lunedì 3 novembre 2014

Il racconto sbiadito




Ti racconto, simpatico lettore, di come la vita sia tutta una pazzia, e saltando da un cerchio di fuoco all'altro si finisca sempre per bruciarsi il cervello. Specie d'estate. Specie se fa caldo. E certo, ne converrai, se fa caldo, e le strade friggono miraggi nell'aria, si sta meglio nelle solitudini marine che a traslocare.
Eppure, proprio perché la vita - che volete farci - è tutta una pazzia, io in quell'estate, e sotto quello sfrigolio bollente, mi accingevo a traslocare.
Venivo, per così dire, da un angusto vicoletto, e mi sembrava fino a quel giorno di non aver mai visto la luce del sole. Venivo, in un certo senso, da un luogo soffocante, e mi sembrava fino a quel giorno di non aver mai sentito le carezze del vento.
Venivo anche carico, carico e sudato, trascinandomi dietro i miei pochi averi e una vecchietta che viveva con me da anni.
Venivo, appunto, a villa Carina, con le sue mura di mattoni scuriti e il suo cancello cigolante, che ci accolse nell'abbraccio variegato del suo profumo di giardino e i bei fiori cangianti. La facciata, da me mai vista, sfavillava ai raggi del sole estivo, eppure nonostante tanta luce mi sembrò di cogliervi un non so che di ripugnante da cui con un vago gesto di mano cercai di liberarmi.
Davanti a essa stavano assisi tutta una serie di gatti, per lo più neri, dallo sguardo tra l'annoiato e l'iroso, che non capivo se avevano sonno o mi odiavano.
Tutto intorno l'erba era alta e impazzita, e ogni finestra, verde come l'erba, sbarrata, come a vietar l'ingresso all'estate che tutto cingeva d'assedio.
E infatti dentro non era poi così caldo, nel largo e scuro androne, salvo forse solo un po' di afa nell'avvicinarsi al tetto - e nelle soffitte assolate poi era tutto un gran sudare.
Così in breve mi sistemai lì con la mia serva anziana, e feci presto la conoscenza dello stabile e dei personaggi che lo abitavano, che erano come dei vermi ciechi  che rodono al suo interno un frutto antico

Intanto sì, c'era una gattara. E una gattara mica da ridere, che infatti di gatti ne aveva diversi, da tre fissi a sette. Io poi amo i gatti, si sa, ma questi erano, nel modo più lurido possibile, tutti rotti e ammaccati, uno senza coda l'altro senza denti, uno grigio ricordo senza orecchie: una banda di gatti sporchi e mutilati, come di ritorno da una tragica guerra. E quasi immobili, difatti mai ne ho visto uno anche solo accennare la corsa, o salire d'un balzo. Ognuno fermo nel suo angolo come a fuggire il mondo, attendendo il cibo che Rosina, col suo zinale liso, e i capelli strangolati dal vento, portava con solerzia, per non dire devozione: tanto che pareva li adorasse.
E pure se avevano gran fame mai li ho uditi miagolare, men che meno agitarsi dall'appetito.
Io non le dissi nulla, fingendo ammirazione per il suo comportamento, senz'altro figlio del non aver avuto figli - cosa che poi mi fu confermata - e di una diffidenza verso gli altri esseri umani, o come li chiamano i vecchi del luogo i 'cristiani', dando per assodato che tutti gli umani lo siano.
Invece ben poco cristiana era un'altra signora, questa più tozza e curata, che al contrario di Rosetta, o Rosina, uno vale l'altro, stava al piano terra, anzi leggermente sotto dato che la villa era scavata nel tufo, tanto che che ogni volta che se ne usciva dall'uscio sembrava un animale che risale la sua tana, e un qualcosa di bestiale in effetti lo aveva, sicché bestemmiava come una fiera delle più feroci, con tali improperi da suscitar allegria e persino, ogni tanto, un poco di stupore.
E lei la chiamai la signora delle tazzine e del caffè, che a una certa ora, mentre - più avanti iniziai a farlo - curavo il giardino, sempre passava e me ne offriva, con dell'altra roba dentro piuttosto forte, che anche lei prendeva, rinvigorente per me, ma che su di lei aveva l'effetto di farla imprecare ancora più forte, contro la vita e la vecchiaia, e i gatti maledetti che impestavano l'erba alta; e pure contro l'erba che, a suo dire, dovrebbe tagliarsi da sola.
Davanti alla mia porta, al primo piano, vi era un tizio scapolo con la faccia da pesce scongelato e lasciato al sole, uno di quelli che non capisci di che razza sono, se diavoli o santi, o nessuno dei due; uno di quelli, per capirci, che te li immagini con lo sguardo vitreo a fare le peggio porcate da soli, al buio, chiusi in una stanza, ma che poi, come niente fosse, vanno alla processione della tal madonna vestiti a nozze, e camminano in mezzo alle addolorate come se stessero andando a lusingare qualche bella ragazza, e invece pascolano dietro a una croce.
Uno così, insomma.


