lunedì 6 gennaio 2014

Gli uccellini

La nostra cultura è stata distrutta dagli uccellini.
 Svegliarsi al mattino col pigolare dei nidi sugli alberi e sui tetti, sentire lo svolazzo con atterraggio di rondini e piccioni e quant’altro, e il loro canto all’alba, ci dispone verso una ebete benevolenza, ci illude fin dal risveglio che il mondo è un posto felice, che la natura è bella, che gli uccellini cantano per noi.
La percezione che abbiamo della natura è importante, ed è fondamentale chiarire subito che essa è ostile, e ostili sono tutte le forme di vita che la compongono. Se cani e gatti fossero più grandi, ci mangerebbero. Se gli orsi fossero più piccoli vivrebbero nelle case dell’uomo.
In realtà dobbiamo guardarci anche dalla nostra stessa specie. L’essere umano nasce bestia, e per poter poi coesistere ha bisogno di essere addestrato, depauperato dei propri istinti. Tuttavia più sa e meno è felice, proponendosi come adatto a un’istruzione parziale, che lo renda capace – apprendendo il meno possibile – di  vivere un po’, senza far danni, e poi morire.
Perché si lodi così tanto la cultura, e chi ne è detentore, è un mistero. Come misteriose sono le vie che portano ad ammirare il canto degli uccellini, il loro volo, e ci fanno ignorare il verme che si contorce nella pancia.

L’unica felicità è l’ignoranza, l’ignavia.
Oppure andarsene e non tornare mai più.






