutte le persone spensierate, e i più intelligenti tra loro ascenderanno al grado di Custode dell'Eternità, indossato il mantello nero del cosmo si incammineranno verso i mondi lontani.
Ma chi resta sarà dato in pasto ai coccodrilli del Po, ché la vita non ci è cara e la gettiamo volentieri in pasto ai rettili.
Lucertole giganti zampetteranno negli orti straziati dal sole, sciami di api sciabolatrici assassine fenderanno ogni incauto viaggiatore.
Gli asini saranno ufficialmente cavalli scemi, e i cavalli zebre sobrie. I cammelli verranno annessi alla famiglia dei magrebini, e ogni ariano puro dovrà avere un corvo nero come famiglio da lanciare sulle prede.
Agli scimpanzé sarà riconosciuto il diritto di voto purché non lo esercitino, mentre ai pre-mongoli dell'estinto sud-america verrà proibito di vestirsi come dei coglioni, e anche di camminare in istrada di giorno.
Le uniche lingue parlate saranno il greco antico e il latino imperiale - italiano e francese verranno impiegate nella letteratura più colta, mentre le lingue germaniche verranno insegnate ai pesci.
E le case avranno tutte il tetto a punta per separare la cenere, e infine riprenderà a piovere ma questa volta non dalle nuvole ma direttamente dallo spazio.
E ci saranno canti, e risa e scoppi per la pioggia delle stelle, e tutti danzeranno a festa, i negri torneranno in superficie e i bianchi costruiranno barche per navigare i nuovi mari siderali.
Allora tutte le madonne saranno abbattute, i dogmi sciolti e gli ideali sparecchiati, ognuno se ne laverà le mani e fuggirà da qualche parte. Chi con una donna chi da solo.
Chi nudo e chi ricoperto di sangue.
Tutti in direzioni diverse, Tutti pazzi di gioia e di terrore.
E non sarà più ne giorno né notte, Né caldo né freddo.
Non sarà più niente, tutto sarà strappato dalla contrarietà degli eventi risolvendosi in nulla, e buio, e vuoto, e silenzio.
L'occhio di Elios guarderà immobile e perfetto il suo sistema, dove ciechi e morti girano i suoi satelliti di roccia e di gas e di altro ancora, alcuni fatti addirittura di niente.
Là dov'era la terra resterà solo un lumicino e un vecchio che lo tiene in mano.
E il vecchio dirà: niente ha senso. Poi soffiando sul lumino spegnerà tutto e anche quest'anno sarà finito.
Buona fine del mondo. Meno male che è finito.


- Scritto e non riletto -



lunedì 22 dicembre 2014

Terre di nessuno




Sotto un cielo viola, spazzata da venti oscuri, si staglia l'immobile vallata che è questa terra, pietre spezzate che coprono piante morte, e i pochi alberi ancora in piedi maledicono il cielo con le loro braccia scheletriche. Acque putride lambiscono le terre ombrate, e ovunque regna il silenzio della resa. Sotto una tremula scia lunare, tra rovine di quelle che un tempo furono case e palazzi, un demone alato siede su una vecchia colonna strappata alla terra; lo sguardo perso e indefinito come a cercare qualcosa che non c'è mai stato. Due dita sotto al mento, in ossequiosa meditazione notturna, pallido e magro, con le ali scosse dal vento polveroso della rovina, sembra lottare tra sonno e fame, o forse nessuna delle due, tanto è indecifrabile il suo volto. E poi dal nero che separa le stelle scende un uomo, e si siede nell'incavo di una saetta.
    - Demone, che te ne stai il pensierosa attesa di neanche tu sai cosa - dice costui -, perché qui è tutto così silenzioso, dov'è il fuoco degli uomini, dove le loro danze colorate?
      Il demone parve come sottratto dal pensiero di una rivincita, e stancamente, colmo dell'inespressività che segue a una lunga battaglia, prese a indicare la desolata landa, la mano bianca e morbida, venata di rosso, le lunghe unghie a scavare il vento: - Qui, oh uomo, sorgevano le dimore del Primo Uomo, e il cielo era azzurro, e la natura cantava sotto il sole dell'estate. Ma ora, ombra, che dal nero sei venuta, qui niente più sarà come prima, ché ora soffia il vento che uccide la vita, e solo io posso dimorare in questa disperazione senza tempo.
         - Io, demone, vengo da molto lontano - gli rispose l'uomo - e, in un certo senso, è come se fossi tornato. Ma qui nacquero i miei avi, ed è loro che io vengo a visitare. E trovo la fine delle cose, e tutto qui è spoglio, tutto piange. Spiegami, te ne prego, cosa è accaduto? e dove si persero i miei compagni e il calore delle loro case?
          Sotto le palpebre pesanti, rame scintillante sotto il pallore lunare, il demone errò col pensiero a ere lontane, raccogliendo memorie che danzavano nella litania disperata di quella notte.
          - Troppo oltre si spinse l'uomo nelle sue lucide follie, e cercò il rigore della scienza là dove la sua mente non poteva sostenerne le incertezze, e volle trovare se stesso non nella luce del sole, ma nelle proprie oscure profondità; e ancora, prese a vivere per effimere ricchezze, rifuggendo la sua natura libera, facendosi schiavo dei padroni da esso creati, scherzando con la materia. E i figli dell'uomo crebbero contorti, confusi e ciechi davanti all'immensità delle cose. Così, come un vortice d'acqua scura mulina nel fondo di un pozzo tetro, l'uomo prese a consumarsi ruotando nel proprio insensato vorticare, fino a sbriciolarsi come lo scoglio che lambisce il mare dell'eternità. Queste sono le sue rovine, e davanti hai solo un guardiano, che ha sempre fame di altre rovine e di infiniti silenzi, e da sempre vaga in una terra morta, ombra dell'uomo: o forse dovrei chiamarti viaggiatore delle stelle, figlio dei Primi, e colui che ritorna?

          - Non importa chi io sia, o come sono giunto qui - osservò l'uomo - Il tuo compito è finito, la tua veglia cessata, torna a dormire di dove vieni, o indicami i camini più brevi; qui, sotto il cielo stellato non sei più solo. Presto altri miei fratelli verranno, e altri, in altri luoghi, già sono giunti. Noi rifonderemo città e villaggi, e la nostra stirpe, forte del sapere delle stelle, rifiorirà, come fiorirono le colonne su cui ora malamente siedi.
            E notò l'uomo, solo allora, che nessuna traccia era dei nuovi venuti, là dove colonie avrebbero dovuto affacciarsi come scie di ragione nella pazzia di quel paesaggio. Dov'erano, dove i suoi fratelli, i procuratori dei nuovi mondi, i prima di lui partiti e tutti gli altri abitanti delle rocciose lande oltre il sistema solare e delle gassose sfere distanti dal sole che parimenti avevano deciso di tornare?
            - Dove sono tutti, me lo puoi indicare?
              E il demone iniziò a ridere, così forte che l'eco della sua stridula risata sembrò, per un attimo, ridare vita spettrale alle cose.
              - Sciocco, siamo noi la follia dell'uomo, l'orribile parto empio della sua mente: l'Orrore. Noi siamo la sua eredità, il suo figlio abortito nella notte di tempesta, la sua progenie nata dall'incrocio di mille tetre guerre d'odio: la sua furia. Qui noi, cugino, ora dimoriamo, sacerdoti adoranti verso il nostro Dio: le stelle, e di esse ci nutriamo, e non di luce, ma dei loro scarti parlanti che sempre tornano ricordandosi ancora di questo folle mondo. 
              Detto ciò si alzo e gli si fece incontro.