Ora, devo dire, le mie stanze non erano certo granché spaziose, constatanti in un salottino, una camera da letto adiacente, un cucinino sepolto in angolo del salotto e un bagno. Tutte stanze di medie dimensioni, pulite e ordinate. Ma con troppa luce del sole a scaldarne i muri, di modo che appena potevo, e la luce del sole si ritirava a spiare il cortile da dietro al muretto, me ne andavo giù, in giardino, a guardare i gatti o Rosina, ma mi pare si chiamasse Rosetta, che con le sue vesti logore da gattara gli sfilava accanto. E tutti in fila che furono diedi loro nome e scopo in questa vita, ed essi ancora, dovunque siano, se ne fanno vanto.
Ed erano:
Behemoth, la voce del caos. Una gatta nera senza denti, il cui miagolio pareva eruttato da un buco della terra. Svelta e silenziosa, era l'ombra di ogni pianta, e ciò che faceva era far finta di non esserci.

E Necromante ombra lunga, che probabilmente evocò Behemoth da un luogo lontano. Un gattone grigio dal viso pendente e il miagolio querulo, quasi assillante, ma diffidente verso ogni cosa, persino la sua ombra, che forse credeva viva.

E Ern, assenza di luce. Un gattone nero con le più grandi palle che abbia visto, tanto grandi da sembrare le palle di un cane o di un primate. Sempre fosco e incline al crollare, come una maceria indispettita dalle intemperie. Spelacchiato e ingiallito nelle estremità, era sempre isolato dagli altri.

E poi c'era Shang Tsung il danzatore del crepuscolo. Gli diedi questo nome perché una sera, al crepuscolo, se ne andava pel cortile saltando dietro a una farfalla che vedeva solo lui, sicché sembrava danzare con la luce morente. E quello fu il suo nome. Questi non aveva coda, ma in quanto a coglioni era secondo solo a Ern, e nel correre ne aveva fatto, in assenza dell'arto, il suo organo dell'equilibrio mancate; così le agitava di qua e di là per tenersi sempre ritto e bilanciato, e queste sbattevano da sembrare loro, le palle, a dirigere il corpo, e tutto quello che c'era davanti a seguirne il corso.

Poi, altri gatti minori, erano Tarcisio il farmacista, chiamato così perché sovente si recava in farmacia, che lì era una micia da tutti ambita, ma egli per sorte o per diletto ne poteva vantare qualche speciale diritto.
E poi Gozer, un gatto di medie dimensioni, nero, ma di un nero fluido, cromato, un nero da anguilla della notte, capace di infilarsi ovunque e di sparire in un batter d'occhio, con un tuffo o uno scarto di lato.
E altri ancora, tutti ben nutriti da Rosetta, o era Rosina, tutti ben tranquilli, e soprattutto fermi, immobili, come ad aspettare qualcosa che prima o poi arriva, e andargli incontro non ha senso.

E quindi, mentre la signora delle imprecazioni mi portava il caffè, i gatti languivano e il sempliciotto con muso da batrace stendeva i suoi calzini di spugna bianca al sole, io me ne stavo a vedere tutte queste cose e altre ancora, all'ombra del muro antico sotto le cui fondamenta dormiva un lago, e sopra il quale si apriva il cielo.

