sabato 29 marzo 2014

I comici italiani fanno paura




L'italia ha molte mancanze categoriali, che vanno dalla pressoché assenza di statisti, alla carenza di buoni giornalisti, alla rarità di gente onesta. Ce ne doliamo molto, e così via.
C'è però un'assenza più forte che si fa sentire in modo terribile. Eppure è un assenza per eccesso, nel senso che ce ne sono molti ma sono tutti uguali, e tutti stanno sulla superficie del loro mestiere.
I comici.
Mi sembra innegabile che qualsiasi cultura, se vuol produrre qualcosa di buono, debba aver buoni comici. Il comico dissacra la realtà, la sbeffeggia, ci ricorda costantemente quanto sia assurda la condizione umana e di come, appunto, valga davvero la pena solo di riderci su.
In Italia ne abbiamo, non so, milioni? Milioni di comici, che sono ovunque, con trasmissioni dedicate a loro, dirette infinite, dallo showman al gruppo organizzato.
Programmazioni televisive basate su loro, spettacoli estivi all'aperto. Il cinema, poi, ormai lo fanno solo i comici. Perché se vuoi spiegare l'Italia del 2014, giustamente, ti serve un comico. Ma in generale è stato sempre così.
L'Italia l'hanno sempre raccontata i comici. Non perché faccia ridere, ma proprio perché fa piangere e serve un comico per renderla accettabile.
Ma che cazzo di comici però. Io sono cresciuto, mi hanno fatto crescere, odiando i comici.
Lo sapete che non rido mai? Ormai non rido più.
Sono diventato un tale musone seriale da far paura. Ma dico io, sarà mica colpa mia?
Ora, parliamoci chiaro, cosa dovrei fare per farmi una risata, andare a vedere verdone al cinema che ridicolizza la specie umana, o farmi uscire il cervello dal naso guardando uno zelig o un colorado?
Magari ua prima serata di raiuno, con fiorello magari, oh si, che ridere, che risate che fa fare fiorello.
Oppure c'è ancora panariello?
Quello poi...
Quando ero bambino, c'erano i film di sordi. E va be. Poi quand'ero ragazzino andavano forte i toscani, pieraccioni, panariello, quella gente lì. Infatti ora odio la toscana, vorrei vedere chi non la odierebbe dopo aver conosciuto certi personaggi.
Oggi c'è gente come la littizzetto o come cazzo si scrive, e altri ancora che sinceramente ignoro e voglio ignorare. Perché invece di farmi ridere mi fanno incazzare.
Anche questa cosa che la comicità italiota mi fa incazzare vi sembra normale?
C'è gente che basa i suoi numeri sul parlare in dialetto. Ma che stiamo scherzando?!
Il dialetto lo vai a parlare a casa tua mentre picchi tua moglie, non lo usi per farmi innervosire.
Ci sono i comici panzoni! panzoni e basta. L'obesità dovrebbe farmi ridere? mh?
Dovrei ridere per del lardo? Che realtà imbecille è mai questa?
Negli usa, paese dal quale abbiamo importato solo la merda, comici famosi vanno in onda, in prima serata, a prender per il culo cristo e le eiaculazioni in faccia.
Qui no. Si, c'era luttazzi, ma poi l'hanno evirato.
Sui media solo comicità che assecondi la stupidità, che non faccia pensare.
Tutta roba che deve poter vedere mia nonna. Prese per il culo a questo, a quello, imitazioni (possiamo vivere solo di imitazioni?), schiaffoni, mortacci tua, scoregge e scopate nell'armadio.
Insomma, woody allen scherza da decenni sull'ateismo, sull'incomunicabilità, e noi al cinema siamo ancora fermi alla putrida commedia all'italiana, dove sant'iddio ripetono le stesse cazzate da 40 anni e mortacci tua e così via.
A volte mi capita di sentire colorado, a casa di altri, e mi chiedo: è un cazzo di generatore di mostri?
Cosa c'è dietro le quinte, una Madre gigante che li partorisce dalla sua enorme vagina e li manda a esibirsi?
E chi guarda con regolarità programmi del genere che idea può mai farsi della comicità, dell'arte che scardina ogni ipocrisia ridotta a un lerciume puzzolente?

No, no forse sbaglio io. Forse la vita non va capita, va affrontata con incoscienza. Lo dimostrano queste mie velleità critiche che mi si ritorcono sempre contro.
Ho un telecomando in mano, è notte.
Ho letto sulla guida tv che a breve ci sarà una replica di striscia la notizia. Ora, quasi quasi, accendo.
Oh, si, che bello, le veline, i comici terroni... che ha detto? ha scherzato su berlusconi, e ora imitano renzi... si, si! siiii! VADO A VEDERE UN FILM DI ZALONE!
Siiiiii! il cervello non mi serve più, prendilo e mangialo tu, tivù!

MUOIO!

Ve l'ho detto, è strano, ma servono comici perché ne abbiamo troppi. E nessuno fa ridere, fanno solo paura, abbiamo comici che fanno paura!
Può mai essere? devo aver paura di sentire-vedere-percepire un comico italiano?
Posso essere terrorizzato dalla comicità di questo paese? Vi pare normale?!
Che angoscia, che angoscia.
Il comico deve far pensare, ti deve far ragionare sulla realtà: la deve mettere in discussione.
Signori, prendete un fucile e uccidete un comico italiano.
Come riconoscerli?
Se non fanno ridere sono comici italiani.
Subito!
Altro che deliri dialettici al negroni, nei baretti, stupidi coglioni!

Meno male che c'è Balasso!

Sì, sì sto calmo. 

mercoledì 26 marzo 2014

Mazirian il mago




Lei lo guardò negli occhi, poi Mazirian il mago la lasciò cadere nella voragine.
Sul suo viso c'era l'orrore che non si comprende.
Sul volto di Mazirian, niente.


Mazirian il crudele
lo stregone ingannatore
talvolta si incontra nei boschi
tra gole profonde
dove mostra i colori
di chi troppo a lungo ha vissuto

- canto popolare delle terre alte -



Il vento della sera portava ai campi le voci del bosco, lo stanco e vecchio sole calando passò dal rosso a un viola lugubre.
Per un attimo, quando era ancora visibile, sembrò spegnersi.
Poi, per qualche motivo sconosciuto a chi osservava la scena, ricomparve, come riaccendendosi. Macchie nere danzavano sulla sua superficie.
Nessuno vi fece troppo caso. Chi tornava dai campi continuò a tornare.
Chi nereggiava nel bosco di fronzaloni continuò a osservarli passare.
Il sole era antico come il centro dell'universo, ogni tanto pareva spegnersi.
I battitori erano stanchi, malconci, le loro donne li seguivano portando le ceste piene di gravik battuti. I logori abitanti di quei luoghi parlottavano sommessi.
- Lisia, dove vai?
- Sono stanca, Kanna, stanca come il sole mutato.
- Non sediamoci qui, non si può aspettare il rinnovamento (1) presso un bosco - le rispose Kanna, sorridendo - E poi, chissà, potrebbe giungere fin qui Mazirian, il mago tentatore.
- Ah! sono tutte leggende, neanche un chemita ci crederebbe, o forse giusto un chemita potrebbe.
- E i non-morti vaganti, che al crepuscolo del vecchio sole si destano?
- Leggende di noi creduloni. Che ci rintaniamo in casa a prima sera, e non conosciamo niente, non abbiamo mai visto niente. Come Mazirian, o il sol nuovo dell'avvenire. - Ribattè Lisia - C'è solo la mia stanchezza, che è quella di tutti, di tutto. Solo quella è vera. Voglio riposarmi su questa pietra ancora un poco, riprendere fiato; tra non molto cammineremo verso il villaggio più riposate, e raggiungeremo gli altri.
- Fai come credi, Lisia - disse Kanna -, io mi incammino subito. Guarda com'è scura l'erba lungo il bosco. La notte non mi sorprenderà seduta in questo luogo.
Dicendo ciò Kanna andò via.
Lisia non era una sciocca, neanche una temeraria. La vita al villaggio, sulle terre alte, era dura, e per una donna era dura due volte.
- Mazirian! i non-morti! Theseidon l'arcidemone! che importa a me! - disse Lisia alle prime stelle - Che importa tutto... anche il sole si spegne, vorrei solo dormire.