              Poi furono solo grida nella notte, e la pallida alba di un sole ormai consumato invase con una stanca luce la desolata landa, illuminando il banchetto tra le macerie, mentre altri demoni bianchi si radunavano tutt'intorno frenetici di devozione.
              "Gloria alle stelle!" - intonarono.
              "Gloria a coloro che tornano e che noi divoriamo" - urlarono ebbri di pazzia.


              E così gira il mondo, buio e infestato. E la patria degli uomini più non è, ché da dove essi giunsero ora regnano i divoratori, in attesa di coloro che sempre tornano.

              domenica 30 novembre 2014

              Le notti più lunghe dell'anno




              Non ho mai capito come faccia la gente a mangiare il panettone. Se c'è una cosa orribile, immangiabile, è proprio il panettone.
              Hanno tutti lo stesso sapore di industria e di operaio industriale, con le loro scatole piene di pretese che si risolvono in un biascicare esausto a fine pasto.
              Il panettone è un oggetto volgare. Il panettone è un atto di violenza che ci lanciano addosso, delle bombe allo zucchero che esplodono al rallentatore.
              Ma la gente continua a comprarli. La gente compra e si mangia di tutto. Il panettone, lo stato, la chiesa e la televisione. La gente ha stomaci formidabili che digeriscono ogni cosa.

              Eppure, nonostante le innumerevoli offese che qualsiasi mente vagamente funzionante riceve durante il cosiddetto periodo delle festività invernali, qualcosa di buono c'è.
              Spazzata via la mitologia del deserto, i gesù bambini e l'essere tutti più buoni, tirata la catena su tutto questo assurdo ammasso di stronzate, resta l'antica via, la radice che non muore.
              Sono le notti più lunghe dell'anno, e che tuttavia proprio  in quel periodo vanno accorciandosi.
              È una lunga tenebra densa di stelle, ed effettivamente anche il clima è adatto alla meditazione.
              Il freddo, la neve, ci costringono a un'intimità ragionata. I ricordi dei doni ricevuti negli inverni passati ci consolano e ci inteneriscono.
              La fine di dicembre è un assedio: da una parte i ricordi, dall'altra le lunghe notti. Laggiù, in lontananza, si vede la primavera che arriva a spezzare le linee nemiche. La si avverte nel sole che si fa sempre più audace, nel lento risveglio dal torpore.
              Insomma, non tutto è da buttare.
              Anche se dopo anni di campagne pubblicitarie, film americani e consumismo da tavola, è forse possibile vedere nel periodo delle "feste" un agglomerato di imbecillità. E ormai per lo più è così.

              La nostra civiltà, si sa, è basata sul consumo, per cui tutto diviene occasione per perdersi in acquisti effimeri e in spese inutili. Si potrebbe quasi dire, tornando al discorso di prima, che la nostra è una società basata sulla stupidità. Più la gente è stupida e facilona e più il nostro sistema economico ne guadagna.
              Ora, che il logoro e raffreddato cristianesimo si sia venduto anche le mutande davanti al consumismo per continuare a persistere nella mente unica della massa, non sorprende né dispiace.
              È chiaro che per sopravvivere alla contemporaneità e preservare la propria mente si debba fuggire il più lontano possibile da quanto ci è stato insegnato, da quello che ci dicono e vogliono che facciamo.
              Via da tutto. Ma non dalle feste invernali. Perché esse ci sono sacre e necessarie.
              Comunque lo si veda è un periodo magico, dove la bellezza della natura morta ma in via di resurrezione si incontra con la nostra infanzia interiore, dove l'uomo abituato a camminare nell'oscurità ricorda il bambino circondato da luci. E tutto rivive, e per noi e per il mondo che ci sta intorno.
              Offendere un così intenso dramma spirituale è un torto che non può essere tollerato. Essere circondati da zombie che fanno presepi e mangiano panettoni pubblicizzati da verginelle cantilenanti è umiliante.
              Anzi, rompe proprio il cazzo.

              Per questo vorrei passare gli ultimi giorni dell'anno da solo, davanti a un camino acceso.
              Osservando il mondo, ma non quello finto che spacciano per realtà, ma quello vero, fatto da notte e giorno, pioggia e sole, bosco e tramonto.
              La spiritualità è troppo importante. Non tutto è perduto ma molto è stato rovinato.

              sabato 22 novembre 2014

              Quella volta che la Wehrmacht passò davanti casa



              Bombardieri nazicomunisti cercano te

              Ci sono esperienze che somigliano a un sogno leggero da quasi svegli, nebbiose e terse come un miraggio; indefinibili, eppure definite nei loro contorni che sono quelli dell'orizzonte.
              Sono, queste, personali, ma uguali per tutti; diverse ma ugualmente meravigliose; e insondabili; irripetibili ma continue; evocative ma, in un certo senso, banali. Che quella goccia esondante di follia ce la mettiamo noi, cogliendola da chissà dove.
              Sono, queste, un viaggio in macchina la mattina presto, col mondo ancora sommerso nell'oceano della notte; e il confine tra stelle e sole disputato, coi fanti chiari in marcia dal mattino e le fortezze abissali a resistere nel cielo. Cogli odori della strada distesa sempre sullo stesso verso, che per la luce di quello scontro non sembra ferma, ma pare venirti incontro da non si sa dove, così che ci si chiede: vado io o il mondo mi viene addosso?
              Sono, poi, l'arrivo dell'inverno, e una strana leggerezza che tonifica nel primo freddo. L'aria gelata ha una sua consistenza di mura fortificate, e di fossato; divide le strade in corsie glaciali, e ognuno segue la sua, separato. Unica umanità quel gocciolio del naso, e il passo svelto, un poco agitato. Che d'inverno non si passeggia ma si fugge da un luogo caldo all'altro, esuli ermetici senza rimpianto.
              Sono, naturalmente, quel momento mistico in cui penetri, seppure per un momento solo, per un attimo, la realtà e la sua danza disperata, dove ci si accartoccia in pianto per rinascere subito dopo, come se niente fosse stato.
              E poi il sovvenire di un dolore, di una febbre o una fitta, la prima lenta la seconda deflagrante: ma entrambe avvertibili come si avverte un odore. E nel venire danno il piacere che dà uno strappo con la realtà, per aiutarci a sopportarle. E in generale chiunque poi stia male.
              Ma dove vive chi sta male? dev'esserci, sì, un luogo del dolore senza ritorno, una geometria buia della mente; come un viaggio in macchina ma di notte, e senza una vera strada, che la morte non porta a nulla né ci dà la sensazione di venire da chissà dove. Solo si muore.
              E altre cose ancora, tutte più o meno banali ma eterne, tutte distanti e vicine, normali ma strane.

              Ci si ricorda di questi attimi come si ricorda un viso scorto da bambini, hanno nella memoria contorni vaghi che sfumano nel dubbio. È mai accaduta questa cosa o era solo sonno?
              È accaduta o sono solo inciampato in un sogno?