Eppure Nicolay decise che avrebbe odiato l’ignoranza, e anche la felicità altrui. Nel suo mondo, che non è proprio il nostro – o meglio, mi sento di doverlo specificare -, non è il mio, ne è il vostro, a scapito di chi potesse pensare, o astrarre, che condividiamo un mondo, appunto, nel suo mondo ebbe voglia di mangiare qu..al..co..sa, sentiva il cervello rallentare, se non avesse mangiato qualcosa, magari un pasticcino cremoso, avrebbe seriamente corso il rischio di diventare acefalo.
 Sì recò, com'è normale recarsi se si ha voglia di pasticcini, alla pasticceria con un nome stravagante: Pasticceria pasticceria.
Un ambiente chiuso, senza finestre ne vetrine, oppresso da una cinerea luce al neon che fluttuava da un soffitto insolitamente basso, con un grigio bancone al centro, dove dietro a un vetro opacizzato dal tempo erano accampate delle paste che parevano loro stesse emanare una pallida luce al neon.
Erano in quel luogo altre persone, e nonostante vi fosse uno spazio di circa 4 metri da muro a muro, esse se ne stavano silenziosamente, in fila drittissima, dietro al bancone, così da formare, assieme al bancone, una lugubre forma geometrica somigliante a una L.
Messosi in fila, Nicolay, in ossequioso silenzio, senza sapere chi o cosa si ossequiasse tutti insieme, aspettò il suo turno, strascicandosi sul pavimento appiccicoso verso il mostruoso obeso assiso lungo la cassa, finché non fu il suo turno di scegliere cosa voleva comprare, comprarlo, e andarsene.
Nell’esimia persona del commesso era tutto ciò che potesse ricordare un rospo, dalla mole massiccia alla pelle untuosa, con uno sguardo nient’affatto vivo, e un odore non percepibile nella distanza che li separava, ma indovinabile nell'appiccicume dei capelli; le chiazze sotto le ascelle;  la pelle squamata delle orecchie: ossia un puzzo metaumano.
Nikolay, per niente scoraggiato dalla fila, attese il suo turno senza pensare a niente, neanche alle paste. Poi, arrivato il suo momento, si dispose a parlare, con quei movimenti impacciati che ci portano a comunicare con qualcuno che non ci guarda: attendendo che, appunto, ci guardi.
- Buongiorno – esordì Nikolay – vorrei una.. aaaaeh, aaaa – ed emise una serie di lamenti inintellegibili, seguiti da un soffiare esausto, e accompagnandosi con lo sguardo verso le paste.
- oooooooohh ehhhhhh – continuò Nikolay, sospendendosi come davanti a un nulla cosmico con la bocca spalancata, un rivolino bavoso sul labbro inferiore, e lo sguardo leggermente compresso nelle palpebre che si disperdeva, questa volta, dal soffitto al commesso, molto, molto lentamente; espressione di chi stia portando la sua attività cerebrale ben oltre le soglie dei suoi limiti.
Il commesso, immoto come una statua, con la sua espressione scolpita nel legno, tanto da somigliare a una polena rappresentante la perdizione – e certo la sua nave avrebbe avuto come nome “tutto è perduto” – esitò lungamente, sempre impassibile, seppure iniziasse impercettibilmente ad ondulare avanti e indietro, come un pendolo umano che altro non scandisca se non la propria inutilità.
Poi emise un grosso peto, né lungo né corto, ma solo violento,  come se stesse lì da ore, e per passare avesse bisogno di una certa pressione. Sì cercò il naso per grattarselo, dopo aver trovato orecchie, fronte e collo, e lentamente, dinoccolato, si mosse verso le paste, recitando un flebile lamento a labbra socchiuse, una litania sulla lettera U, un lungo uuuuuuu-uuuuh, trascinando le sordide scarpe, il cui raschiare sommesso, simile a un tarlo antico, forniva il sottofondo spettrale al lugubre locale.
Il concistoro dei clienti dietro Nikolay seguiva la scena come si assisterebbe alla lunga attesa prima di una battaglia tremenda.
Andata e ritorno si fecero attendere lungamente, dato che, durante quel tragitto onirico, una mosca (la quale è ipotizzabile avesse la sua casa dentro una delle paste) disegnando rotte euclidee nell'aria colma di effluvi miasmatici, ebbe l’ardire, e il buon senso, di posarsi sul commesso, il quale si fermò, come colto da indicibile stupore, a ponderare non si sa cosa, guardando non si sa dove, fino a quando il saggio insetto, compiuto il suo dovere, non pensò di tornarsene in qualche pasta.
E finalmente la pasta si posò solenne dinnanzi a Nikolay, così tenebrosa da chiedersi dove fossero i necrofori che fin lì l’avevano condotta; ed era una pasta enorme, era grande almeno quanto il commesso, il quale, per sottolineare argutamente la grandezza della pasta, pensò bene di elargire un altro peto, ma più lungo: un peto di almeno due minuti. La colonna sonora per l’arrivo della pasta.
Nikolay, confuso da tanta devozione, si commosse, e per il peto e per la pasta. Sì fece asciutto, contorcendosi, e pianse. Poi fissò la pasta, strabuzzando gli occhi e tremando leggermente, piangendo lacrime senza emettere alcun suono che non fosse un risucchiare l’aria debolmente, a singhiozzo, emettendo di tanto in tanto dei rochi sussurri, nei quali sembrava chiamare la pasta per nome, adularla; poi tacque.
La prese, pagò, si congedò dal commesso balbettando un po’ di vocali, e se ne andò.
Il commesso restò immobile, non disse niente; i clienti nulla dissero, non si girarono; la mosca mise per un attimo la testa fuori da quello che sembrava un orecchio umano, ma non si crucciò più di tanto.
Non più in nessun luogo di questo racconto, ma altrove, Nikolay fissava obnubilato la pasta, improvvisando una rapsodia lamentosa, mentre dal mondo esterno giungevano cinguettii volanti e pigolii d'uccelli.
Doveva già essere mattina, e doveva certo essere anche la fine di quel mondo in decadenza, di Nikolay, e di chiunque lo abitasse; eppure, in ascolto di un suono così inusitato, tanto da sembrare giungere da realtà incommensurabilmente distanti, Nikolay, emaciato e stretto alla pasta, parve riaversi.
Provò a dire qualcosa, ad alzarsi. Biascicando suoni incomprensibili si sporse alla finestra, respirò profondamente, lentamente, e disse: - Uccellini, belli uccellini. Millantatori nati. Quanto vorrei mangiarvi tutti.

Tornò dentro e amò la pasta.

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