Capitava in quei giorni che l'animo umano cadesse in deliquio. La terra morente ottenebrava l'anima.
Ma chi risponde alle invocazioni della prima notte? Un sonno lieve, cullato dal nero.
Lisia se ne addormentò incurante solo come chi non spera in niente sa essere.
Fece sogni di riposo, sogni lontani.
Nel sogno non c'era freddo, né fame, né uomini violenti. Solo strane rovine, persone venivano e andavano. Gli eoni si erano succeduti uno dopo l'altro, civiltà erano sorte e cadute, coi loro templi e le utopie e le folli ambizioni. Lì dove Lisia riposava era forse sorto un regno che raggiunse le stelle.
Ora c'era solo silenzio.
Alla fine del sogno si accorse di essere osservata. Si svegliò con due occhi addosso che si mischiavano alle lucciole di mezzanotte.
- Mi sono attardata, ho dormito, ma ora devo andare dagli altri - disse Lisia agli occhi, senza credere alle sue parole.
- Davvero devi? - risposero gli occhi.
- Sei Mazirian lo stregone, vero?
- Ho molti nomi, se ti aggrada puoi chiamarmi così. Non è, questo, un posto strano per dormire? dovevi essere... molto stanca. -  disse Mazirian, osservandola.
- Sì, sì. Ti ha incuriosito? - rispose Lisia, in modo mite, poco interessata a ciò che sapeva su Mazirian. Fu quasi contenta di aver incontrato qualcuno al di fuori del villaggio. - Desideri qualcosa da me? ora dovrei proprio andare. - Aggiunse Lisia.
Si alzò un'aria ostile. La strada per il villaggio sembrava non portare più in nessun luogo, tutto il mondo pareva trovarsi dietro le spalle del mago. Non aveva davvero voglia di tornare a casa.
Lisia avrebbe voluto viaggiare: - Vorrei viaggiare. - Disse - Far tutta la vita la donna dei battitori, morire senza aver mai vissuto, non lo posso più sopportare.
Mazirian annuì continuando a fissarla.
- Vorrei vedere le città dimenticate ad est, le perdute tecnologie di cui parlano i mercanti. Tu sei un mago, ma sei crudele come dicono?
- Tu cosa vuoi che sia? - le rispose Mazirian imperturbabile
- Vorrei che mi mostrassi qualcosa, qualsiasi cosa. Sono bella, Mazirian? Sei veramente lui, Mazirian lo stregone, o sei un altro battitore che s'è attardato?
- Chi lo sa cosa siamo, siamo forse qualcosa che non sia anche qualcos'altro? Osserva. - Disse con calma, e l'aria intorno divenne iridescente di infiniti colori. - Se mi seguirai nella mia dimora nel bosco potremo amarci, e t'insegnerò a capire il cosmo.
- Non c'è nessuna dimora nel bosco, o forse c'è?
- Lì si trova un palazzo, verso la fine, all'orlo della frattura continentale, presso le ferite della terra.

Lisia era confusa, il sonno la stava lasciando pigramente, dandole una fredda consapevolezza di pericolo. Eppure il mago sembrava amichevole. Ma impassibile, nessuna emozione, né intenzione, si leggeva sul suo volto.
- Forse che un mago sa amare?
- Cos'è che un mago non sa fare, non conosci le canzoni che cantano su questo e altri nomi, di Mazirian l'illusionista, l'incantatore?
- Dicono anche Mazirian il crudele, e l'ingannatore.
- Si dice anche che le stelle siano infinite, e su altri mondi uomini nuovi vivano senza alcun contatto con la vecchia terra. Non tutto quello che si dice può essere provato. Eppure là è il mio palazzo - continuò Mazirian, indicando nel folto della foresta -, a poche ore di cammino, che sotto le stelle diventano minuti, e se ci credi anche secondi, tanto che se accetti saremo già lì non appena avrai accettato. Dunque, verrai con me?
- Sei uno stregone, troveresti lo stesso il modo di portarmi dove vuoi. Eppure non ho paura, non ho nulla da perdere, mostrami pure il tuo palazzo o la fiera che mi attende per divorarmi.

Andarono silenziosi lungo un sentiero di luci fioche, con felci bluastre e muffe splendenti, e in breve ebbero davanti un colosso color fuliggine stagliato contro il nero della notte: una siepe tenebrosa coronata da alte guglie, con centinaia di occhi giallo antico spalancati come alte finestre.

- Cosa vuoi vedere, giovane ragazza, prima di amarmi, il pozzo dove scorrono le stelle, o il portale di Issur, il luogotenente dell'abisso?
- Cosa vuoi mostrarmi, Mazirian, che mi si addica? Ogni cosa mi sorprende solo a sentirne parlare.
- La porta del cielo, forse, e poi andremo ad amarci. Tuttavia mi hai detto di voler viaggiare. - Le rispose Mazirian.
- Mostramela dunque - chiese Lisia, ormai distante da tutto, all'ombra della fortezza tenebrosa, in quella strana regione che non credeva esistere. - Ogni nuova cosa che scoprirò sarà il mio viaggio.

Si avviarono lungo corridoi dalle infinite diramazioni, e lo sguardo del mago era di una risoluta determinazione, di un'attesa agognata. Oppure niente di tutto questo, ma solo una tensione senza costrutto. Lisia pareva invece sognare, lasciandosi condurre verso luoghi elevati.
- Eccoci davanti alla porta del cielo - annunciò Mazirian. - Entra e vola.
- Un marcescente portone in legno si spalancò, e di là c'era solo il cielo. Nero, adornato di astri.
Erano davanti a quell'immensità. Mazirian si accosto lento a Lisia, e sussurrò parole ai suoi sensi mentre lo sguardo di entrambi si perdeva in quel tutto. Ne disse altre ancora, come formule recitate. Poi parlò più chiaramente.
- Non c'è morte e non c'è vita in questo luogo, c'è solo il cadere senza fine di tutte le cose. Il sole nuovo sarà già in cielo quando tu ancora starai cadendo, dimenticando di aver mai fatto altro che cadere. Sarà un lungo viaggio, Lisia dei battitori. Io, però, non posso venire.

Per la prima volta Mazirian disegnò un sorriso sul suo volto, sotto all'impassibilità dei suoi occhi glaciali.
Non strattonò Lisia, né la privò del senno sussurrando formule arcane. Fu il suo sguardo a spingerla indietro, più terribile di quello strano abisso cosmico. In quello sguardo c'era l'inferno.
Poi fu solo l'inizio del cadere - ma può una cosa che non ha fine avere inizio? - Sul volto di Lisia la disperazione senza nome. Su quello di Mazirian il disgusto per l'abitudine. E, subito dopo, niente.

Il vecchio sole sorse ancora sulla terra. Gli uomini pregavano durante le notti affinché non si spegnesse, mostrandosi al buio mattino come una sfera morta.
I battitori tornarono a battere le campagne, dimentichi di essere gli ultimi di una specie antichissima.
Le guglie tetre del palazzo di Mazirian si fecero scarlatte all'aurora; altrove i mercati di Guzzer si svegliavano a tutte le lingue del mondo.
Kanna non andò a cercare Lisia. Nessuno andò a cercarla.
Poco lontano dei non-morti scivolavano nelle loro tane, maledicendo il sole ancora una volta sorto.


-

(1) - Alcuni popoli della terra morente credono che un nuovo sole nascerà alla morte di quello vecchio, portando nuova vita a tutti.





lunedì 24 marzo 2014

Fuga nell'altrove

Tutto è rituale, in ogni cosa che facciamo si nasconde un rito, consapevole o meno.
Ma cos'è un rito?