              Eppure ricordo nitidamente che ero in vacanza sulle Alpi, e che ero bambino. Su tutto una ambrata luce preistorica gravava sulle cose.
              I miei genitori erano forse in qualche campo mentre  miei nonni si attardavano in sala da pranzo.
              Che cos'è un dolore? è la sensazione di ricordare qualcosa che non è mai accaduto?
              Un buco nero dai contorni di ruggine nella mente. Un tubo nella terra verso cui si scivola per rimanervi intrappolati, immobili, e poi si urla il dolore?
              Ero in terrazzo anch'io, e poi nel bosco.
              Ricordo che non mi ero mai trovato così chiaramente davanti alla vita e alle sue infinite espressioni. Ricordo che ero nel bosco con gli abitanti del bosco.
              C'erano insetti dalle combinazioni di colori mai viste, api pelose e goffe e farfalline rosse coi puntini neri; c'erano strani sentieri senza nome, dove funghi mostruosi aduggiati al sole creavano ombre umide di mistero.
              Correvo dal terrazzo al bosco, mi perdevo. Ero lì con i miei nonni ad annusare l'odore di legna bruciata che hanno le cucine alpine, la severità dei loro contorni spogli di tutto eppure perfetti.
              La Wehrmacht passava lungo la strada e poteva essere vista dal terrazzo e dal bosco.
              Lunghe file di soldati stanchi e curvi tornavano alle pianure del nord circondati da un grigiore stanco di tutto.
              Sui loro volti c'era la fine del mondo, nelle esauste risate l'inferno. Si infilavano laggiù, nella curva che sta tra il passo e il bosco, la curva che dà direttamente sulle stelle e gli spazi intergalattici.
              Senza esitazione vi saltavano dentro sparendo da questo universo.
              Ricordo poi che andai più vicino alla strada per chiedere che mi lasciassero qualcosa. Mio nonno non voleva. Mio nonno sedeva davanti alla televisione e aveva un coglione che usciva dai pantaloncini corti. Penso che non potesse vederli. Vedeva solo la televisione.
              La ritirata della Wehrmacht in quel pomeriggio d'agosto era una di quelle cose che potevo vedere solo io, come alcune creature della notte e del bosco.
              Da cosa fuggono, mi chiesi.
              Un soldato tra i tanti colse la domanda che avevo dipinta in viso: - Dai russi - mi disse.
              - Ma come, qui, nel nord italia?
              - I russi sono ovunque. Esistono solo due cose, noi che ci ritiriamo verso le stelle e i russi che ci spingono nel vuoto.
              In lontananza si sentivano bordate pazzesche e Berlino che crollava sotto una tempesta d'acciaio.
              Lì a presso, a dar manate al vento, c'era Goering. Si ritirava verso le stelle e l'infinito pure lui, col suo faccione piombato e gli occhi da lince assonnata, e quel che restava dei fanti gli andava dietro.
              Non volle darmi la sua croce di ferro ma mi lasciò un fucile, un fucile con l'elastico.
              Ci mettevi una pietrina sopra e l'elastico la lanciava via.
              Poi se ne andò senza dire nulla con le altre ombre verso l'ultimo nero.
              "Addio Wehrmacht!" gridai al vento
              E il vento mi rise dietro.
              "Addio Wehrmacht!" gridai, e col fucile di Goering lanciai un sasso al vento.
              Rotolò sul selciato e quando fu fermo la strada era deserta. Si sentiva solo la televisione accesa e mio nonno che chiedeva cosa c'era per cena.
              E seppi che ero rimasto solo.

              Ci sono esperienze che somigliano a un sonno leggero nel dormiveglia tra questo e un altro universo, sono luoghi in cui ci si rifugia e si è protetti. Come in un bosco fatto solo di luci e ombre, dove fioriscono i ricordi e la bellezza cresce alta sino al cielo.

              Andiamo?






              lunedì 3 novembre 2014

              Il racconto sbiadito




              Ti racconto, simpatico lettore, di come la vita sia tutta una pazzia, e saltando da un cerchio di fuoco all'altro si finisca sempre per bruciarsi il cervello. Specie d'estate. Specie se fa caldo. E certo, ne converrai, se fa caldo, e le strade friggono miraggi nell'aria, si sta meglio nelle solitudini marine che a traslocare.
              Eppure, proprio perché la vita - che volete farci - è tutta una pazzia, io in quell'estate, e sotto quello sfrigolio bollente, mi accingevo a traslocare.
              Venivo, per così dire, da un angusto vicoletto, e mi sembrava fino a quel giorno di non aver mai visto la luce del sole. Venivo, in un certo senso, da un luogo soffocante, e mi sembrava fino a quel giorno di non aver mai sentito le carezze del vento.
              Venivo anche carico, carico e sudato, trascinandomi dietro i miei pochi averi e una vecchietta che viveva con me da anni.
              Venivo, appunto, a villa Carina, con le sue mura di mattoni scuriti e il suo cancello cigolante, che ci accolse nell'abbraccio variegato del suo profumo di giardino e i bei fiori cangianti. La facciata, da me mai vista, sfavillava ai raggi del sole estivo, eppure nonostante tanta luce mi sembrò di cogliervi un non so che di ripugnante da cui con un vago gesto di mano cercai di liberarmi.
              Davanti a essa stavano assisi tutta una serie di gatti, per lo più neri, dallo sguardo tra l'annoiato e l'iroso, che non capivo se avevano sonno o mi odiavano.
              Tutto intorno l'erba era alta e impazzita, e ogni finestra, verde come l'erba, sbarrata, come a vietar l'ingresso all'estate che tutto cingeva d'assedio.
              E infatti dentro non era poi così caldo, nel largo e scuro androne, salvo forse solo un po' di afa nell'avvicinarsi al tetto - e nelle soffitte assolate poi era tutto un gran sudare.
              Così in breve mi sistemai lì con la mia serva anziana, e feci presto la conoscenza dello stabile e dei personaggi che lo abitavano, che erano come dei vermi ciechi  che rodono al suo interno un frutto antico

              Intanto sì, c'era una gattara. E una gattara mica da ridere, che infatti di gatti ne aveva diversi, da tre fissi a sette. Io poi amo i gatti, si sa, ma questi erano, nel modo più lurido possibile, tutti rotti e ammaccati, uno senza coda l'altro senza denti, uno grigio ricordo senza orecchie: una banda di gatti sporchi e mutilati, come di ritorno da una tragica guerra. E quasi immobili, difatti mai ne ho visto uno anche solo accennare la corsa, o salire d'un balzo. Ognuno fermo nel suo angolo come a fuggire il mondo, attendendo il cibo che Rosina, col suo zinale liso, e i capelli strangolati dal vento, portava con solerzia, per non dire devozione: tanto che pareva li adorasse.
              E pure se avevano gran fame mai li ho uditi miagolare, men che meno agitarsi dall'appetito.
              Io non le dissi nulla, fingendo ammirazione per il suo comportamento, senz'altro figlio del non aver avuto figli - cosa che poi mi fu confermata - e di una diffidenza verso gli altri esseri umani, o come li chiamano i vecchi del luogo i 'cristiani', dando per assodato che tutti gli umani lo siano.
              Invece ben poco cristiana era un'altra signora, questa più tozza e curata, che al contrario di Rosetta, o Rosina, uno vale l'altro, stava al piano terra, anzi leggermente sotto dato che la villa era scavata nel tufo, tanto che che ogni volta che se ne usciva dall'uscio sembrava un animale che risale la sua tana, e un qualcosa di bestiale in effetti lo aveva, sicché bestemmiava come una fiera delle più feroci, con tali improperi da suscitar allegria e persino, ogni tanto, un poco di stupore.
              E lei la chiamai la signora delle tazzine e del caffè, che a una certa ora, mentre - più avanti iniziai a farlo - curavo il giardino, sempre passava e me ne offriva, con dell'altra roba dentro piuttosto forte, che anche lei prendeva, rinvigorente per me, ma che su di lei aveva l'effetto di farla imprecare ancora più forte, contro la vita e la vecchiaia, e i gatti maledetti che impestavano l'erba alta; e pure contro l'erba che, a suo dire, dovrebbe tagliarsi da sola.
              Davanti alla mia porta, al primo piano, vi era un tizio scapolo con la faccia da pesce scongelato e lasciato al sole, uno di quelli che non capisci di che razza sono, se diavoli o santi, o nessuno dei due; uno di quelli, per capirci, che te li immagini con lo sguardo vitreo a fare le peggio porcate da soli, al buio, chiusi in una stanza, ma che poi, come niente fosse, vanno alla processione della tal madonna vestiti a nozze, e camminano in mezzo alle addolorate come se stessero andando a lusingare qualche bella ragazza, e invece pascolano dietro a una croce.
              Uno così, insomma.


