martedì 11 marzo 2014

~ Notturno ~

Intanto, diciamocelo subito, il sole ha i suoi pregi. Passi l'abbronzatura, che la nostra società ha trasformato in patologia psichiatrica quasi fosse un'aspirazione al meticciato, ma il sole dà, diciamo così, un certo contributo al paesaggio, colorandolo intensamente, rinnovandolo con la sua energia.
E talvolta crea deserti.
Le società assolate si cullano in una pigrizia senza fine, perché troppo sole sfianca, basta lui per tutti e nessuno sente il bisogno di accendersi.
Senz'altro mi sento di dire che è, il sole, la condizione dei mediocri; se qualcuno vi dice che ama le belle giornate di sole allora avete davanti uno che della vita non ha capito niente.
Lì vi trovate in presenza di qualcuno che riesce, o perlomeno finge di riuscire, a consolarsi con un po' di luce. Drogati di fotoni.
Il sole, per dirla tutta, dà il meglio di se quando tramonta, accendendo gli orizzonti. Poi il crepuscolo s'espande diafano, e sorge la notte.
Ma che notte sarà mai?
Notte che piove, notte di nebbia, notte innevata o notte di stelle?

Notte che piove

Ero uscito per... dovevo andare a... Non importa. Attendevo qualcosa; nulla attendevo. Poi inizia a piovere e ne approfitto per farmi un giro.
Le case sono chiuse, bunkerate nelle loro abitudini. Si scambiano, tra di loro, dei brusii, chiacchiere incomprensibili. Tutti hanno paura d'essere soli, anche le case, e se piove, oltre all'impermeabilità di tutto, a isolarci è anche il muro d'acqua. E batte, tambureggia, che se hai un lucernario sembra un demone notturno che bussa, e nelle vecchie case rimbomba tutt'intorno, e a ogni colpo di vento i vetri antichi vibrano come piatti d'orchestra che tengono il ritmo delle gocce; per strada invece, oltre le case lontane, le luci vicine, è tutto un gran schizzare, e in ogni goccia che cade ci vediamo cadere, e se si guarda il cielo si rischia proprio di precipitare; perché è un cielo teso, è in ordine e pieno di rigore, austero, e linee lo attraversano come vite, e si schiantano al suolo, come vite vissute, e ogni cosa intorno muore di riflesso, che tutto splende e ogni luce riverbera all'infinito sulle superfici bagnate; e lento scivola tutto come l'acqua che s'ingorga nei buchi, e ogni gorgo è il nostro; che non c'è altro, esiste solo il gorgo che risucchia via tutto, e laggiù tutto torna a esser vuota notte.
E me ne torno da solo a casa, e per fortuna che piove; per fortuna che qualcuno mi consola ed è la pioggia. Tristezza d'espressione, ricordo e logorio lontano, intimità fragile, come il suo cadere, come chi vi assiste bagnato.


Sciamani nella nebbia
Ma ieri c'era la nebbia, e le persone, come barche pigre, navigavano nel pallore, senza vedersi, senza chiamarsi; e il mondo era più bello in quella notte nebbiosa, dove ogni luce lontana pareva un amore senza confini, una stella di passione; e la nebbia addolcisce il mondo e lo ossessiona, se ne sta lì come in attesa di qualcuno che la cacci via, e d'attesa muore, come tutti, che aspettando ci si consuma, ma intanto mi ha già stregato, e la attraverso come un fantasma che torna alle sue regioni, e spettralmente fuggo in essa, privo di ogni ambizione che non sia navigarla; e d'oblio mi perdo, le faccio una carezza e nulla tocco, io pastore di cose inanimate, di essenze eteree, di verità sfumate.

Ma tempo fa, però, ebbe a nevicare.
E mi diede gran dolore, di quel bianco che gioca col sole, e lo potenzia, e lo riflette senza pudore, ne ho pieni gli occhi; che poi scolora e appare grigia, morente, come immondizia d'essere umano, e poi sporcizia, e infine squallore. Impastata di silenzio e di vento la neve sorride agli eremiti, purché sia eterna. Infatti una bella nevicata non dovrebbe, per esser tale, finire mai, ché quando finisce rivela ogni bruttezza; la neve, io penso, si apprezza solo dov'è perenne; altrimenti è un imbroglio.



Le stelle viste senza atmosfera (atmosfera del cazzo)


E infine le notti stellate, a cui non porto rancore, sono forse le più numerose.
Le stelle... il mio amore.
In esse mi perdo sapendo esattamente dove sono; come in contemplazione di un qualcosa che ci distrugga! E le stelle, a dire il vero, mi distruggono di meraviglia, astri lontanissimi, mondi fluttuanti nel cosmo arabescato, vertigine tenebrosa dei loro spazi neri, follie danzanti, ci reclamano come una loro creazione, e in verità ci addobbano di fulgore, di spazio, di materia, di energia pulsante, di tremore, che tremano d'orrore per l'immensità che sono, coscienza incosciente dell'universo, erudizione senza memoria, clamore silenzioso, viaggiatrici siderali immobili, stanche, stanchissime, eppure distratte custodi di tutti segreti, la loro luce fende il cosmo, e illuminò Platone, che le vide e s'avvide della pochezza che siamo; e ce la disse, e così chiunque le veda non può che sentirsi niente; e niente infatti è il nostro spessore.

Poi come sempre venne il mattino, e sorse ridendo dal grembo dell'Asia. Lucente di ambizione, come un oriente inorgoglito, distolse le mie visioni notturne, e in esso crollai, stremato, senza alcun timore, ma con un dolore, un dolore lontano, un dolore senza nome. La malinconia per la bellezza delle notti cadute nel passato, che non è come la tristezza a cui si può fare attenzione, e darle un motivo, e parlarci: con la tristezza ci parli. La malinconia no, non sa di esserci, s'ignora, non ha spiegazione. È lì da sempre, come le stelle, non la si crea ma la si raccoglie, come un'erba rara, un'erba scura, e si spiega meglio nell'immensità dei paesaggi, come un occhio critico verso tutto e verso tutto misericordioso; come un cercarsi senza potersi trovare, e continuare a cercare, per sempre, con occhi vuoti e assonnati.
E poi si dorme.
Forse.

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