Esempio di rito umano


La messa è un rito, dove i cristiani si convincono di credere a qualcosa.
Il pranzo domenicale in famiglia, tutti insieme, tutti a tavola, è un rito, in cui le persone si convincono di appartenere a qualcosa, di essere unite.
Stappare lo spumante l'ultimo dell'anno è un rito, in cui si prova a scandire il tempo che passa, per averne il controllo.
Insomma i rituali sono il modo che usiamo per intrappolare la realtà, allo scopo di comprenderla attraverso l'ottusità dell'abitudine, di ridurla con i parametri del 'già visto' e infine supporsi in grado di poterla controllare escludendo ogni imprevisto - che è l'antitesi del rito - coltivando il sempre uguale.
Molto della nostra vita è rito; gran parte delle nostre abitudini sono rituali.
Al di fuori delle litanie cadenzate del nostro scandirci in abitudini si trova l'orrore e l'incubo sveglio di ogni malato di ritualità: ciò che non è prevedibile, che elude il rito, fuori dalla trappola sofista in cui vorremmo ridurre la realtà. E noi stessi.

Eppure i gatti pisciano sempre nello stesso posto; e il regno delle piante sempre fiorisce col caldo.
Anche il buonsenso, questo sconosciuto, ci suggerisce di essere abitudinari.
La natura stessa ci vorrebbe sempre uguali.
Io diserto ogni ordine che porta alla gabbia della ritualità. All'ergastolo dell'abitudine.
Noi rivoluzionari per cui la normalità è un noumeno; l'abitudine una costrizione dell'anima.

Stasera ho fatto un sugo di seppie. In bianco.
Aglio e prezzemolo.
Mangerò alle 8. Probabilmente vedendo il tg.
Se sono da solo ascolto Bach. A molti dà sui nervi. Quindi devo essere solo.
Bisogna essere soli per stare in buona compagnia, qui.
Poi qualcosa farò. La notte, a una certa ora, dormo.
La vita è una trappola. Una gabbia.
Scrivo e guardo fuori da una finestra.
Le giornate si sono allungate.
In realtà non si allunga proprio niente; sfumano solo più tardi, scivolando in un lento nero temperato.
Oggi voglio spezzare il rito: sono un apostata del sempre uguale.
Scriverò una poesia. O mi farò un buco nel cuore.
Meglio una "poesia", vah.

Fuori il giorno cade Altrove
I gatti dormono; anche il mondo si riposa.
Le cose si indeboliscono nella stanchezza di un pomeriggio che scivola via.
Dove terra e cielo sfumano
in nebbie che paiono sognate
e la sera si distende
muta
come un ricordo
muto
al tremore delle stelle

La pasta è cotta: Buon Appetito!
A me.
A te.
Sempre chi non ha altri mezzi segue il rito. Chi ha anche solo un po' di fiato fugge via.

Altro esempio di rito umano

venerdì 21 marzo 2014

Prologo: Primavera

Nonmiricordocomesiscrivequindiusoilblog
Sì, forsecifacciounfeuilletonselacostanzamiregge





 PROLOGO: 
 Primavera

Uno stronzo sull'altare.
Medio spessore, buona consistenza, descriveva una leggera curva verso sinistra alla fine della sua lunghezza.
Colorazione marrognola tendente al chiaro, indizio di una dieta equilibrata e di assenza di sangue nelle feci.
In quel luminoso mattino primaverile ogni particolare, ogni minimo dettaglio sarebbe rimasto impresso in modo indelebile nella mente di Don Azzolina.

Si sarebbe ricordato anche sul letto di morte di come, aprendo la chiesa per la funzione del mattino, avesse trovato la serratura danneggiata e il portone socchiuso.
Affrettandosi verso l'altare maggiore colmo di preoccupazione (i portacandele e i paramenti erano d'oro, risalenti agli anni '20) tutto si sarebbe aspettato fuorchè quello.
Al centro esatto dell'altare, tra i ceri e il leggio per il Sacro Testo, inclinato quasi ad indicare il Tabernacolo, uno stronzo umano fresco.

Sulle prime Don Azzolina, chiamato affettuosamente Don Giò dai parrocchiani, non seppe cosa fare o dire.

Rimase lì a fissare la merda, inebetito.
Fece scorrere gli occhi sul crocefisso con l'immagine di Cristo, intatta.
Osservò attentamente eventuali segni di vandalismo sulla pala d'altare, nessuno.
Niente scritte ingiuriose, niente insulti o bestemmie.
Ogni cosa era come l'aveva lasciata la sera prima, dopo aver recitato la messa del vespro per le parrocchiane.
Tutto tranne quell'unico stronzo.

A vederlo dall'esterno sembrerebbe una bravata di cattivo gusto, qualcosa fatto sulla spinta dell'alcool o di qualche stupida scommessa tra amici in una serata noiosa.
Niente che meritasse più di una risata di deprecazione seguita da un pò di pena per il perpetratore di tale gesto.
Eppure in Don Azzolina le sensazioni si susseguivano ed accavallavano, lasciandolo sgomento per la portata di un gesto simile.
Si immaginava quell'individuo (o quegli individui) che, nottetempo, forzavano la serratura ed entravano in chiesa, nel tempio di Dio.
Riusciva quasi a vedere la scena: Risate contenute dal timore di essere scoperti, smartphone accesi a filmare la bravata del più coraggioso del gruppo che, salendo sull'altare e abbassandosi i pantaloni, depositava il regalino per il mattino successivo.


Ma a preoccuparlo ancora di più erano i possibili sviluppi di questa vicenda.

Se da un lato poteva pulire (in modo discreto, se la perpetua avesse visto o anche solo sentito di questa cosa tutto il paese l'avrebbe saputo in men che non si dica) e dimenticarsi della faccenda da un altro lato era stato commesso un reato.
Effrazione, per la precisione. Effrazione e vandalismo, a dirla tutta.

Sì, Don Giò si sentiva in un certo senso violato.
Quella era il suo luogo di lavoro, un lavoro cui aveva dedicato tutta la sua esistenza.
Un lavoro che non doveva assolutamente essere infettato da storie di vandali notturni e di scorrerie goliardiche.
Sicuramente avrebbero avviato un'inchiesta, avrebbero fatto domande e in pochi giorni sarebbe arrivata la convocazione dal Vescovo per vederci chiaro nella faccenda.

Le domande sarebbero state imbarazzanti, ben peggio sarebbero stati gli sguardi colmi di domande inespresse, le recriminazioni silenti di ogni parrocchiano che avesse scoperto come qualcuno, impunemente, avesse depositato una cagata nel loro luogo di culto.
Aveva la canonica esattamente di fronte alla chiesa, com'era possibile non sentire l'aprirsi di una porta così grande e rumorosa?
No, non poteva far emergere una cosa del genere proprio in periodo di Quaresima.


Risoluto, Don Azzolina fece dietrofront , corse in canonica e prese una paletta per raccogliere la polvere, degli stracci per pulire e un sacco dello sporco.
Nel guadagnare la strada dell'uscita sentì la voce dalla sua perpetua dal bagno:
"Don Giò tutto bene?"
"Sì, stia tranquilla, mi ero dimenticato le chiavi in camera."
"Per colazione vuole i cornetti al cioccolato o quelli vuoti?"

L'idea di mangiare gli era del tutto aliena in quel momento, ma si costrinse a rispondere:
"Vuoti grazie"


Ora armato per lo scopo, Don Azzolina si avvicinò al misfatto da ripulire.
Puzzava, e parecchio.
La sua parte razionale sapeva che gli incensi avrebbero coperto la traccia e nessuno dei fedeli avrebbe sentito nulla.
Eppure qualcosa dentro di lui sapeva che avrebbe sentito quell'odore per lungo tempo ancora, come una traccia olfattiva fantasma impossibile da dimenticare più per la sua carica emotiva che per quella sensoriale.

Risoluto, prese con la paletta la merda e la depositò nel sacco, pulì ogni rimasuglio dall'altare e la andò a gettare nel bidone dei rifiuti organici antistante la chiesa.