              Ora, devo dire, le mie stanze non erano certo granché spaziose, constatanti in un salottino, una camera da letto adiacente, un cucinino sepolto in angolo del salotto e un bagno. Tutte stanze di medie dimensioni, pulite e ordinate. Ma con troppa luce del sole a scaldarne i muri, di modo che appena potevo, e la luce del sole si ritirava a spiare il cortile da dietro al muretto, me ne andavo giù, in giardino, a guardare i gatti o Rosina, ma mi pare si chiamasse Rosetta, che con le sue vesti logore da gattara gli sfilava accanto. E tutti in fila che furono diedi loro nome e scopo in questa vita, ed essi ancora, dovunque siano, se ne fanno vanto.
              Ed erano:
              Behemoth, la voce del caos. Una gatta nera senza denti, il cui miagolio pareva eruttato da un buco della terra. Svelta e silenziosa, era l'ombra di ogni pianta, e ciò che faceva era far finta di non esserci.

              E Necromante ombra lunga, che probabilmente evocò Behemoth da un luogo lontano. Un gattone grigio dal viso pendente e il miagolio querulo, quasi assillante, ma diffidente verso ogni cosa, persino la sua ombra, che forse credeva viva.

              E Ern, assenza di luce. Un gattone nero con le più grandi palle che abbia visto, tanto grandi da sembrare le palle di un cane o di un primate. Sempre fosco e incline al crollare, come una maceria indispettita dalle intemperie. Spelacchiato e ingiallito nelle estremità, era sempre isolato dagli altri.

              E poi c'era Shang Tsung il danzatore del crepuscolo. Gli diedi questo nome perché una sera, al crepuscolo, se ne andava pel cortile saltando dietro a una farfalla che vedeva solo lui, sicché sembrava danzare con la luce morente. E quello fu il suo nome. Questi non aveva coda, ma in quanto a coglioni era secondo solo a Ern, e nel correre ne aveva fatto, in assenza dell'arto, il suo organo dell'equilibrio mancate; così le agitava di qua e di là per tenersi sempre ritto e bilanciato, e queste sbattevano da sembrare loro, le palle, a dirigere il corpo, e tutto quello che c'era davanti a seguirne il corso.

              Poi, altri gatti minori, erano Tarcisio il farmacista, chiamato così perché sovente si recava in farmacia, che lì era una micia da tutti ambita, ma egli per sorte o per diletto ne poteva vantare qualche speciale diritto.
              E poi Gozer, un gatto di medie dimensioni, nero, ma di un nero fluido, cromato, un nero da anguilla della notte, capace di infilarsi ovunque e di sparire in un batter d'occhio, con un tuffo o uno scarto di lato.
              E altri ancora, tutti ben nutriti da Rosetta, o era Rosina, tutti ben tranquilli, e soprattutto fermi, immobili, come ad aspettare qualcosa che prima o poi arriva, e andargli incontro non ha senso.

              E quindi, mentre la signora delle imprecazioni mi portava il caffè, i gatti languivano e il sempliciotto con muso da batrace stendeva i suoi calzini di spugna bianca al sole, io me ne stavo a vedere tutte queste cose e altre ancora, all'ombra del muro antico sotto le cui fondamenta dormiva un lago, e sopra il quale si apriva il cielo.

              In quell'estate cercavo di tirare su due soldi per qualche piccola spesa che avevo urgenza di compiere, come mangiare, cacciare via la vecchia serva per una migliore, e curarmi i denti, che quest'ultimi continuamente mi dolevano come un brutto ricordo che si fa carne e sangue, e scrivere racconti era il mio modo per guadagnare.
              Le case editrici dell'epoca, manco a dirlo, non ne volevano sapere, anzi talune mi convinsero che sarebbe stato meglio fossi io a pagare.
              Ero preda di questi e altri pensieri quando la biondina che viveva al piano terra, ma in un appartamento separato, una specie di ridotta della villa, mi venne incontro per innaffiare le sue piante.
              Era costei né bella né brutta, ma, in un certo senso, come si suol dire, passabile, così come non la si potesse dire intelligente e manco sciocca, solo forse un po' distratta.
              Non aveva in simpatia i gatti, ma mancava di carattere sufficiente a scacciarli apertamente. Di modo che quando Rosetta, o Rosina, fate voi, insomma quando la gattara era presente non faceva altro che miciomiciare e fingersi intenzionata a carezzarli, salvo poi tirar loro delle gran sassate quando credeva di non esser vista.
              Ma i gatti lo sapevano, e senza adottare nessuna tecnica particolare si limitavano a starsene immobili nei loro angoli. E io nel mio.


              Ora, successe questo, e cioè che giunto l'inverno, e introdottomi abilmente in quel contesto, le vecchiette si ammalarono tutte insieme, compresa quella che mi faceva da serva, e spedite se ne andarono al camposanto.
              La biondina incontrò un altro biondino del suo pari e con questo si trasferì in altro canto. E il sempliciotto del primo piano, forse non potendo accettare che il suo amore nascosto non fosse - e non sarebbe stato mai - contraccambiato, sparì del tutto, come un petardo. Ma senza nessun rumore, come uno che pascola dietro a una croce.
              E così rimasi solo.
              Oddio, non proprio solo. C'erano ancorai gatti.

              Il primo giorno diedi loro da mangiare, perché mi facevano pena e non volevo loro male.
              Il secondo giorno gliene diedi perché ne era rimasto d'avanzo dal primo.
              Il terzo, sicché odio il prosciutto vecchio, glielo lanciai. Sapendo che dopo di quello si sarebbero dovuti arrangiare, dato che in cibo spendo poco e non ho avanzi da regalare.
              Il quarto attesero e il quinto erano spariti.
              Li ritrovai il sesto giorno dacché ero rimasto solo, riuniti in concistoro sotto una delle alte finestre che danno sul cortile, come a mettersi d'accorso su argomenti di grande importanza agitandosi niente affatto.
              Probabilmente non erano pronti a un simile evento, e l'idea di migrare altrove li ripudiava e ne offendeva la pigrizia pietrificata nei gesti lenti.
              Così dapprima furono solo i più giovani ad andarsene, e da lì a un paio di settimane dei gatti non c'era più traccia.
              Infine anche l'inverno arrivò, coi suoi venti acuminati e la morte delle piante, e insieme all'inverno arrivò, finalmente, anche un'offerta di lavoro per me, che un racconto scritto su Villa Carina era piaciuto e me l'avevano comprato.
              Così in poco tempo, come ero venuto, feci le valigie e me ne andai, ed era febbraio, e mi lasciavo dietro un grosso muro di facciata adombrato, un giardino spazzato e un alone luttuoso che aduggiava sullo stabile, senza che neanche un gatto fosse rimasto a salutarmi o una vecchietta a ficcare il naso.
              Chiusi il cancello cigolante e me ne andai, né triste né sollevato, con in testa niente di particolare se non qualche idea sulla vita e sulla morte. Niente che non fosse già stato scritto, per cui spazzai via tutto insieme al vento glaciale, compreso un qualcosa di ripugnante che la villa vista da fuori mi dava a intendere, e mi misi in viaggio per la prossima Villa Carina, o qualche altro strano teatro.



              domenica 2 novembre 2014

              Introduzione a Tolkien

              Stanotte ho fatto un po' fatica ad addormentarmi, così nel buio sospeso tra veglia e sonno ho pensato a quale sia il modo per approcciarsi meglio alla lettura di Tolkien.
              Non che i vicini facessero rumore, con loro mi sono spiegato molto bene; nessuna spiegazione, ahimè, c'è stata con i miei denti, che mi hanno fatto male fino a che più che addormentarmi sono caduto in un deliquio di stanchezza, e ho sognato che stavo male.
              Il giuramento dei figli di Feanor (Silmarillion)


              Ad ogni modo, tralasciando questi miei viaggi nel dolore notturno, qual è il modo giusto di leggere Tolkien?


