mercoledì 22 novembre 2017

Foglie Marce

Foglia morta su binario



Più invecchio e meno la natura mi piace. Sempre più chiaramente scorgo in essa un'insoddisfabile avversità, la crudeltà dei vasti progetti male organizzati.

Reso incredulo dalla morte del suo amante Antinoo, l'imperatore Adriano fece costruire in suo ricordo una città, Antinopoli.
Al contrario di quel sovrano colto e illuminato, vorrei ricordare l'amore perduto distruggendo tutte le città che esistono. Non in uno spazio ben organizzato troverò conforto, ma nella affabilità delle macerie.

Dopo l'oblio del sonno è il primo pensiero del mattino a indirizzare per il resto della giornata gli eventi e i nostri ragionamenti successivi.
Ne consegue che appena svegli bisogna stare ben attenti a ciò che si pensa, o possibilmente non pensare affatto.
Come? l'ideale è un corpo nudo a fianco per distoglierci da tutto.

In un suo racconto Borges affronta l'esistenza di un uomo che ricorda tutto. Esiste sventura peggiore? Se la memoria non celasse nelle ombre craniche gran parte del suo bottino fatto di istanti, impazziremmo tutti. Come il suddetto personaggio del resto.
Che sollievo, ogni giorno, dimenticare qualcosa.

Mi sono invaghito di una ragazza vista al bar. Due chiacchiere, un sorriso. Un ridere sciocco. Sguardi avidi di promesse, di intenzioni. Finché poco dopo tutto scivola via, sparisce, e ci si toglie da una strada della quale eravamo riusciti a scorgere il fondo. Non è vero, non vado mai nei bar. Ma se ci andassi riuscirei a farne un dramma.

Il più nero e spaventoso abisso umano si trova negli occhi di una donna che non ti ama più.

Non sopporto di dover salutare gli altri, specialmente quando vado via. Forse perché, abbandonato da mia madre quand'ero piccolo, ogni distacco formalizzato mi ferisce. Per questo amo l'andarsene in silenzio, mentre fingo di non essere mai arrivato.

Non esiste situazione più pericolosa di chi si trova a regredire a un atteggiamento infantile quando perde qualcosa di prezioso.
Diviene allora così vulnerabile da ferirsi coi suoi stessi pensieri, e per uscirne deve crescere di nuovo.

Per certe nostre decisioni passate, ci diciamo, l'unica spiegazione possibile è che fossimo un altro. Abile scorciatoia del pensiero, che però spesso si rivela esatta.
Lunatici per predisposizione, la coerenza si rivela su di noi inadatta. Dopo ogni assenza nel sonno è un altro essere ad aprire gli occhi. La coerenza fiorisce solo nell'insonnia.
[Tuttavia vi è un certo piacere nell'essere coerenti, soddisfazione quasi estetica che prima o poi desideriamo sperimentare, e nella quale se troppo crediamo restiamo intrappolati, come un mammut tra i ghiacci.]

Se vogliamo una cosa e non possiamo averla, cerchiamo di non pensarci. Preso atto che è impossibile proviamo a desiderarne un'altra. L'inganno dura poco, la luce appena accesasi nella mente schiarisce e dietro c'è quella cosa che ci perseguita.
Intrappolati in un eterno ritorno dell'idea sarà solo l'abdicazione a ogni pensiero a salvarci, un salutare nulla, un metafisico buco in testa.

Tra gli anni settanta e ottanta l'industria del cinema dell'orrore, specie in Italia, ha conosciuto numeri importanti per qualità e quantità.
Oggi questa è pressoché sparita. Mi chiedo, non è forse molto più disposta l'attuale società verso paura, crudezza, ferocia gratuita e cattiveria rispetto a quella di quei lontani anni? Perché fermarsi proprio ora?
Qualcosa sopperisce al bisogno di orrore innato delle persone. La società stessa.

Il momento della giornata in cui un depresso si sente peggio è il mattino. Per me è invece tutto il contrario; appena sveglio ho venti minuti di inspiegabile euforia. Dura fino a poco più in là del caffé. Poi svanisce.
A dire il vero da qualche settimana non ho più neanche quei pochi minuti. Dopotutto non ho mai saputo cosa farmene.