Nel rientrare in chiesa si imbattè in un piccolo gruppo di anziane fedeli, venute per sentire la prima orazione del mattino.
"Don Giò, si da alle pulizie primaverili eh?"
Si costrinse a sorridere con noncuranza

"Eh sì signora, la casa di Dio va pulita da cima a fondo!"
Le vecchie emisero una serie di risatine che, per il parroco sotto stress, suonarono come il rumore di unghiate su una lavagna


Ora, per il suo bene e per il bene dei suoi parrocchiani, si sarebbe preparato ai doveri della giornata.
Dopo pranzo avrebbe chiamato qualcuno per riparare la serratura del portone (in modo discreto, sia mai) e ora di cena non si sarebbe più neppure ricordato di questa faccenda.
E la vita sarebbe andata di nuovo per il verso giusto.
Sì, uno sfortunato incidente e niente altro.
In questo credeva Don Giorgio Azzolina.


(to be continued..)

sabato 15 marzo 2014

Un giro in fiera



I vuoti contenitori di se stessi sono ovunque, e continuamente cullano l'arte della menzogna come cantastorie inconsapevoli d'esser favole.
Ma diciamoci la verità: cosa sarebbe la vita senza menzogne?
Continuamente le persone hanno bisogno di illudersi, di avere fede, e la fede altro non è che la cieca convinzione nelle menzogne. Ogni popolo, ogni epoca, ha le sue menzogne. Che non potrebbero esser altro che quelle, perché niente va bene per tutti, e niente dura per sempre. Anche il niente che sono le religioni va rinnovato.
Davanti all'enormità, all'immensità del vero queste menzogne non sono niente, e la verità le stritola e le getta via. La verità è un gigante, le religioni sono formiche brancolanti. Ma la verità non piace a tutti, perché è l'unica filosofia che non contempla l'illusione.


Oggi me ne andavo in giro per un paesino a una fiera. Ero vestito leggero e portavo la sciarpa giusto per non prendere aria al collo. Che poi, dico io, se anche prendo freddo al collo che succede?
Mi viene un colpo e crepo lì? Mi viene la febbre e devo stare a casa, a letto, delirante?
Non li vedo come scenari peggiori al mio essere lì, in giro per il paesino, a guardar le altre genti. E poi la febbre, senza sintomi fastidiosi, è piacevole, è un caldo sognare, un delirare assonnato.
La gente, dicevo, quando la incontri per strada, ha delle facce, ma delle facce... che ti viene da dire: ma che faccia hanno 'sti qua?
Ti guarda, ti guarda la gente, e tu pensi "chissà che ha da guardare, chissà cosa ha visto", ma in realtà non ha visto niente, ti guarda e neanche ti vede. E se ne va in giro, per negozi e stradine, a parlare di cose che hanno senso, se ne hanno, solo in quel momento in cui ne parlano, e solo perché glielo vogliono dare: quanta inutilità che si scambia la gente. Ma non è forse l'inutilità l'unica moneta di cui disponiamo per spenderci?
E così tra una bancarella e l'altra, tra un chiosco di piadine e un cane sognante, me ne andavo in giro, tra la gente, senza niente in particolare da fare, non poco nervoso per il fatto di essere circondato da banchetti alimentari e tuttavia non poter mangiare.
I ragazzi si muovono ancora in branco. E fino a una certa età i branchi sono di genere. Quelle cose non sono ancora cambiate. Forse ora ridono di meno, hanno delle facce più affilate, marciano dritti, col futuro in mano, e non si girano a guardare se il passato li insegue. Loro sono più veloci.
Ma non andranno lontano, si vede dagli occhi vuoti.
Gli anziani sognano, come i cani, e ridono come forse non hanno mai riso. Ridono amaro. Hanno sempre qualcosa di cui parlare e solo loro sanno come funziona. Prevedono gli altri come si prevede il cielo, e se sta per piovere ti dicono di non portare l'ombrello, perché proprio come con gli altri si fanno sempre fregare da quello che vedono. Colpa dell'avere troppe certezze. Sono, questi anziani, laureati in Vita ma non la sanno più leggere, ombre sorridenti, ricordi affannati. Sono malati gli anziani, perché sanno di dover morire a breve, e la morte non è più quella cosa lontanissima di cui a 20 anni non si vedono neanche i contorni, ma una statua luttuosa e ben definita che si para loro davanti. Il loro è un ridere folle.
Sono folli gli anziani. E quando girano per le fiere si ingobbiscono imbronciati, ma non perché il loro orizzonte è parziale, no, solo perché i giovani hanno i musi troppo affilati.
Come ho detto sono tutti pazzi. Non si invecchia, si finisce di impazzire e basta.

Le ragazze sono tutte carine. Le ragazze brutte non esistono più, o quantomeno si sono evolute. Le ragazze sceme invece ci sono ancora, ma a quello non fa caso nessuno. Anche ai ragazzi brutti nessuno fa più caso. E a quelli scemi chi c'ha fatto mai caso? Chi volete che ci badi.
Eppure, in questo berciare da mercato, in mezzo a questo frangiflutti di persone, non vedo ingenuità: l'ingenuità infatti non esiste più.
Caratteristica delle persone ingenue è la semplicità. Ma la nostra società non produce semplicità, tutt'altro!, partorisce solo complessi; e guardandomi in giro di ingenuità non ne vedo affatto. Forse ignoranza, ma le persone ignoranti non sono ingenue, non necessariamente; molto più affine a questo stato è la cattiveria, l'individualismo.
Difatti non vedo una massa omogenea, vedo tante individualità, conformate nell'aspetto esteriore ma tutte differentemente avverse alla vita al loro interno: un esercito di disertori.
Dopotutto non siamo formiche.
Non c'è più nulla che tenga unite queste persone.
Oddio, qualcuno c'è ancora che ci prova. Ma chi glielo fa fare?
La verità è che esiste qualche verità oggettiva: ad esempio non c'è il male; ma la sigaretta fa male. Un male complementare, diciamo così. E allo stesso modo posso dire che in questo mondo non esiste il male; e tuttavia questa gente mi fa male. Ed è una verità che mi sento di definire oggettiva.

Non ho preso niente in fiera. Non posso mangiare, il dente mi fa ancora male. E vestiti non ne compro. Non sono il tipo che compra vestiti. Che tipo è uno che non compra vestiti?
Già, diciamo che me lo chiedo anch'io. Un po' come uno che ha fede, come uno di quelli che crede alle menzogne che fanno sorridere: vive la sua vita come un dono.
E io pure, cioè aspetto che me ne regalino.
Ognuno ha la sua fede.
Un giorno tutto ciò che conosciamo verrà consumato dall'entropia, e allora queste chiacchiere saranno state solo una menzogna, un illusione.
Effettivamente, almeno quando vado alle fiere, dovrei rilassarmi di più.

mercoledì 12 marzo 2014

Il grande fratello fa davvero schifo?

Premessa: per me la vita è un'esperienza unica, nel senso che si vive solo una volta e mai più, e ci si trova a vivere in un contesto che non è dato scegliere. Il modo in cui viviamo consciamente, il nostro si-io-vivo, è fragile e destinato a sparire per sempre. Solo chi si rende conto di questo riesce davvero a capire quanto sia importante avere una mente il più possibile aperta, senza che vi siano speranze velleitarie, o astrazioni per l'oltre-vita


La versione imbecille di HAL 9000


Detto ciò, in questi giorni ho sentito che è ricominciato il grande fratello, questo baraccone posticcio di orwelliana memoria, qualcosa che rischia seriamente di minare quel "si-io-vivo" in favore del sempre più diffuso "si-mi-conformo".
Da una parte, com'è giusto che sia, chi in un modo e chi in un altro ci si diverte a inveire contro questa produzione televisiva, in quanto dispersiva e priva del benché minimo stimolo intellettuale. Intendiamoci, non si sta dibattendo se sia o meno un programma scemo: lo è, è necessario possedere o un leggero ritardo mentale o stare attraversando una fase tra pre-adolescenza/adolescenza o di tarda-senilità per interessarsi a questo tipo di intrattenimento. In generale, poi, per com'è costruito è evidente l'intento di assecondare la mediocrità dei più giovani a 360°, ossia di coloro ancora privi di efficaci strumenti critici con cui difendersi dalla spazzatura televisiva. O di chi non ne ha mai sviluppati.
È, insomma, la vecchia regola delle televisioni commerciali, che da decenni ci addestrano a non pensare, ad arrenderci davanti a uno schermo, parte funzionale alla propaganda del macrocosmo mediatico che ci vuole ubbidienti e consumatori. In larga parte, devo dire, ci sono riusciti.

