lunedì 30 giugno 2014

Un falò nelle tenebre



In poche parole, e per farla breve, ci sono delle situazioni, dei richiami, in cui il nostro essere sembra cadere a qualche milione di anni fa, nel mare del tempo, per ritrovarsi tra la paura e il buio, in quel vortice di ignoto dove vivono i timori primigeni.
Sono paure ataviche, luoghi spaventosi, ma non per questo spiacevoli o evitabili.
Accade quando ci si affaccia dall'alto; quando ci si perde; più comunemente quando si ha fame, e altri bisogni dell'istinto.
Accade poi spesso di notte, facilmente in un bosco, dove una parte di noi vuole l'albero e la sua sicurezza, mentre un'altra brama il fuoco perché porta luce e perché in esso l'uomo si rivede consumandosi.
Così accade che quando si fa un falò in un bosco, e per il fuoco, e per la notte, e per gli alberi e per ogni suono, si precipita in quella dimensione ancestrale da cui appena qualche millennio di stentata civiltà ci divide. E tutto assume le forme dell'ignoto.
Non è un posto vero, lì, nel bosco, di notte, davanti al fuoco, perché a viverlo sono i nostri sensi ingannatori, e tuttavia ci sembra che al mondo non ci siano altre verità, sentiamo di essere tornati padroni di un regno che era perduto, dei possedimenti notturni che avevamo dimenticati.
E si guarda il fuoco.
La prima cosa che si pensa fissando a lungo il fuoco è quella di essere su di un'isola. L'isola ha le dimensioni del cerchio di luce, tutt'intorno c'è il nulla. Noi, aggrappati ai bordi, scrutiamo intorno l'oceano senza rive della notte, sospesi tra due mondi che si odiano e si temono.
Ci rendiamo conto essere noi stessi un mondo a parte, uno scoglio contro i confini della realtà.
In quei frangenti solo i rumori notturni ci impediscono di impazzire, distraendoci la mente. Così seguendoli fuggiamo loro dietro, immaginandoli con forme e colori, ma sempre la mente torna al fuoco, al centro di tutto, e in essa trova risposte a domande incomprensibili.
Poi si mangia, com'è giusto che sia, e mentre si mangia si preferisce soffermarsi sul vuoto d'intorno, riflesso del vuoto che col cibo riempiamo, consci che in realtà noi stessi siamo notte, e non vi è luce che possa saziarci.
Un fiume scorre lento a ricordarci che tutto passa: ma non ora. Perché di notte si ferma il tempo, di notte il fiume ci lascia indietro ad aspettare il giorno, e vedendolo fuggire ci rammarichiamo per la sua triste sorte, e per il suo essere trascorso.
Non dirò poi banalità sulle stelle, ma solo che davanti a un fuoco sembrano meno belle, come non necessarie, quasi fastidiose. Spettatrici annoiate delle banalità umane.
Quello che si dice di notte, davanti a un fuoco, si fa fiamma e si imprime come luce nella mente. Quello che si fa di notte, davanti al fuoco, diventa un ricordo caldo, e crea incendi nella memoria.
Un colpo di vento e la legna respira, un attimo di vuoto e l'assedio del buio si fa stringente.
Ora comunque è ancora caldo, e il fuoco mi scotta la pelle. Come conseguenza mi rilasso, il fuoco brucia per me.
Ora fa meno caldo, e il fuoco morente ammicca appena, con le sue braci sognanti spiate dal mattino. Come conseguenza mi sveglio io, e mi alzo, mi stiro, e vedo che non ero su un'isola, intorno c'è ancora il mondo, che forse si è ricostruito appena le ombre sono fuggite, o forse aspettava in silenzio sotto la cortina tenebrosa. Fatto sta che è ancora lì, e più riappare meno si vede il fuoco, che è una creatura anche lui, come me, e col sole si fa trasparente come un fantasma, e come un fantasma anch'io fuggo altrove, scacciato dalla luce che violenta il bosco.

Nessun commento:

Posta un commento