mercoledì 25 ottobre 2017

Per una ragazza

Ciao *****, oggi ti scrivo come se fossi un libro, nient'affatto idealizzandoti, ma con la premura che si usa per le cose amate. Mi chiedevo cosa stessi facendo, ti immaginavo ricostruire forme e figure da sogno mentre osservi il cielo, o mentre con le tue movenze incerte ma eleganti fai la più banale delle cose, come preparare un caffè, o camminare in un viale denso di persone.
A volte, mentre cammini, guardi di lato, o un po' in alto, e quello sguardo è insostenibile e dentro c'è l'inferno. Mi ha sempre ricordato Lucifero e una rabbia più antica dell'uomo. Non a caso a ripensarci mi sento precipitare nella sua stessa perdizione. A volte mentre parli formi un beccuccio col labbro superiore e vederlo mi è sempre stato caro. Altre volte ancora giri su te stessa ed è come se le stagioni scorressero rapide, e luce e ombra si mescolassero infrante.
Mi sono venuti in mente dei versi di Poe che ora non starò a ricopiare. Parlavano di una fanciulla il cui nome era... e poi lui, Poe, si trova in un mondo dove quella fanciulla non è più. Non ricordo come finissero i versi, o forse era un racconto, ma quel mondo lo sto vedendo ora, dalla finestra, con ampio sole, ma è buio, e vasto cielo, che mi opprime. Un gatto passa qui sotto, si guarda in giro scaltro e poi avanza. Vorrei essere quel gatto e avanzare sicuro in avanti senza curarmi di versi e fanciulle. Ma io sono io, facile no?
Dicono che i sogni del mattino si realizzino, ed è meglio che non ti dica chi è a dirlo. Stamattina in un breve sonno ti ho vista ridere e cantare. Ed eri felice. Ed eri bella. Il tuo danzare confondeva le cose tutt'intorno, ma anche io ero felice e ridevo, e questo non era confuso, ma chiaro come il risveglio che poco dopo mi ha colto impreparato, spietato come ricordavo di averlo lasciato la sera prima, quando mi ero addormentato sperando di trovarti da qualche parte in quel vasto mare che si spalanca quando chiudono gli occhi.
Sinceramente, spero che la vita ti sia cara, le tue giornate liete, la solitudine appagante e che la compagnia ti arricchisca. La febbre del poeta, quel nulla ammantato di calore che soffia parole sulle cose mutandole in mondi e universi, io, francamente, non l'ho; dicono poi che si debba soffrire per scrivere versi, e che più si soffre meglio questi verranno. Anche a questo, ti dirò, non credo molto. La poesia è una predisposizione dell'anima, non ci si può improvvisare acrobati dell'infinito solo con la tristezza. O no? Ma questa è pur sempre una lettera a te, e qualcosa di interessante te lo devo pur scrivere. Ma cosa può interessarti ormai?
Sai, c'è una vecchia leggenda - ora, intendiamoci, non ha nessun secondo fine, te la racconto così, come si racconta una fiaba a un bimbo per catturarne l'attenzione - che parlava di due grandi amanti, un principe e la sua concubina. La sua favorita, se preferisci. Lei gli fu sottratta e d'improvviso sparì.
Lui, non potendosi rassegnare, lasciò il suo regno cercandola per tutto il mondo, girando per città, fiere, villaggi, mercati e i più lontani porti, usando così la sua vita, senza darsi pace, incapace di ritrovarla.
Un giorno si fermò in riva al mare nero della sera e una luce gli venne incontro. L'uomo che guidava quella luce ebbe parole di insperata felicità: "so chi cerchi e ti condurrò da lei".