Ma questo è, dopotutto, cosa nota. Niente di nuovo. Proprio come la premessa iniziale.
Ora, per esser chiari, devo dire di non aver mai visto nessuna edizione del grande fratello tranne la prima, ormai non so più quanti anni fa. Tutte le altre, così come la televisione tutta nel corso degli anni, le ho ignorate, e ho preso via via a ignorare anche gran parte del succitato sistema mediatico. Sentivo che non mi faceva niente bene.
Tuttavia, basandomi sul sentito dire, e su brevi informazioni casuali che in rete non si possono fuggire (siamo ossessionati da informazioni inutili), mi sono creato un'idea su questa ennesima, trita, e ritrita edizione del GF.
Abbiamo davanti la solita carnevalata. Una mandria di ragazzotti e ragazzotte il cui unico scopo all'interno della casa è di gozzovigliare, scopicchiare, rendersi grottesche caricature di un cast felliniano e crapuloneggiare demolendo la lingua dei loro padri e ogni residua velleità risorgimentale del paese che li ospita, promuovendo comportamenti che finiranno per essere assorbiti dai più ingenui e di conseguenza scimmiottati. Terrorismo culturale.
Il tutto istigato dai professionisti del nulla, i creatori del grande niente che è mediaset, che dallo studio aizzano questi poveracci alla stupidità più bieca, alla frattura emotiva. E in verità proprio su questo girano gran parte dei contenuti, ossia sull'esibizione gratuitamente forzata di emozioni a basso costo; sulla svendita di un pianto facile, di una risata mai troppo banale, di un'allegria artificiale.

Eppure io sono convinto che il GF sia un gran bel programma.
Ma vedrò di spiegarmi meglio, con i limiti del mio saperlo fare.

Poniamo ora che il GF non sia ospitato dalle reti mediaset, reti che per vocazione politica e per superficialità dei loro telespettatori, che loro stesse hanno creato, non offriranno mai un contenuto di qualità.
Immaginiamo allora che vada in onda su una tv libera da condizionamenti politici tendenti all'appiattimento culturale. Ok, in Italia non esiste, per cui dobbiamo immaginare anche un canale fittizio. Diciamo Canale9.
Bene, ora immaginiamo questa edizione del GF curata dal personale di Canale9.

I concorrenti potrebbero nei limiti del possibile essere davvero chiunque perché, mancando l'istigazione a essere volgari e sciocchi da parte di chi cura il programma, ne verrebbe fuori uno scenario in qualche modo stimolante. Niente buffonate, niente copioni da seguire. Ognuno fa quello che vuole ed è se stesso.
Ma per meglio riuscire questi "se stessi" potrebbero essere scelti a dovere.
Chi? beh, immagino che ognuno abbia le sue idee, e darebbe al cast dei partecipanti un indirizzo preciso. Io, per dire, ci infilerei persone che nel limbo della casa, stimolati ad aprirsi completamente al mondo, tirino fuori argomenti che mi potrebbero interessare, e davvero ARGOMENTINO, cioè discutano, affrontino, e poi magari si confrontino e magari, una volta dichiarata la loro ragionevolezza mentale, e che sono a tutti gli effetti dei normali esseri umani - e non il prodotto di una sottocultura cafona -, potrebbero anche innamorarsi e piangere. L'emotività in tv non si nega a nessuno, che anche se a me personalmente non interessa a qualcuno può anche piacere.
Filosofi, pensatori, persone che abbiano qualcosa da raccontare in tutti i sensi, di tutte le fasce d'età, di tutte le esperienze di vita, anche di lingue diverse, e di diverse estrazioni. Gli scenari sono davvero molti, e sono sicuro che ognuno saprebbe proporre i suoi.
Niente censura sui discorsi, nessun tema proibito perché fa pensare. Un sunto reale di personalità che si scontrano/incontrano, come un'opera teatrale improvvisata, senza copione.
Esperimento questo che risulterebbe quantomeno interessante, e che probabilmente era l'idea originale del formato GF.
Insomma, come cerco di dire, l'idea del programma, ossia di chiudere 10/15 persone in un sistema chiuso, senza stimoli dall'esterno, e osservarne i comportamenti senza strumentalizzarli, senza esibirli come scimmie ammaestrate, e poi seguire le storie, storie di persone "interessanti", con tutto quello che si può intendere per interessante, che resta esclusiva della soggettività ma non contempla sub-umani, è appunto, come dicevo, un'idea valida. Solo usata male.
Continuamente usata peggio. Arrivata ora a quel trionfo della stupidità che è il GF attuale.
Non sono i mezzi, è come li usi.
Spesso critico la televisione, e la vedo ormai come un mezzo da cancellare, da eliminare in quanto nocivo come le sigarette, come una qualsiasi brutta abitudine. Ma la verità, in questo caso, è che non è la televisione in sé, ma l'uso che hanno deciso di farne a renderla una fogna.
La scusante maggiore è quella del "diamo al pubblico ciò che vuole", ma ciò è falso. Il pubblico, ahimè, non lo sa cosa vuole, e finisce per volere quello che gli dai. E ad abituarvisi. Non riuscire più ad assorbire altro.
Al pubblico televisivo, che è ancora molto, danno merda. E se a una persona fai assorbire merda per anni finisce che diventa di merda: una grossa merda fatta di merda.
Distruggere ogni strumento critico verso la realtà per rendere tutti ugualmente somari, e ottenerne così un acefalo consenso, una fatalistica partecipazione alla mediocrità, l'addio a ogni forma di coscienza di sé che non passi per il nuovo linguaggio, impoverito, che porta per forza all'impoverimento di tutto.


martedì 11 marzo 2014

~ Notturno ~

Intanto, diciamocelo subito, il sole ha i suoi pregi. Passi l'abbronzatura, che la nostra società ha trasformato in patologia psichiatrica quasi fosse un'aspirazione al meticciato, ma il sole dà, diciamo così, un certo contributo al paesaggio, colorandolo intensamente, rinnovandolo con la sua energia.
E talvolta crea deserti.
Le società assolate si cullano in una pigrizia senza fine, perché troppo sole sfianca, basta lui per tutti e nessuno sente il bisogno di accendersi.
Senz'altro mi sento di dire che è, il sole, la condizione dei mediocri; se qualcuno vi dice che ama le belle giornate di sole allora avete davanti uno che della vita non ha capito niente.
Lì vi trovate in presenza di qualcuno che riesce, o perlomeno finge di riuscire, a consolarsi con un po' di luce. Drogati di fotoni.
Il sole, per dirla tutta, dà il meglio di se quando tramonta, accendendo gli orizzonti. Poi il crepuscolo s'espande diafano, e sorge la notte.
Ma che notte sarà mai?
Notte che piove, notte di nebbia, notte innevata o notte di stelle?

Notte che piove

Ero uscito per... dovevo andare a... Non importa. Attendevo qualcosa; nulla attendevo. Poi inizia a piovere e ne approfitto per farmi un giro.
Le case sono chiuse, bunkerate nelle loro abitudini. Si scambiano, tra di loro, dei brusii, chiacchiere incomprensibili. Tutti hanno paura d'essere soli, anche le case, e se piove, oltre all'impermeabilità di tutto, a isolarci è anche il muro d'acqua. E batte, tambureggia, che se hai un lucernario sembra un demone notturno che bussa, e nelle vecchie case rimbomba tutt'intorno, e a ogni colpo di vento i vetri antichi vibrano come piatti d'orchestra che tengono il ritmo delle gocce; per strada invece, oltre le case lontane, le luci vicine, è tutto un gran schizzare, e in ogni goccia che cade ci vediamo cadere, e se si guarda il cielo si rischia proprio di precipitare; perché è un cielo teso, è in ordine e pieno di rigore, austero, e linee lo attraversano come vite, e si schiantano al suolo, come vite vissute, e ogni cosa intorno muore di riflesso, che tutto splende e ogni luce riverbera all'infinito sulle superfici bagnate; e lento scivola tutto come l'acqua che s'ingorga nei buchi, e ogni gorgo è il nostro; che non c'è altro, esiste solo il gorgo che risucchia via tutto, e laggiù tutto torna a esser vuota notte.
E me ne torno da solo a casa, e per fortuna che piove; per fortuna che qualcuno mi consola ed è la pioggia. Tristezza d'espressione, ricordo e logorio lontano, intimità fragile, come il suo cadere, come chi vi assiste bagnato.