              Inizierei con questa premessa, e cioè: l'ideale, intanto, è non aver visto i film.
              Per molti motivi, primo fra tutti lo svelamento della trama. Ma non è l'unico. Infatti accade sempre, nel vedere un film tratto da un libro, che poi, provando a leggere il libro, nei personaggi e in generale in ogni immagine evocata dallo scrittore vadano a pietrificarsi gli attori e le scene del film, così che risulti impossibile creare da soli con la guida del testo, ma si tenderà a rivedere quanto proposto da questo o quel regista.
              Insomma, in parole povere, il film rovina l'esperienza del lettore che non riesce più a creare dal nulla le visioni del libro.
              Certo anche avendo visto i film se ne può godere alquanto, e magari con uno sforzo riuscire a sostituire le proprie immagini a quelle viste sullo schermo.
              Detto ciò: da quale libro iniziare?

              Ora, si sa, i libri che contano sono tre, Il Signore degli Anelli, Il Silmarillion, Lo Hobbit.
              Nel primo abbiamo la parte conclusiva della macro narrazione tolkeniana sotto forma di romanzo epico. Qui il protagonista è Sauron, assente ma sempre vivo nei pensieri di chi ne sfida le ambizioni.
              Nel secondo vengono raccontate per sommi capi, e con un linguaggio ricercatissimo che sfrutta la mitopoiesi, le vicende di Arda, dalla creazione iniziale di Illuvatar alla caduta di Melkor e oltre ancora. Non si può nascondere che sia un libro indigesto ai più, ricordo bene che la prima volta che lo lessi dovetti farlo col dizionario ben vicino tanto erano astrusi i termini che vi trovavo. Rimane comunque il testo senza il quale è impossibile comprendere gli altri due. Qui il protagonista è Morgoth Bauglir, Valar votato alla tenebra e creatore di ogni male.
              Il terzo, Lo Hobbit, è una fiaba che racconta gli eventi che anticipano Il signore degli anelli, una sorta di prefazione. Non inganni il termine fiaba, sebbene infatti i toni siano più leggeri vi sono alcuni punti di grande spessore. Qui il protagonista è Bilbo, l'hobbit che trova l'Unico Anello che era andato perduto.

              Uff, che male. Ho anche finito i brufen. Sdraiato non posso stare, sento la testa che si gonfia e pulsa come un raviolo al vapore. Sarà meglio sedermi sul letto. Ma sì, fumo. Tanto peggio di così non posso stare.

              Dicevo... difficile dare un ordine di precedenza a questi tre libri. E poi, a dirla tutta ce ne sono altri tre. Ma di questi parlerò poi. Se me ne ricordo.
              Da dove si inizia?
              Verrebbe logico dire dal Silmarillion. Lo leggi, conosci la storia delle prime tre ere, e sei pronto per capire nei minimi dettagli gli altri due, ambientati alla fine della terza era. Sai chi è Morgoth, chi è Feanor, cos'era Gondolin, cos'è un Balrog, da dove viene Sauron, le guerre per i Silmaril, ecc ecc.
              Ma non lo dirò. Infatti la complessità del testo è tale che solo una volta incuriositi dalla lettura degli altri due si può intraprendere questo testo.
              Allora Lo Hobbit, che precede Il signore degli anelli?
              Forse.
              Sarebbe la scelta logica, ma data la natura del tutto diversa del testo dagli altri due, come detto fiabesco e destinato a un pubblico più giovane (del resto è stato scritto 20 anni prima di tutto il resto) si rischia di avere un approccio sbagliato.
              Ma allora quale?
              Non resta che ISDA, ma sarà una lettura di non facile comprensione, infatti i riferimenti agli altri due libri sono innumerevoli. Si rischia di finirne la lettura lasciandosi dietro molti buchi neri.
              Ed è quello che successe a me. Chi è questo Morgoth di cui si parla; e i Noldor cosa fecero per irretirlo? Da dove giungono gli Istari? E chi è Elbereth di cui cantano gli alti elfi rimasti nella terra di mezzo? chi sono gli orchi?
              Il libro non spiega questa come tantissime altre cose, ma le lascia sospese chiedendo al lettore lo sforzo di immaginarle da se. Queste vengono svelate solo nel Silmarillion, e sono proprio tali domande che ne fanno intraprendere la lettura da parte di chi si è fortemente appassionato al testo.

              Per questo io dico: prima ISDA, poi Lo Hobbit, infine Il Silmarillion.
              E poi, infine, ancora ISDA, per comprenderlo pienamente. In effetti quello che sto dicendo è che servono almeno due letture in quest'ordine.
              Poi sia chiaro, ognuno fa come crede, ma a me questo sembra il metodo migliore.

              Fingolfin Re dei Noldor sfida Morgoth (Silmarillion)


              Vi sono poi altri tre libri come detto.
              I racconti perduti.
              I racconti ritrovati.
              I racconti incompiuti.
              Tutti questi testi sono delle integrazioni, talvolta delle ripetizioni, del Silmarillion. Vengono riportate le leggende delle prime tre ere a volte in modo diverso, a volte più approfondito.
              Solo nei racconti incompiuti (che sono, appunto, non finiti) Tolkien svela qualcosa in più, come la natura degli Istari o chi furono i Nazgul nei regni mortali.
              Certo si tratta di approfondimenti interessanti ma destinati ai grandi appassionati. Insomma una lettura ulteriore a cui ci si presta dopo le tre iniziali.

              Comunque, con questo dolore in faccia, di dormire non se ne parla. Continuerò la mia quarta lettura del Silmarillion. Infatti a ogni rilettura inizio da quello.
              Ah, comunque la sigaretta ha peggiorato tutto.


              venerdì 10 ottobre 2014

              Antologia di scritti inutili n°2

              C'è qualcosa che mi affascina nel fuoco, un divorare divorandosi che è tipico di certe persone, della bramosia acefala di consumare. Ma non lo trovi nella fiamma dell'accendino o sul fornello in cucina, devi necessariamente ammucchiare della legna in un bosco e accenderla di notte, devi vedere la danza ancestrale delle ombre intorno al fuoco, odorare il buio ignoto che che ti cinge d'assedio, e ogni rumore non ha forma, e incute timore.
              - Ma io sono una persona molto pigra e amo le comodità.
              - Morirai.
              - Può darsi, ma che c'entra?!
              - Bhe, ti spiego...
              Basta pensare alle nostre abitudini, non so: cibo, ritmi sonno/veglia, luoghi in cui mi reco ecc ecc. Pensato? ora poniti con questo bagaglio di appiattimento esistenziale davanti alla morte, ossia inizia a contemplare l'idea che potresti morire nell'immediato. Fatto ciò si accende un lumicino, niente di trascendentale per carità, ma qualcosa ti fa vedere: ti fa vedere che esiste una tua non esistenza. Davanti a tanta angoscia non si può che restare basiti, e ci si rende conto dell'importanza, dell'unicità, della storicità della nostra vita. Abbracciato questo ragionamento si può capire che l'apatia dell'abitudine non è degna di abitare nelle nostre vite in quanto uniche e irripetibili, ed è proprio l'idea della morte, l'angoscia e la reazione che ne derivano a permetterti di vivere pienamente. Quindi ti viene voglia anche di accendere un fuoco e raccontare com'è stato. Semplice.
              - Ma Dio allora?
              - Dio cosa? lascialo stare Dio, Dio è morto.
              - Ma senti allora, se Dio è morto, perché dovrei stimolare la mia esistenza se comunque diverrò concime?
              - Perché.. già, perché?
              - Senti ma... quando fai il fuoco di notte, bevi?
              - Beh, certo che bevo, altrimenti come farei a pensare tutte queste sciocchezze?
              - Ma guarda tu, me lo potevi dire subito, no? Invece di perdere tempo con la morte e la banalità del cazzo. Andiamo a farlo, dai, bevendo posso andare ovunque.



