lunedì 31 agosto 2015

Vaneggiamenti sul dolore




Se la vita fosse un prodotto consumabile vi sarebbe scritto sul retro "composta al 95% di dolore"; in realtà si tratterebbe di un eufemismo: essa ne è composta interamente.
Ciò su cui spesso mi trovo a ragionare è l'inutilità di questo soffrire, esso infatti non porta a nulla se non a una maggiore predisposizione al tormentarsi nel profondo. Se il cristianesimo lo ha immaginato come mezzo per accedere al suo regno a venire lo ha fatto per un quantomai azzeccato affarismo d'intuizione. Avventuratosi come un becchino su questa promessa di salvezza mediante l'atroce vi si è ossessionato fino allo sfinimento, fino al completo esaurirsi di ogni compromesso col dolore visto ormai come inutile fardello; cessata questa spinta oggi preferisce agitarsi nella banalità dell'entusiasmo per Dio. Di certo più funzionale in questi tempi carnevaleschi, ma non altrettanto a buon mercato né accessibile. L'apologia del terribile resta confinata nelle chiese-ospedale dirette dalle madonne.
Incalzati dalla morbosità del patetico, sott'assedio da una felicità-infelice sempre a portata di mercato, come pensare anche solo di dedicarsi a ciò che è spirituale - non è sufficiente l'ottusità della fede? -, a qualsiasi cosa abbia maggior profondità di una insulsaggine ma non sia necessariamente contorta e malata?

Per quello che mi riguarda, invece, quando credevo che in fatto di dolore nulla potesse battere il mal di denti ho scoperto le emorroidi. Sofferenze collocate in luoghi opposti ben si intendono in crudeltà raffinate: orrori meticolosi nelle notti passate in bianco. Notti in cui se mai vi è stato qualcosa di trascendentale e tremendo io l'ho sfidato a sopportare altrettanto.
Il dolore fisico, diversamente da quello emotivo, più che a una profondità del pensiero sfocia in malattia mentale: a lungo andare, chiunque sia tormentato da dolori fisici cronici, non può che impazzire. Nei periodi in cui mi trovo a soffrire per alcuni giorni purtroppo non faccio in tempo a diventare matto, ma ce n'è abbastanza da rendermi odiosa la vita e il genere umano: inimicatomi tutto e tutti dalla mia immobilità sul divano, le mie maledizioni spaziano su qualsiasi argomento lasciandosi dietro macerie fumanti e ceneri nere. Il malato, si sa, odia i sani, così come i sani diffidano dei malati. Questo per quanto riguarda gli altri, per me non è così. Io, malato, non riconosco più nei sani dei miei simili: essi divengono per me alieni o mutanti, come avessero due teste o delle antenne parlanti; per contro, sano non sono mai, per cui il malato, fisico o di mente, mi è sempre caro, e mai mi viene a noia.
Stanotte ascoltavo dei bambini piangere. Qui, in questa zona, basta che se ne svegli uno, che subito tutti fanno altrettanto. Diventeranno tutti dei piccoli stronzetti, dei giovani sciocchi, degli adulti infelici; anche a loro verrà il mal di denti, e se berranno troppo si piglieranno pure le emorroidi  - ma infondo sono pensieri sciocchi, privi di costrutto. Ora torno indietro, torno a stanotte. Sono sul divano, dicevo, a leggere, con le gambe leggermente alzate, un paio di cuscini intorno, tutte le cose di cui ho bisogno a portata di mano. Doversi alzare significa essere dilaniati dal dolore; un'infermiera scollata mi darebbe sollievo, però sento che un vecchio monaco seduto al mio fianco me ne darebbe altrettanto. Non so perché penso questa cosa ma so che è così. Infondo le donne non possono mai davvero capirci, che sciocchezza le infermiere donne: chiunque si occupi del dolore umano dovrebbe essere maschio. Bevo molta acqua come da consiglio, il che vuol dire che, ahimè, prima o poi dovrò fare pipì. Sento già lo stimolo ma ho deciso di alzarmi solo a vescica straripante. Intanto leggo questo nichilista austriaco capace a raccontare solo storie di pazzi e malati, un Cechov tedesco - ma l'Austria degli anni 60 non è la Russia dell'800, e i suoi scritti ne risentono. Io, appena sento puzza di 900, in letteratura, storco il naso. Se, per dire, leggendo un libro, sento parlare di automobili, grattacieli, aerei o cose del genere non riesco più a leggere, mi sento affine solo con l'antico. Ad ogni modo stavo leggendo, e ovviamente ascoltavo Bach, che è meglio dell'infermiera scollata e del vecchio monaco messi assieme. Sudo tantissimo, non è tanto il caldo quanto il fatto che probabilmente ho un po' di febbre. Finora mi sono astenuto dal farlo visto che ieri ho bevuto molto, ma ora devo prendere un brufen. Il fegato reggerà. Prendo appunti mentalmente, la prossima volta che mi alzo: pipì, brufen... e mi cambio queste mutande. Non vado in bagno da più di 24 ore eppure tutto sembra odorare di feci e sangue misto a feci. Che razza di abominazione sono mai queste emorroidi? Dico io, ma come potrebbe persino un santo o un angelo stesso credere alla bontà del creatore vedendone una?! Quale malvagio demiurgo può averle pensate? Il solo immaginarmi un Dio del genere mi atterrisce, fa di me istantaneamente un luciferino; certo pensare che è tutto un caso, che la vita, i pianeti, le specie, tutto, dalla prima scintilla a me che me ne sto qui sul divano è un caso, non è meno avvilente. Avvilente non è la parola giusta, credo sia meglio definibile come straziante. Ma io ormai, bah, non sto neanche più a pensarci. Via, mi alzo. Dolore incredibile, come possono fare così male? Mi sento Budda fuori dal palazzo, Gesù nel deserto; sono prometeo divorato... dagli squali! Faccio subito quello che devo fare e poi me ne torno sdraiato. Ecco, camminare, se fatto come si deve, lo si può anche sopportare, ma  è l'atto di piegarsi che appare insostenibile: del resto l'alcol ha gonfiato tutto, ha combinato un gran casino. Ora spengo la musica, aggiusto il cuscino. Silenzio.
Anzi non del tutto, silenzio e dolore, e il dolore, vedete, per chi vi ha dimestichezza, ha un suo suono, che somiglia, se vogliamo, a una linea viola elettrica che pulsa assieme ad esso ed emette un ronzio vertiginoso, a tratti strangolato. Ora siamo io e questo suono terrificante. Fuori, nessuno passa.
Provo a girarmi di fianco e a dormire. Ah, se solo notti come queste valessero a conquistare qualcosa come un paradiso o una vita ulteriore. Ma non c'è premio per i viventi, neanche la consolazione di aver partecipato.