Sciamani nella nebbia
Ma ieri c'era la nebbia, e le persone, come barche pigre, navigavano nel pallore, senza vedersi, senza chiamarsi; e il mondo era più bello in quella notte nebbiosa, dove ogni luce lontana pareva un amore senza confini, una stella di passione; e la nebbia addolcisce il mondo e lo ossessiona, se ne sta lì come in attesa di qualcuno che la cacci via, e d'attesa muore, come tutti, che aspettando ci si consuma, ma intanto mi ha già stregato, e la attraverso come un fantasma che torna alle sue regioni, e spettralmente fuggo in essa, privo di ogni ambizione che non sia navigarla; e d'oblio mi perdo, le faccio una carezza e nulla tocco, io pastore di cose inanimate, di essenze eteree, di verità sfumate.

Ma tempo fa, però, ebbe a nevicare.
E mi diede gran dolore, di quel bianco che gioca col sole, e lo potenzia, e lo riflette senza pudore, ne ho pieni gli occhi; che poi scolora e appare grigia, morente, come immondizia d'essere umano, e poi sporcizia, e infine squallore. Impastata di silenzio e di vento la neve sorride agli eremiti, purché sia eterna. Infatti una bella nevicata non dovrebbe, per esser tale, finire mai, ché quando finisce rivela ogni bruttezza; la neve, io penso, si apprezza solo dov'è perenne; altrimenti è un imbroglio.



Le stelle viste senza atmosfera (atmosfera del cazzo)


E infine le notti stellate, a cui non porto rancore, sono forse le più numerose.
Le stelle... il mio amore.
In esse mi perdo sapendo esattamente dove sono; come in contemplazione di un qualcosa che ci distrugga! E le stelle, a dire il vero, mi distruggono di meraviglia, astri lontanissimi, mondi fluttuanti nel cosmo arabescato, vertigine tenebrosa dei loro spazi neri, follie danzanti, ci reclamano come una loro creazione, e in verità ci addobbano di fulgore, di spazio, di materia, di energia pulsante, di tremore, che tremano d'orrore per l'immensità che sono, coscienza incosciente dell'universo, erudizione senza memoria, clamore silenzioso, viaggiatrici siderali immobili, stanche, stanchissime, eppure distratte custodi di tutti segreti, la loro luce fende il cosmo, e illuminò Platone, che le vide e s'avvide della pochezza che siamo; e ce la disse, e così chiunque le veda non può che sentirsi niente; e niente infatti è il nostro spessore.

Poi come sempre venne il mattino, e sorse ridendo dal grembo dell'Asia. Lucente di ambizione, come un oriente inorgoglito, distolse le mie visioni notturne, e in esso crollai, stremato, senza alcun timore, ma con un dolore, un dolore lontano, un dolore senza nome. La malinconia per la bellezza delle notti cadute nel passato, che non è come la tristezza a cui si può fare attenzione, e darle un motivo, e parlarci: con la tristezza ci parli. La malinconia no, non sa di esserci, s'ignora, non ha spiegazione. È lì da sempre, come le stelle, non la si crea ma la si raccoglie, come un'erba rara, un'erba scura, e si spiega meglio nell'immensità dei paesaggi, come un occhio critico verso tutto e verso tutto misericordioso; come un cercarsi senza potersi trovare, e continuare a cercare, per sempre, con occhi vuoti e assonnati.
E poi si dorme.
Forse.

domenica 9 marzo 2014

Il punto della situazione

"Buongiorno", dico a me stesso, mentre mi specchio al cesso, e mi vedo così, come sono, giallastro, con la barba arruffata, gli occhi pesanti, la bocca già incurvata in un ghigno insoddisfatto. Lo stesso ghigno di quando sono andato a dormire.
Oddio, dormire... Non posso permettermi cure dentarie, per cui ogni tanto mi faccio un viaggetto nel tunnel dell'agonia, tra carie e gonfiori sanguinanti, e passo la notte in contemplazione del dolore. Altro che dormire. Ma ieri sera, e ieri pomeriggio... Dio, credevo di impazzire!
Anzi, non dico Dio, dico Mordor, o Sauron, o Crom. Sto cercando di smettere con la mitologia cristiana adibita a intercalare. Meglio il pantheon fantasy.
Sto cercando a dire il vero di fare un sacco di cose. Ma proprio un sacco!
Intanto, mi dicono, dovrei trovarmi un lavoro.

AHAHAHAHA!
Ricostruzione al pc di come sarei se potessi andare dal dentista

Rido. Essì, certo che rido. Ma che uno che vive come me può mai aver voglia di trovarsi un lavoro?
Ma andiamo, a malapena vivo. E vivo in discesa, per inerzia. Con queste magliette che puzzano sempre di sudore, e la tentazione di fare lo sgambetto a tutti quelli che mi passano davanti.
Intanto mi alzo, come oggi, alle due del pomeriggio. O anche dopo. Cosa mangio a fare?!
Caffè e cesso. In casa non c'è nessuno. Puzza tutto di chiuso e di polvere. Su quella credenza c'è tanta polvere che ha cambiato colore, è divenuta una credenza spettrale, col suo contenuto sovrannaturale di vetri ingialliti.
Se tutto va bene, e per bene intendo che non sono così depresso da aver bisogno di dormire altre due ore, mi vesto ed esco.
Ci sono un po' di salite da fare; col caldo è terribile perché sudo molto e mi sento sempre lurido, col freddo va un po' meglio, ma dopo un po' possono pure piovere tette che tanto ti stufi di camminare.
Vado un po' qua, un po' là, in realtà da nessuna parte, poi da mia nonna dove cucino, leggo, mangio e torno a casa. A casa non c'è nessuno; oddio, ci sarebbe mio padre ma alle nove di sera dorme già, così torno col buio, mi spoglio in silenzio, e sempre zitto torno in camera, quella in cui mi sono svegliato, e ci torno con lo stesso ghigno contratto e... fine. Uso il pc, leggo, mi faccio una sega.
Questa è la mia giornata tipo. Inoltre non vado neanche molto d'accordo con gli altri esseri umani: la famiglia non mi ha preparato a intrattenere relazioni sociali, anche perché non ho avuto famiglia, e gli amici dell'adolescenza li ho persi quasi subito: insomma sono un misantropo. Per vocazione?
Diciamo per dedizione. L'allenamento rende perfetti.
Si, con qualcuno vado d'accordo. Di base le persone allegre mi danno sui nervi, preferisco caratteri crepuscolari o depressi, anticonformisti e incompresi, solitari come me. Tutta gente con cui è difficilissimo, naturalmente, gestire dei rapporti produttivi, per cui alla fine me ne sto da solo.
Che fregatura.
A volte penso che alla fine, quando sarò morto, quando tutti quelli che conosco saranno morti, qualsiasi cosa abbia fatto o abbia potuto fare non importerà più, sarà come se niente fosse accaduto.
Facile, dico io, pensarsi in quel modo. Che poi è un non-pensarsi, cioè un pensarsi non-più-esistenti. Va be, rimane il fatto che usando questa regola non dovrei fare niente, neanche scrivere questo post.
Vero, verissimo. Non dovrei scriverlo.
Non dovrei fare niente. Lasciarsi morire ignorandosi, guardare altrove per non vedersi. Lo fanno tutti. Io non posso farlo?
No, io no. Io sono maledetto, lo siamo tutti ma la mia è una maledizione più lugubre delle altre. Più che una maledizione è un ascesso pulsante.
Anche questa cosa che mi stanno tutti in odio tranne chi è abbastanza pazzo da farmi dimenticare che niente ha senso è invalidante. L'odio invece, al contrario di quanto si possa credere, non è invalidante. Anzi, è sano. Io ti odio, e nell'odiarti affermo a me, a te, e a chi mi vede odiarti, che io non sono te, tu non sei me. L'odio è un modo per distinguersi. È una targhetta di riconoscimento nella sezione visitatori della vita: se non pratichi l'odio nessuno capisce chi sei. L'odio definisce, scolpisce le persone, permette di assomigliare più a se stessi.
Se qualcuno vi dice che non dovete odiare: odiatelo.