              Una tipica reazione chimica a cui sottoporre le chiese


              Diario notturno

              C'è un qualche uccello notturno che lancia il suo verso qui dietro, tra la notte e il bosco. Un tempo lo avrei coperto con della musica, ma negli ultimi mesi per la notte ho scelto il silenzio; così nei i primi dieci minuti era solo un verso, ma è ormai già da un'ora che sono sicuro mi stia parlando. Egli dice: "apri la porta e vieni qui, vieni a vedere cosa c'è di notte nel bosco, vieni a vederlo e poi muori."
              Da pochi minuti se n'è aggiunto un altro, più stridulo e lontano. Questo mi parla al di là della notte e del bosco, come un'avanguardia del mattino, e mi dice: "non c'è nessuna notte e nessun bosco."
              A breve so che arriverà il terzo, e lì smetterò di aggiornare questo diario per seguirlo nel sonno, dove senza menzogne sarò io a cantare i miei versi, e muti mi ascolteranno gli abitanti della notte, e del bosco.



              I miei pensieri abituali si ritrovano qui

              Sono un tipo che in casa si sente a suo agio, anche da bambino uscivo poco. Ho le mie robine, le mie cose da fare, i miei ritmi casalinghi, e anche senza uscire la noia non mi sfiora mai.
              In qualsiasi posto debba andare non vorrei mai andarci, bello o brutto che sia, e questo perché sono maledettamente bravo a stare in casa e preferisco restarci.
              Poi, quando esco, penso sempre a come sarà il ritorno a casa, con lo stesso slancio che avrei se fossi convinto di trovare tante schiavette nude al mio rientro.
              Ma in realtà non c'è mai niente a casa, a parte le mie robine, le mie cosine da fare, e il piccolo sistema planetario intorno al mio letto, dove i mondi raccolti da me orbitano con la gravità che è propria delle cose.

              Diario di un lento suicidio - Introduzione al delirio notturno [parte prima]

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              Diario dal fronte, secondo giorno di ostilità contro l'estate.

              Per ora le truppe sono unite e ben rifornite. Il vento soffia, la pioggia batte, la folgore sferza i boschi.
              In mattinata l'odiato sole è riuscito a sfondare il fronte provocando grosse perdite di umidità fastidiosa e caldo disagio. Nel primo meriggio le forze del generale Grandine, con una sortita mirabolante, lo hanno costretto in ritirata.
              Ora le divisioni Pioggerella e GranPioggia battono il campo a far fuori i feriti, mentre la divisione Tuono canta vittoria per i cieli tenebrosi.
              A breve l'armata Temporale dovrebbe definitivamente ributtare le odiose forze estive dietro il confine del giorno. Fino a domani si può resistere, e tutti ringraziano.

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              Diario del dolore. Marzo 2014

              L'unica cosa che mi tiene ancora in vita sono i brufen e l'alcol. Non dormo da 2 giorni. Non mangio cibi solidi da 3 giorni, tenendo conto che leccare non è mangiare. Faccio fatica a bere. Non riesco neanche più a parlare. Questo però solo da oggi.
              È divertente interagire con le persone senza parlare. O almeno più divertente che interagirci normalmente. Chiedi carta e penna, mugugni, usi i documenti, ecc ecc
              In realtà potrei già essere pazzo. Voglio dire, hey, dopo 7 giorni di agonia, un dente del giudizio che ti perfora un nervo facciale, un ascesso grande come un mandarino sotto al collo, senza sonno e senza neanche potermi sdraiare?
              Potrei benissimo già essere pazzo. Oggi volevo picchiare uno perché mi ha guardato. Il nervosismo è incontenibile.
              Quindi, sono pazzo?
              Prima leggevo un libro di fantascienza. Ogni tanto mi fermavo, mettevo giù il libro, e fissavo il muro. Aspettavo che passasse la fase acuta del dolore, quella in cui non riesco a concentrarmi. Ogni tanto il muro spariva; vedevo oltre. Vedevo lontano.
              Più di una volta, piegando la testa di lato, e cedendo al torpore, ho sentito fermarsi il cuore, o quantomeno fare uno strano battito, come se si espandesse.
              In teoria si, potrei impazzire.
              Quando mi addormento, se dormire seduti è sonno, sogno il dolore. Lo sogno in vari modi, a volte è una cosa, a volte una persona. Ma è sempre lui, il dolore.
              Mi do altre 48 ore di resistenza, conoscendomi è il mio limite. Poi inizio a uccidere.
              Sarà divertente.

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              La terra vista dalla luna


              Diario di un annoiato-ato-ato
              Caro diario: prima, verso le 11, ho ingurgitato dei tocchi di porchetta. Di solito, come ben sai, essendo molto condita e stratificata con tessuti molli e duri, la porchetta si vaglia: questo si, questo no, questo forse. Dopodiché ciò che rimane ce lo si sbatte in bocca con del pane.
              Però questa volta, ingobbito sul lavandino nella penombra del lampione esterno, non sono mica stato a vagliare, e no. Ho buttato giù tutto un po' a casaccio. Cosicché c'era un aglio enorme, un aglio tutto intero, e me lo sono mangiato. Col pane e qualche bevanda è andato giù. Mi dicevo: "sputalo". E invece no, tutto giù, tutto giù.
              Poi, com'è ovvio, ho fatto cose, ho vissuto oltre l'aver mangiato della porchetta. E qui tutto è accaduto, difatti un paio d'ore dopo è uscito un rutto che non era un rutto: era l'esplosione di un quasar a base di atomi d'aglio. Che quel maledetto, zitto zitto, deve essersi fuso con tutto ciò che ha incontrato, riuscendo poi ad espandersi con tanta efficacia non solo da farmi lacrimare, ma giurerei anche - sebbene ne avrò le prove solo domani - a mutare la mia essenza in quella di un allium nonché sbigottirmi per cinque secondi buoni, tanto che ho pensato - sono morto? - no, però forse un buco nero l'ho creato. Un vuoto d'aglio.

              - Più tardi -
              Nelle ombre della stanza si muovono strane creature, e tutto puzza d'aglio. O forse - e mentre scrivo rido lacrimando - sono pazzo.
              Ecco che vengono a prendermi: la stirpe dell'aglio che io ho creato.
              Devo fuggire, ma dove? E che odore! E come sono emaciato.
              Caro diario, guardati dall'ingoiare allium.