Quando faccio qualcosa mentre sto male, poi tendo a non rifarla più, come a voler esorcizzare il dolore che mi ricorda. In questo modo evito decine di gesti e di luoghi. Prima o poi non potrò fare più niente da nessuna parte.
[Fare qualcosa mentre mi sento bene, invece, non lascia alcun campanello luminoso in testa. Niente di quello che abbiamo fatto, alla lunga, ci fa stare meglio, ennesima prova che la memoria riguarda solo il rimpianto.]

Una delle cose più sciocche è cercare con la mente di correggere il passato. Una natura misericordiosa ci avrebbe negato questa facoltà. Difatti non facciamo altro.

Davanti alla sofferenza, a un grande smarrimento, sovente le parole mi mancano e, inerme, mi è impossibile reagire. A cuore spento e occhi chiusi, come un mistico spero in qualche luce diffusa e in uno sbatter d'ali. Spiando le intenzioni mute degli oggetti cerco di estrarne risposte. Superstizioni ancestrali mi governano. Accecato dal vuoto regredisco a bestia e prontamente cerco una tana profonda.

Nel primo incubo di cui ho memoria mi trovavo in piedi di notte nel piccolo bagno di mia nonna, in una casa immensa. Una signora, anzi una vecchietta, vestita di rosso, con uno strano cappellino, spesse lenti sugli occhiali, borsetta e guanti, entra nel bagno e apre la bocca. È enorme, prima grande come tutta la faccia, poi di più, fino al petto, allo stomaco, alla fine come l'intero corpo. È piena di denti con una lingua enorme. Vuole divorarmi. Di corsa esco dal bagno e mi accorgo che quella enorme casa mi spaventa più di quell'orribile donna che mi vuole mangiare.
Così resto fermo in corridoio. Dal bagno non esce nulla. La casa è silenziosa.
Dissolvenza. Buio.
Neanche al primo incubo ho saputo decidermi a fare qualcosa.

Percorrendo da solo un lurido marciapiede mi annoiavo profondamente per il semplice fatto di trovarmi lì a camminare da solo senza nessuno a cui parlare. Senza neanche una persona a cui non si ha voglia di parlare.
Ho iniziato dunque a pensare a un'ipotetica campagna militare della Werhmacht di Hitler nell'Europa medievale. Poi, in mezzo ai passanti, ho iniziato a ridere come un matto.

Eravamo una decina di ragazzi e non ne conoscevo neanche la metà. A una festa di compleanno delle medie, poi diventata partita cinque contro cinque al campetto, e divenuta infine sfida interminabile giunta ai rigori. Nessuno sa parare, quindi in porta vado io. Non ricordo bene come ci siamo arrivati, ma ricordo l'ultimo rigore e che la gara fu combattuta. Sono le diciassette del pomeriggio ed è già buio. Piovono righe d'acqua sottili come un presentimento. È il più forte degli avversari a tirare. Io aspetto in porta. Tira. Non la vedo partire ma so dove va, salto e distendo il braccio verso destra e poi in alto, come se cercassi di volare con una sola ala. La mano tocca la palla con la punta delle dita, la sente, è quasi sua, poi la palla scivola sul guanto passa oltre e gonfia la rete. Gol. La partita è finita, abbiamo perso. Io resto per terra bagnato e dolorante (il campo è di cemento).
Nessuno dice niente. Non una parola, solo le esultanze di chi ha vinto. Nessuno mi dice che ce l'avevo quasi fatta. Io sapevo di avercela quasi fatta, però, e trovavo incredibile che nessuno me lo stesse dicendo.
Poi le madri chiamano dalle scalinate, dicono che piove e bisogna rincasare.
Tornando ho pensato che solo le sconfitte restano davvero. Solo le sconfitte durano. Le vittorie passano subito, si consumano vivendole. Ma l'aver perduto, il perdere qualcosa, non se ne va, mai, e la cosa perduta resta sempre lì con te, così vicina che pensi di poterla toccare con la punta delle dita, ma non abbastanza da afferrarla.


~sospeso~
















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