Ma che uno come me può trovarsi un lavoro? Al massimo può studiare. A studiare, diciamocelo, son buoni tutti.
Che poi ho anche ricominciato, a studiare dico.
Tranne quando ho mal di denti, ovvio. In quel caso l'unica cosa che mi riesce è fissare il muro. Dopo un po' quel muro inizia a brillare, dopodiché vedo oltre quel muro e oltre ancora. Vedo una brughiera di erba spazzata dal vento, e penso: "sono spacciato".
Non ho neanche la forza di ubriacarmi.
Si potrebbe quasi dire che esisto come espansione dei miei dolori.
Prima ero in fiera, una di quelle di fiere dove vendono vestiti, salsicce, cipolle, formaggi, piadine che odorano di petrolio e altra roba ancora. Sono passato vicino a un banchetto che aveva le braciole cotte sulla carbonella, avevano quell'odore che risveglia i morti, quell'odore di necromanzia,  di stregoneria tenebrosa avviluppata nel fumo nero, e non le ho potute mangiare perché... va be perché avevo mal di denti. Si, dico sempre quello.
Il fatto è che ho male anche adesso ed è difficile pensare ad altro. Nei film americanoidi scimmiottano spesso la scena di un tizio che parla al telefono mentre un'altra tizia gli fa una fellatio. Lui si trova a dover articolare parole mentre gode, così che queste verranno distorte dal piacere, suonando dilatate, affannate, instabili.
Bisogna immaginare che mi stia accadendo la stessa cosa ma al contrario, invece del godimento c'è un dolore parassitario che al pari di una grossa zecca succhia e rode la mia guancia; invece delle parole è il pensiero a dilatarsi, probabilmente cerca di fuggire altrove, e la resistenza si fa affannata, l'equilibrio mentale instabile.
Grazie a Lugburz non mi telefona nessuno. Sarebbe sconvolgente.
Le bustine XXX non fanno più nulla, dovrò ripiegare sugli oppiacei.
Una volta ero messo così male, tra denti e depressione, che devo essermi preso 120 gocce di xanax, antidolorifici e un paio di birre. Poi mi sono messo a leggere Lovecraft.
Era estate. Ogni dieci minuti mi addormentavo, sognavo vortici d'incubo e nere sfere di tenebra ai confini dell'universo, poi mi svegliavo e riprendevo a leggere. Chiamo quel periodo "estate gotica". In effetti lo è stata.
Proprio un bel periodo.

La mia ultima ragazza

Ieri sera, per dire, non volevo cenare. Ero saturo di antidolorifici e come un viaggiatore distratto fissavo i muri senza vedere le persone. Ero nelle lontananze del rincoglionimento.
Non volevo cenare perché, non avendo male - non troppo -, temevo me ne venisse. Tenendo conto che non mangiavo dalla sera prima, e non dormivo da 36 ore, alla vista di un po' di carne non ho saputo resistere, e con pazienza ho cenato.
Mezz'ora dopo avevo i demoni del tartaro che cercavano di consumare la parte sinistra del mio viso in una tempesta di fitte acute di dolore e ripetute vampate di calore violaceo. Avevo la febbre solo lì. Temevo di non farcela, avevo tanto male che stavo per vomitare, e tutti gli antidolorifici mi avevano scombussolato anche lo stomaco.
Sdraiato non potevo stare o mi si gonfiava tutto, seduto neanche perché in casa fa troppo caldo. Potevo starmene solo in piedi come un imbecille, ecco come un imbecille ci potevo stare abbastanza bene; ad aspettare non si sa cosa, facendo un bel niente.
Ho salito le scale, sono andato in terrazzo, e mi sono messo a guardare le stelle. Sognavo di finire dentro a una stella, di essere spazzato via da una reazione atomica, di finire in nulla, di annichilirmi nello spazio siderale. Di darmi al cosmo.
Alla fine sono rientrato. Forse inconsciamente ero partito per uccidermi; ma avevo troppo male, con la sfiga che ho mi butto dal terrazzo senza neanche crepare, e mi resterebbe il mal di denti.
Poi è passato, ma questo è il punto della situazione: non posso fare programmi, potrebbe venirmi mal di denti.


L'altro giorno ero in fila alla standa; ora non si chiama più standa, si chiama billa. Sticazzi. Alla cassa avevo un paio di cose, e siccome non è un negozio, ma una tana di coyote, la fila finiva dietro agli scompartimenti col cibo. Un luogo stretto come l'intestino. Davanti a me c'erano marito e moglie col passeggino, e mi sono infilato davanti a loro. Alla fine, lei, una nana distrutta fisicamente dalla gravidanza, mi dice che ci sono prima loro, che erano dietro la signora - quella col bel culo davanti a me -, e io dico loro che no, non è vero, c'ero prima io. La signora, quella col bel culo, si gira giusto il tempo per farmi vedere che di faccia è un abominio, e dice che è vero, c'erano prima loro, e la nana resa amorfa dal parto ribadisce pure lei che è vero, e sottolinea la presenza del bambino, che intanto piange, e mi dice che sono uno screanzato. Le dico che può passare purché non faccia troppe storie, poi per tutto il tempo li fisso. Non cercavo la lite, sia chiaro, e neanche avevo fretta. È proprio che mi va di esasperare la gente, di creare tensione e farla scontrare con la mia.
No, non è solo questo, è anche altro, è il voler portare tutti al mio stesso livello di paradosso consapevole, all'ingorgo dell'assoluto che vivo intensamente, al confine della ragionevolezza che costringe per potersi finalmente spezzare e disperdere liberamente: un'aspirazione al conflitto come unica valuta esistenziale; è un marciume assopito nel sottobosco dell'io, che macera e lo gonfia, che fermenta e l'inebria.
Probabilmente è un voler livellare gli altri alle mie personalissime insoddisfazioni. Un gioco al supposto ribasso, una folgore contro l'apatia.
Il signore delle tempeste. Col mal di denti.
Per il resto tutto ok. Mah, si fa per dire. Sto sempre meglio della media borghesia, feccia dell'umanità.
Ora, per dire, è già sera, anzi è notte. La giornata è passata così, come aver dormito. Infatti non mi ricordo niente se non brevi barlumi di luce e ombra, e grida, e mormorii indistinti. La giornata è stata come un sogno. Ma non un bel sogno, un incubo in cui ti svegli e non ti ricordi cosa hai sognato, sai solo che hai paura.
Le giornate sono tutte incubo e incubatrice di orrori paralizzanti. Da una parte ci stai tu, dall'altra loro. In mezzo il mal di denti. Leggermente a sinistra quelli che portano in giro il figlio col passeggino: attaccatevelo addosso come fanno le scimmie che siamo già troppi in sto paese!
A destra colline spoglie, irte di selvatico. L'italia è un paese prevalentemente montuoso, quelle sono ovunque. No, siamo troppi, sinceramente i figli ve li dovete tenere in braccio o non-ci-stiamo. Scopate di meno, datevi alle parafilie.
Da qualche parte in alto dev'esserci anche qualcosa di bello, ma per ora si lotta quaggiù nel ragnarok disarmato della quotidianità.