              -

              Diario di un annoiato
              Stamattina mi sono risvegliato in uno stato totalmente confusionale e nell'alzarmi ho subito notato una sensazione letargica. La prima aria fresca guarisce lo stress estivo, il corpo brama il sonno perso.
              Tant'è dovevo spedire un pacco e sono andato in posta. Ora, magari nella borghesia non si usa, ma spesso esco con la stessa roba che ho usato per dormire. Bene, certo stamattina non ero in vena di fare l'elegantone, e com'ero sono andato.
              Le cordicelle che legano le penne negli uffici postali dicono molto del clima di reciproca fiducia che vige nel nostro paese, e per qualche strano processo fisico - simile a quello che intreccia i fili delle cuffie - si attorcigliano intorno alla penna, di modo che ti chiedi: "riuscirò a scrivere l'indirizzo prima che sto coso si impicchi?" E puntualmente si impicca.
              L'impiegata del mio piccolo ufficio postale è gravida, e ha solo un'espressione: quella del condannato a morte, ma lo sa, sa già cosa devo fare, lo sa come è conscia che la sua gravidanza è solo un modo per liberarsi dal lavoro, una prigione per evadere da un'altra prigione, e così taglia corto: raccomandata o prioritaria.
              Il tizio, le dico, ha pagato 5 euro. Bastano per la raccomandata?
              Pesa il pacco.
              Sono sei euro.
              Allora prioritaria. La guardo meglio, perché, continuo, sai, ha pagato solo 5 euro. Attendo di scorgerle in volto un barlume di interesse. Un oceano di apatia.
              Allora prioritaria. Confermo prioritaria.
              Prendo il portafoglio per pagare e noto che qualcosa non va, estraggo i miei canonici 10 euro e pago. Eppure, mi dico, qualcosa non va. Pago.
              Riprendo lo zaino senza sapere dove dirigermi, e poi riprendo il portafoglio, lo apro e... e questi soldi? Vediamo... XXX euro.
              Hum
              Non ho idea del perché ci siano quei soldi. Mi giro verso l'impiegata che mi guarda ma non mi vede neanche, fissa un punto oltre me. Speriamo non guardi mai così suo figlio. Non è il caso di chiederlo a lei perché ho questi soldi, penso.
              Allora vediamo, non li ho rubati. Non li ho presi in banca. Inoltre non ho soldi in banca, il che dissipa ogni dubbio.
              Non lo so. Faccio giusto in tempo a pensare che potrei spenderli e mi ricordo che sono i soldi per l'affitto. Da quanto tempo erano lì? faceva ancora caldo... Ma in posta non ci torno di sicuro, la tipa minacciava l'aborto pur di essere lasciata in pace. No, e neanche a casa. Corse delle moto. Peggio della messa live se hai voglia di dormire.
              Così sono andato, caro diario, a raccogliere delle mele in campagna. E a me le mele neanche piacciono.


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              Nella carbonara non ci va la cipolla


              Diario Teosofico

              Il cristianesimo: suicidio dell'Europa. Questa stanca giaculatoria d'intenzioni, di utopia; questo nascondersi nel buio pensando di raggiungere il giorno: questa rivelazione mai detta, questo canto stonato di verità inesistenti. Questo ebraismo rivisto, ebraismo impoverito. Emendamento giudaico. Distruttore di storia e di ragioni. Che l'uomo lo maledica e lo distrugga.
              E si liberi.





              Diario di un cosmonauta. 

              Ho deciso che se vado sempre dritto nello spazio, a una velocità di 6/7mila anni luce al secondo - contando sul fatto che l'universo è sferico -, senza deviare minimamente dalla mia rotta, ecco, dovrei essere di nuovo qui tra un paio d'anni, proprio nello stesso punto.
              Certo le radiazioni universali e la stessa luce, impattate a quella velocità, sono un problema. Bisogna che prima trovi il modo di schermarmi per bene. Inoltre non avrei riferimenti visivi, dato che sempre per via della velocità la luce delle stelle non potrebbe raggiungermi, lasciandomi al buio più tetro.
              Se invece, ahimè, come alcuni pazzi sostengono, l'universo è infinito, vorrà dire che andrò sempre avanti fino a perdermi nel nulla, che è pur sempre una prospettiva migliore del vedere le orride grassone che in estate osano mettersi in costume.




              Trova dio


              Diario si un sopravvissuto, 9 maggio 2013

              Le cipolle han messo l'erbetta dritta, le melanzane fioriscono, ma i pomodorini ancora non si capisce cosa fanno. Aspettando di allargare le nostra dieta, che da troppo tempo ristagna, oggi abbiamo finito di recintare la magione e stabilito delle zone franche dove rifugiarci in caso di bisogno.
              Alle ore 15 avvistato un gruppo di erranti sulla strada provinciale, più è grande il gruppo è più sembrano intelligenti. Un po' il contrario di chi va a ballare il sabato sera, dove in un gruppo di 6 o più individui si inizia a notare un certo ritardo mentale. Approfondirò in seguito questo fenomeno, chiamandolo per ora: a ballare, se proprio devi andarci, vacci da solo.
              Un membro del gruppo mi ha ricordato che a breve sarà estate. L'ho ucciso. Poi comunque ha iniziato a tirare un venticello fresco e me ne sono pentito.
              A cena ci siamo riuniti al magazzino per decidere come procedere nell'esplorazione lungo il fiume, e su come regolarci verso quelle persone che, non si sa come, ancora pensano che Forum sia un tribunale vero. Ma oh! è finito il mondo e ancora credi alla tv? Vah che ti mando con gli zombie, eh.
              Per il resto tutto ok, sento bussare alla finestra ma so che il vetro è robusto. Ah già, poi il tizio che credeva a Forum lo abbiamo ucciso, ma non era già morto?

              ps ancora nessuna notizia di Bernardo, lo avevamo mandato a trattare con un gruppo di resistenza pacifica che non crede nella violenza contro gli zombie. Non è tornato. Forse perché è un cane. Idea del cazzo, eh? per fortuna il tizio che guardava forum non ne avrà più.



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              Diario di un sopravvissuto, Mercoledì 17 aprile 2013

              Nel pomeriggio ero seduto nel giardino recintato a seguire il volo di un uccello nero. È sparito, in lontananza, dietro una casa, ma non né è uscito. Mi chiedo dove sia finito.
              Ho spalato un po' di erbacce, poi sono arrivati i rifornimenti dalla zona portuale. Hanno violentato Chiara 6 volte. Sono andato a vedere com'è la faccia di una che è stata coperta 6 volte; era zitta, lo sguardo basso e le guance rosse, da giovenca.
              Niente carne questa volta, né la prossima. È troppo pericoloso camminare così a lungo, meglio coltivare da noi il necessario.
              Al massimo ci mangiamo Chiara.
              La sera mi addormento urlando dentro, la mattina mi sveglio con un urlo. Forse hanno morto Paolo, sta delirando. Sparla dell'elezione di un presidente, è ovvio che non sta bene.

              Più tardi:
              Abbiamo soppresso Paolo, stava violentando Chiara. Ma non per questo, no. Perché insisteva con quel Presidente del... l'ho dimenticato.
              Domani ci spostiamo, andiamo a esplorare le campagne a nord. Staremo fuori tutto il giorno, che il Fato ci aiuti.





              Quella troia di chiara



              domenica 5 ottobre 2014

              Un racconto o giù di lì



              In realtà il racconto è del mio gatto.