Il viaggio in barca fu lungo e pieno di pensieri strazianti: chi l'ha presa, come starà ora, e se non mi amasse più? Ma anche quel viaggio finì e il principe, che nel frattempo non era più nulla, avendo egli perso tutto per rincorrere la sua amata, si ritrovò davanti la fanciulla, in piedi, come viva... ma morta. Annegata in quello stesso mare, e ora per sempre intrappolata in una negromanzia senza fine. Il suo corpo freddo, la sua mente cancellata. Davanti a tanto sgomento il pover'uomo non seppe cosa fare e chiese al negromante di poter raggiungere la sua donna nella morte, dove entrambi avrebbero potuto amarsi per sempre in quel nulla senz'anima che era pur sempre meglio del vivere senza di lei. E così fecero, uniti per assenza, nel buio oltre la vita.
Non so perché mi sia venuta in mente questa storia. Io, al contrario, ti immagino, ti so, pazza di vita e forte nel pensiero, e nell'anima, e ho già chiesto a uno stregone - che non è un negromante - di rendermi tale, per poterti riavvicinare.
Ci sono momenti in cui persino io credo alla magia, sai?
Dicono, poi, che per capire il vero valore delle cose bisogna perderle. Tuttavia mi chiedo: come capirlo senza esserci prima passati? Forse anche in quel caso bisogna essere un po' maghi. L'esperienza in questi casi non aiuta, e il passato ci aiuta debolmente, vacillando.
Hai mai notato come certe case, con dentro persone, siano abitate da quadri senza che esse se ne accorgano, ereditati o appesi nel più totale caso, oppure lì da sempre, come fossero assiomi della materia a cui neanche si bada più, ma la cui banalità, e spesso bruttezza, ci inquinano ugualmente, giorno dopo giorno, abbruttendoci un po' alla volta?
Quando mi capita di imbattermi in certi luoghi mi chiedo cosa ne penserebbe *****, cosa ne penseresti tu. A dire il vero, sempre più spesso mi capita di chiedere a me stesso cosa penseresti tu di questa o quest'altra cosa. Intendiamoci, se provo a fare una lavatrice, non è a te che penso. E neanche se devo scacciare un gatto in amore sotto la finestra. Ma forse un po' sì.
Stamattina ho visto degli aquiloni in spiaggia volare più alti dei palazzi, il vento li accarezzava come si accarezzano due amanti, con dolcezza, senza scossoni, adagio, quasi li cullasse, e loro in lui trovavano stimolo e riposo. Naufraghi incantati del cielo, si adoravano. La mente in certi casi è una severa tiranna, e a certi pensieri non ci si può sottrarre se non per ritrovarli dietro la prossima curva, rapida a giungere, dove ci attendono scalpitanti, trovandoci con gli occhi spalancati.
Ma io, del resto, sto divagando. Qualcuno ha detto che la vita è una divagazione della materia, sai? ma io penso che dietro ci sia dell'altro, sono stufo di banalizzarmi. Di banalizzare la vita. Come esercizio, dopo un po' si rivela sterile. Ma questo tu già lo sai.
Tuttavia, fa lo stesso. Dove ti trovi fanciulla, cosa fai? Io scrivo parole al vento, e non mi stimo superiore a quegli aquiloni che in esso fluttuano, ché come loro non sono padrone del mio fato, ma è una forza superiore ora a muovermi, che a seconda di dove gira mi fa vedere l'alba, o il tramonto. Il giorno o la notte. Notte che mi è cara, e in cui ora vago, come quelle ombre che supponevano gli antichi si muovessero presso il rivo tenebroso che ha nome Stige, a cui solo resta il ricordo di una vita passata, dei profumi, dei colori, condannate in un grigiore senza fine, a straziarsi.
Tu, alba dei miei pensieri, sogno e colore, guarda verso il sole, e ridigli contro. Il vento ti muova i capelli, e il sole vi indugi a lungo, così che vi si possa ritrovare, in quella trama cangiante, e darsi pace, dopo tanto risplendere su cose che non meritano la sua luce, e il suo calore.

Scritto un po' di fretta

Alex

Nessun commento:

Posta un commento