I miei programmi per il futuro

I programmi per il futuro sono di non aver alcun futuro. Non intendo vivere nella tensione del divenire, e a cadere nel tempo sono bravi tutti, e che ci vuole! Lo stare fermi, invece, il vivere scevri dalla superstizione della temporalità, il semplice percepirsi come in trasformazione, non riesce a tutti. Pensare al futuro è un condannarsi all'ansia di ciò che sarà, un proiettarsi fuori di se per andare a spiare le nostre aspettative.
Credi in Dio? Chiedigli cosa ne pensa delle tue aspettative.
Se non ci credi sai da te cosa pensarne.
Io poi non credo a niente, figuriamoci se credo al fantasma del futuro.








martedì 4 marzo 2014

Un lungo viaggio



I lunghi viaggi in treno sono terribili, specie se l'unica cosa che puoi permetterti sono dei lerci e rumorosi regionali, con i neon che ronzano in continuazione come se funzionassero ad api e gli zingari che passano a chiedere soldi. Ma che cazzo, pure in treno?!
Poi sono pieni di negri. Non che sia razzista, sia chiaro. Almeno non nel senso comune della parola. Però puzzano. Stateci un po' vicino a uno che viene dall'Africa, e poi vediamo. A essere tolleranti nella bambagia son buoni tutti.
Tant'è che i viaggi in regionale non finiscono mai. Si, leggi, ma dopo un po' tra il rumorio delle persone e il tranciare tran-tran-tran del treno ti ipnotizzi e vorresti solo dormire: cosa che non puoi fare, per cui ti limiti ad accasciarti esausto. Ti riposi un po', poi rileggi, parli con qualcuno... e pensi. Hai molto tempo per pensare. Quasi come quando parli con quel qualcuno in treno, e aspetti solo che sia il tuo turno per parlare, e mentre parla lui appunto pensi.
Sto treno è relativo. Forse neanche esiste.
Che poi a pensarci bene...
-
C'è un momento, un bel momento, in cui non riesci a dire più niente; in cui tutto ciò che pensi muore immediatamente e rinasce in altri modi che subito muoiono: e finisci col pensare aborti di pensiero che tu credi un gran pensare, ma sono solo cose morte. Non riesci a compiere una scelta in cui tu creda davvero.
Insomma, è quel momento in cui uno ti dice bianco, un altro nero, e tu non sai più cosa siano bianco e nero, e non credi neanche al grigio. Così ti accorgi di essere diventato un relativista, perso nell'angoscia di non poter fare altro che perderti perché non hai certezze, e non credi a niente. A niente!
Per dire, l'altro giorno un mio amico, a suo modo brillante, esordisce in un discorso, che voleva forzatamente brillante, dicendomi che la casualità non esiste. Ci vuole assai poco a smontare una tesi del genere, basta dire che in tal caso si presuppone l'esistenza di un essere superno che decide per tutti ecc ecc e che il tutto si ridurrebbe a un teatrino dell'assurdo ecc ecc; eppure non ne ero sicuro. No, non della casualità di tutto, quella se non altro è l'unica certezza: no, non ero sicuro di poterglielo dire. Perché in fondo sono sempre discorsi demotivanti, e a nessuno piace sentirsi dire che è una scintilla pazza che cade nell'acqua. Inoltre aveva degli argomenti niente male, per lo più roba di fisica, e nonostante fossi abbastanza sicuro della mia opinione non me la sono proprio sentita di spacciarla per vera.
-
Stazione. Questi qui appena saliti mi guardano. Hanno visto che nel sedile di fianco al mio invece che un dannato essere umano c'è la mia valigia. Ecco.. ora me lo chiede...
- è libero?
Si puttanaccia è libero, siediti pure e rincoglioniscimi parlando al cell con la tua amica o col tizio che ti scopi tra 3 2 1
Gli dico che è libero. E basta.
E dopo 20 secondi si mette a parlare al cell.
Sta bagascia. Non posso neanche più leggere, non con lei nel cervello. Qualsiasi cosa leggessi sarebbe una porcata. Però non è brutta, oddio... poi son cose relative. Basate sulla soggettività. Ossia sul nulla o quasi.
-
Perché alla fine anche quell'unica certezza che ti sembra di avere si basa sul nulla.
Anche la cosa più banale, anche la banalità di un gesto, diviene terribilmente contratta: non nell'ansia di compierlo male, ma nella certezza di alimentare l'inutile che è tutto.
Difatti cos'è per me quel gesto se non il compiere il gesto in se; e in quanti modi diversi potrei compierlo! Troppi per non dubitarne in continuazione.
Se, per dire, ma solo per dire, mi impegno in qualcosa, e quel qualcosa mi piace, ci credo, si! ci credo! ecco che a un certo punto, ma diciamo pure subito, lo vedo da un altro punto di vista, e da quel punto di vista, c'è poco da fare, non ha più senso, ed ecco che subito smetto di credere in quel qualcosa, e dato che in qualcosa bisogna pur credere immediatamente provo a credere ad altro.
Provare a credere. Che è come credere di credere. Ma credere a cosa se niente ha una sua verità e tutto è interpretabile?
Ma infondo è normale, cercare di essere coerenti con se stessi è futile, e anche deprimente. E mi riferisco al fatto che pur sapendo che le cose stanno così io sotto sotto non riesco sempre a ricordarmene. Che cosa triste la coerenza, l'essere sempre se stessi ci sminuisce e ci offende. E allora si prova a essere altro, o ci si crede, e si finisce col crederci sul serio finché, appunto, non ti vedi da quell'angolino morto sul soffitto, il famoso punto di vista altro, e allora smetti subito e inizi a essere, appunto, altro. Un gioco di specchi, una galleria di riflessi che rimandano sempre a quel cristallo iridescente dai mille volti che è la psiche umana, psiche relativa, quel dado dalle mille maschere che gettiamo sui binari ciechi della vita per provare ripetutamente a sentirci qualcuno. Il dado del relativo a -.
La stupidità del relativismo, che è come decidere di fare le scale col sedere, o di uscire direttamente dalla finestra: perché? Perché tanto è uguale, è tutto uguale.
No, non tutto, ogni relativista ha il suo personalissimo modo di squartare la realtà, di macellarla sul tavolo operatorio della mente. Ma alla fine è sempre un uccidere qualcosa, un assassinarsi consapevolmente mentre subito ci si gira altrove a cercarci per ucciderci ancora con l'ennesimo dubbio, l'infinita esplorazione del reale che porta ai molti sentieri percorribili che non portano mai da nessuna parte se non ad altri sentieri. E così via, e sempre così, un Io dopo l'altro, un se stesso dopo l'altro, fino al totale annichilimento che porta alla follia, che è solo una delle tante follie e poi ne viene un'altra ancora.
-
Eh..si? Si ci sono. No, ho fame (rompicojoni)
Ecco, e ora? Ancora intrappolato qui, tra l'inutilità di questo treno e questo paesaggio sempre uguale. Che palle.
E che palle ripetersi che palle da quando sono partito. Dovrebbero metterci delle camere per la masturbazione sui treni, così se entra una che ti piace lo tiri fuori e ti fai una bella sega. Poi dormi. E così via fino all'arrivo. No, scopare in treno no, con sti sedili... sedili che trasudano malattie rare. Se potessero parlare esprimerebbero lamenti e basta.
-
Ad ogni modo pensavo al relativismo. Dove tutto è relativo. E allora perché scrivere un post a tema? Tanto è tutto relativo, no?
Quel tavolo è piano? Relativamente a cosa intendi per piano, a come lo vedi e alla luce che lo illumina.
Tanto vale andare a briglia sciolta. Come una meteora impazzita, come una luce atomica .
Se avessimo due soli avremmo anche due ombre, e vedremmo tutto diversamente. Non avremmo la fissa dell'unico Dio ispirataci dall'unico astro. E anche il lavorio di piccone sulla psiche partirebbe da altri presupposti.
A volte poi mi immagino di vivere in un mondo con tanti soli, soli fiochi: e avere una corona di ombre. E non una sola che, relativamente, non basta.
La verità è che sono troppo relativista per parlare del relativismo.
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E malgrado tutto è stato proprio un viaggio di merda. Di questo sono certo. A volte anche il relativismo non riesce a trovare appigli.
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Comunque ho deciso, il post sul relativismo del 2014 non lo scrivo. Ho le idee troppo confuse.
Stasera a casa solo porno.