              Così inizia questo mio racconto, e come ogni inizio a fatica trova la sua via, il suo voler davvero esistere. Certo no, non è un’epica battaglia tra bene e male, benché bene e male non siano che sfumature dello stesso gioco inutile, e non è neanche uno di quei tomi con pretese filosofiche, storiche, o altre cose, tutte stoiche. A dirla tutta è anche scritto un po’ così, così come viene, e non necessariamente è piacevole da leggere.
              Ora, ascoltatemi bene, mi rendo conto che scriverlo è noioso; ora mi diverto. Ora so già le prossime dieci righe; ora non so niente. Vorrei essere prosaico con eleganza; lo scriverò in versi. E poi, forse, se lo finisco, e sarà un bel racconto, il mondo diverrà un bel posto; se lo finisco, e piacerà, il mondo sarà vuota notte. O in fondo niente di ciò, e, chissà, tutto insieme. O come si dice in questi casi: val bene vedere come andrà a finire purché finisca. Seppure certo non sappia chi mai s’azzarderebbe a dire una cosa del genere.
              Allora si narri questa storia e, misericordia, non se ne parli più, non se ne parli più per piacere, che si scriva e basta…e, per la maledizione di non ruotare ai lidi dell’universo, era caldo, ma non estate; poi stagioni non ce ne sono, e anche ce ne fossero la gente di questo racconto le ignorerebbe. Comunque era caldo nella zona, quel caldo umido che rende nervosi e privi di tatto, quasi bestiali durante i pasti, mostruosi nel rigirarsi nel letto umidiccio.
               Un caldo buffo, se non fosse tragico, curativo, se non uccidesse. Quel tipo di caldo che mette a dura prova qualsiasi ordine costituito.
               A proposito di ordine va detto che, se l’uomo nella sua favoletta, dalla scimmia a Dio, e poi da Dio…alla scimmia, dovesse rendere merito a qualcosa in particolare per essersi così ben evoluto, fino al punto a quanto pare imprescindibile per ogni specie di realizzarsi nell’orrore, lo deve senz’altro all’ordine. 
              Strano come l’ordine porti all’orrore. 
              Ordine mentale, certo, filosofico e morale, certo. Ordine nel diritto e nei percorsi umani predefiniti, senz’altro. Ma anche più modestamente l’ordine domestico, e a voler essere, e perché no!, precisi, l’ordine nelle singole stanze dove viviamo: e su tutte la camera da letto.
               Ecco, si potrebbe dire che l’umanità tutta ha il suo faro guida nel modo in cui ogni singolo individuo tiene ordinata la sua stanza. Ora, si sa, e chi non lo sa è quantomeno una persona noiosa, non sempre tale spazio si rivela lo specchio di un’anima serena, ma sovente ne è la nemesi, fino allo sfociare nel più bieco disfattismo umano, con picchi di sfacelo e miseria tali da far urlare malcapitati spettatori all’anticristo – davanti allo scempio di certe camere – o portare fisici più o meno sobri ad asserire, non senza commozione, che siffatti scenari orripilanti non possono trovarsi all’interno  del nostro continuum spazio-tempo.
               Insomma, a esser concisi, evitando per ora d’essere tetri, qualche caprone avrà già capito, e se non avrà capito, che sfacciato, sarà una capra!, che questa stanza non era, per così dire, il diritto romano, la moralità cristiana(?), o, tantomeno, la saggezza greca. Era, per Dio, un caos primevo, dove, ignorando le leggi universali, niente si trasformava, ma tutto davvero si creava dal nulla, come strani vapori, e si distruggeva per sempre, sparendo dentro pertugi dimensionali mai visti da occhio umano, come i vuoti a rendere che siamo, pieni di calzini sporchi e tutta la biancheria sporca del mondo e cicche puzzolenti e altre schifezze, tutte vecchie, tutte sporche.
               Ma chissà, chissà mai, chi ci vive in questa camera così incasinata, si starà chiedendo…tu, si chiederà tu, tu il lettore. Te lo chiedi? Ecco, caro lettore, scosta quel filino di bava dalla bocca e datti una pacca sulla schiena da parte mia – io, io che scrivo, ciao! – che stai leggendo da cinque minuti, e son sempre cinque minuti davanti allo schermo di un pc senza spulciare pornografia. E sia, ci vive, e si prova a riordinarla, una tizia, né alta né bassa, né giovane neévecchia, in un certo senso nient’affatto fuori luogo, dai modi garbati, tranne quando è sgarbata, e tutto sommato di una certa cultura, pur con una forte avversione per la cultura stessa.
               La ragazza, se vi fa piacere, s’applicava non poco per tenere in ordine la sua stanza, ma se preferite se ne fregava, tanto, per quel che ne so io, impegno o no, la stanza era un vero e proprio lebbrosario.
               Ora qui si spolvera, e dopo poco la polvere ricopriva tutto; poi qui rifacciamo il letto, e neanche si fa in tempo a girarsi che il letto si disfa; adesso riordiniamo per bene le mensole, e prim’ancora di allontanarsi per vedere l’insieme tutto s’era sparpagliato. Quella dannata camera pareva godere di vita propria, una dispettosa volontà tendente al disordine, fermamente decisa a impedire il desiderio d’ordine della ragazza.

              Certo, ne converrete, ne venne fuori un bel problema. Si sta male nel disordine, se non è voluto, si sta peggio ancora nel disordine quando se non metti in ordine ti picchiano. Eh sì, perché i genitori di lei, convinti fosse tutto frutto della sua personalità eversiva, la punivano, senza troppi convenevoli, e con mano ferma, a… come renderci chiari: a calci in culo, ecco, senza disdegnare occasionali bastonate, marchiature a fuoco, e, perché no, in fondo che diavolo!, costringendola a lavare i piatti, montagne di piatti: tutti i piatti del paese, del mondo, tutti i piatti esistiti o a venire.

              Davvero un bel problema, per la giovane, che senza sosta si chiedeva come venirne a capo. Come, cioè, averla vinta sulla camera balorda, che di storie non voleva sentirne, e nel suo silenzio espressivo sembrava dire: puzza e casino, polvere e folletti negli angoli! E chissà cosa negli spazi oscuri, HAHAHA, lo sai tu cosa? Te lo puoi solo immaginare! Così pensandoci qualcosa le venne in mente, certo si trattava di misure estreme, ma chi per sottrarsi a un tale incubo non ricorrerebbe alle latenti bassezze insite nel nostro lato più oscuro? Certo lei non se ne fece un cruccio, ne s’avvilì, e in poco tempo, fermamente convinta in quella direzione, si procurò qualcosa che bruciasse, e qualcos’altro per farlo bruciare. Poi niente, con naturalezza diede fuoco un po’ a tutto, alla camera, ai genitori, ai piatti e anche al suo personalissimo disordine interiore. Bruciava come una foresta di alberi morti, e su tutto echeggiarono risate impazzite, liberate e liberatorie, urlate ai muri anneriti, più lucifere del fuoco, risate infernali.

              Quando altri tizi, con altri problemi, finirono di spegnere il fuoco, la casa era uno splendore. La camera non c’era più, tutto si era fuso in un cono amorfo, come si scioglierebbe una candela di cattivi pensieri, appiattendosi sulla sua disperazione. I piatti – milioni di piatti – semplicemente erano spariti, forse esplosi, forse ancora andati in fumo. 
              Riguardo la sorte della giovane, com’è evidente, nessuna colpa ne macchiò l’avvenire, poiché nessun tribunale dotato di buon senso trovò opportuno processarla per aver bruciato una casa: le case vanno bruciate, è il supremo ordine.
               Nessun tribunale trovò opportuno processarla per aver bruciato i genitori: i genitori vanno bruciati, è l’unico ordine.
               Solo una vecchina si lamentò del tutto, e certo non le si può dar torto, se si spiega cosa accadde, ossia che l’incendio aumentò il calore, e la vecchina ebbe a soffrirne, e fu presa da gran caldo. Fu bruciata anche lei, e nessun tribunale trovò opportuno processare la ragazza per aver bruciato anche la vecchina: i vecchi rompicoglioni non sono essere umani. 
              E poi bon, io la chiuderei qui, che storia banale poi, andrebbe bruciata, ma val più di un vecchio, di una casa o di due genitori, e allora no, mi sa la lascio, e in fondo mi sono divertito a scriverla; è stato uno strazio. Il tempo è volato; seimila secoli sembrano scorsi. Fuori è giorno, ora esco e non ci penso; fuori è notte, resto in casa e mi pento di tutto.


              Ho due gatti. Il nero detta e il grigio scrive.