In quell'estate cercavo di tirare su due soldi per qualche piccola spesa che avevo urgenza di compiere, come mangiare, cacciare via la vecchia serva per una migliore, e curarmi i denti, che quest'ultimi continuamente mi dolevano come un brutto ricordo che si fa carne e sangue, e scrivere racconti era il mio modo per guadagnare.
Le case editrici dell'epoca, manco a dirlo, non ne volevano sapere, anzi talune mi convinsero che sarebbe stato meglio fossi io a pagare.
Ero preda di questi e altri pensieri quando la biondina che viveva al piano terra, ma in un appartamento separato, una specie di ridotta della villa, mi venne incontro per innaffiare le sue piante.
Era costei né bella né brutta, ma, in un certo senso, come si suol dire, passabile, così come non la si potesse dire intelligente e manco sciocca, solo forse un po' distratta.
Non aveva in simpatia i gatti, ma mancava di carattere sufficiente a scacciarli apertamente. Di modo che quando Rosetta, o Rosina, fate voi, insomma quando la gattara era presente non faceva altro che miciomiciare e fingersi intenzionata a carezzarli, salvo poi tirar loro delle gran sassate quando credeva di non esser vista.
Ma i gatti lo sapevano, e senza adottare nessuna tecnica particolare si limitavano a starsene immobili nei loro angoli. E io nel mio.


Ora, successe questo, e cioè che giunto l'inverno, e introdottomi abilmente in quel contesto, le vecchiette si ammalarono tutte insieme, compresa quella che mi faceva da serva, e spedite se ne andarono al camposanto.
La biondina incontrò un altro biondino del suo pari e con questo si trasferì in altro canto. E il sempliciotto del primo piano, forse non potendo accettare che il suo amore nascosto non fosse - e non sarebbe stato mai - contraccambiato, sparì del tutto, come un petardo. Ma senza nessun rumore, come uno che pascola dietro a una croce.
E così rimasi solo.
Oddio, non proprio solo. C'erano ancorai gatti.

Il primo giorno diedi loro da mangiare, perché mi facevano pena e non volevo loro male.
Il secondo giorno gliene diedi perché ne era rimasto d'avanzo dal primo.
Il terzo, sicché odio il prosciutto vecchio, glielo lanciai. Sapendo che dopo di quello si sarebbero dovuti arrangiare, dato che in cibo spendo poco e non ho avanzi da regalare.
Il quarto attesero e il quinto erano spariti.
Li ritrovai il sesto giorno dacché ero rimasto solo, riuniti in concistoro sotto una delle alte finestre che danno sul cortile, come a mettersi d'accorso su argomenti di grande importanza agitandosi niente affatto.
Probabilmente non erano pronti a un simile evento, e l'idea di migrare altrove li ripudiava e ne offendeva la pigrizia pietrificata nei gesti lenti.
Così dapprima furono solo i più giovani ad andarsene, e da lì a un paio di settimane dei gatti non c'era più traccia.
Infine anche l'inverno arrivò, coi suoi venti acuminati e la morte delle piante, e insieme all'inverno arrivò, finalmente, anche un'offerta di lavoro per me, che un racconto scritto su Villa Carina era piaciuto e me l'avevano comprato.
Così in poco tempo, come ero venuto, feci le valigie e me ne andai, ed era febbraio, e mi lasciavo dietro un grosso muro di facciata adombrato, un giardino spazzato e un alone luttuoso che aduggiava sullo stabile, senza che neanche un gatto fosse rimasto a salutarmi o una vecchietta a ficcare il naso.
Chiusi il cancello cigolante e me ne andai, né triste né sollevato, con in testa niente di particolare se non qualche idea sulla vita e sulla morte. Niente che non fosse già stato scritto, per cui spazzai via tutto insieme al vento glaciale, compreso un qualcosa di ripugnante che la villa vista da fuori mi dava a intendere, e mi misi in viaggio per la prossima Villa Carina, o qualche altro strano teatro.



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