mercoledì 4 giugno 2014

Salvatevi dai mondiali




Chi sono, cosa sono, perché esisto?
Ma soprattutto: cos'è la vita?
A questi quesiti tutti sanno rispondere, che è come dire che nessuno sa farlo, perché una risposta, a ben vedere, non c'è. Eppure sappiamo ben formarci delle certezze, che a noi paiono verità irremovibili. Delle nature più varie, a volte contrastanti fra loro, ce le elenchiamo mentalmente, le sfiliamo col pensiero, ci passano su una moltitudine di dita inesistenti, senza che abbiano un ordine di grandezza, né insiemi specifici. Queste sono le nostre poche, sparute certezze.
Ad esempio, io, così, per dire, odio la leggerezza.
La leggerezza, si sa, è gran cosa, lo è stata, purché sia ragionata; chi vuole invece rifuggire ogni pensiero, e così esser leggero, a me, cosa volete, mi sta in antipatia. Dirò: non posso proprio vederlo.
Ad esempio chi si chiude alle novità per non turbarsi: cos'è costui, una bestia, un coprofago dell'abitudine?
Per non parlare di chi scivola sulle cose col sorriso in tasca e un abbigliamento ricercato. Costoro, in verità, mi fanno più pena che altro, persi nei loro liquidi seminali, nei loro brodi vaginali.
E come non parlare del "così si dice", "così si fa", la borghesia dell'essere, l'essenza del mediare borghese. La moltitudine del Tutto uguale.
Ma questi sono ancora poca cosa in confronto al vero lerciume. No, non sto parlando delle commesse che non ammiccano ai clienti, bensì dell'aborrito, inumano, deprecabile spettatore di calcio. E mi riferisco ai mondiali incombenti, che minacciano la quiete estiva come una cannoniera russa ancorata in porto.
Eccoci, qui, arrivano i mondiali, e subito il succitato tizio, l'uomo calcio, inizia a figurarsi il mondo come lo si può giusto vedere nelle scuole primarie, o nei cartoni animati: una serie di stati. Ma no, non stati, bandierine di stati, e ogni stato è la sua bandiera. Ora, l'uomo calcio, semplifica ulteriormente, riducendo il mondo a un insieme di squadre di calcio, ognuna delle quali rappresenta il proprio paese, e tutte insieme vanno al mondiale. Questo è per lui il mondo.
Un paese, uno stato, non sono la loro storia, ma quella squadra, ciò che fanno in quel mondiale.
Una guerra per miserabili.
Nientemeno, da noi, appaiono bandiere, la gente sembra credere in qualcosa - oltre lo stanchissimo cattolicesimo -, e tutti si adunano, stanno insieme più volentieri se, voglia Dio, gioca la nazionale, e voglia Dio vinca. Perché neanche Dio è più una cosa seria quando gioca la nazionale, sempre che lo sia mai stata.
Quest'anno i mondiali si giocano in brasile, lontano dagli occhi, immersi nel sud del mondo, tra i suoi terroni meticci e bestiali, nelle braci razziali di un colonialismo feroce, delle guerre in nome della croce, tra i figli degli schiavi e l'europa che fuggiva altrove. Ma questo, all'uomo calcio, non interessa.
Egli vuole infatti solo vedere una palla che rimbalza, una persona che urla, uno stadio che rumoreggia. Possibilmente in poltrona, al bar, o dove ama posare il fondo schiena in attesa del niente che contempla. E il tutto, passivamente.
Infatti in nessun modo l'uomo calcio, vedendo una partita, può influenzarne il risultato, tanto che quando egli urla, si dispera, non lo fa per gli esiti di questa, ma per la sua impotenza davanti agli eventi. Così talvolta decide di recarsi allo stadio, dove inconsciamente sa di poter influire in qualche modo: urlando. Facendo il tifoso, ossia un pazzo che urla perché, evidentemente, non sta bene; uno che urla così, che si agita così per niente, può mai star bene?
 Ma che urli lì, allo stadio, o davanti alla tv, poco cambia.

Costui sta forse bene?


Migliaia di operai sono stati sfruttati durante la realizzazione di questo mondiale. Migliaia di persone hanno perso la loro casa per far spazio ai nuovi impianti.
Ettari di foreste vengono abbattute.
Ma a me, cosa volete, non me ne frega un cazzo. Io sono il principe Valkovski, io sono colui che non si cura di niente, solo di ciò che gli piace o no. E il calcio non mi piace: che è un bellissimo sport, ma ci intrappola dentro un mondo che non esiste, facendoci vedere le cose come non sono, in attesa di qualcosa che non verrà mai a svegliarci. E ci mantiene impotenti, tanto che non esito a dire che l'abituale telespettatore così come assiste inerte alla partita, allo stesso modo, poi, si muove nella vita, o poco ci manca.
E allora ho un messaggio, un messaggio per questi mondiali, a voi due, tre che leggerete. Questa estate non guardateli, ma, piuttosto, drogatevi. E, in caso, sentiamoci.

2 commenti:

  1. Sto per trasformarmi nell'uomo-calcio (anche se il campionato non lo seguo, seguo i mondiali) però i locali, che di solito si eccitano per ogni cosa, dal campionato del mondo alle prodezze di Senna al Carnevale, stavolta hanno capito che li stanno fregando e non hanno tutto l'entusiasmo di una volta. Abbiamo qualcosa da imparare, forse.

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