È il giorno dopo e sto meglio, la febbre è passata. Ho scritto tutto su carte e cartine da ricopiare, certe cose sono completamente deliranti. Incredibile, persino le emorroidi mi danno il delirio. Mi sono svegliato, mi sono alzato, e ho iniziato a parlare da solo: mi raccontavo, ridendo, di quanto faccia schifo questa casa, proprio come lo si racconterebbe a un turista in visita: prego, venga, ecco qui le foto sfocate, noti pure le cornici troppo grandi e il fastidioso bordo bianco che emerge sotto; qui può ammirare il divano sfondato e qua la libreria fatiscente; se vuole seguirmi le mostro l'angolo delle icone religiose, lì c'è proprio da sbellicarsi.
Basta, era un attimo di buonumore da sfruttare, quei primi 20 minuti appena sveglio la mattina. Se non c'è nessuno in qualche modo devo sfruttarli: poi è tutto un calo di energie. Mi sono divertito però.
Ora torno serio, mi lavo e prendo le medicine. La nottata non è stata così male, e poi ci tengo a conservare memoria delle mie notti più terribili. Di tutte no, sarebbe impossibile.

mercoledì 26 agosto 2015

Sto impazzendo


Io in un momento di serenità mentale
Da qualche giorno mi pare di star diventando pazzo. Vedo ombre fuggirmi accanto, macchie nel cielo; rumori graffianti si insidiano nei miei orecchi.
Oggi me ne stavo tutto ben tranquillo in cucina, per dire, dato che mi pare significativo, pulivo e rassettavo, così, senza niente di particolare in testa, e com'è come non è mi viene in mente un tale che conosco, e subito me lo immagino nell'atto di provocarmi; allorché, badate bene, sempre mentalmente, mi figuro a tenergli testa, e in men che non si dica giù schiaffoni e promesse di morte, tanto che alla fine volevo tagliargli la gola - e a occhi sgranati fisso i piatti, i piatti! Il tizio non c'era, ma era come se ci fosse, anzi, se ci fosse stato. La rabbia in corpo era tale da immobilizzarmi, sicché mi chiesi: cos'è stato? e già ero lì a immaginarmi dell'altro, in un giorno passato, dove col tizio c'erano altri figuri, e mi vedo pur io, così arrossato e nervoso da tremare in ogni parte del corpo, e dico: tu cosa? tu cosa fai?! E lui: io faccio questo e quello e non mi sta bene!
Non ti sta bene cosa non ti sta bene, eh? cosa?!
Quello lì e pure quell'altro, mi dice.
Ma allora io ti ammazzo a te! guarda che ora ti ammazzo sul serio!!
E tremo tutto, anche ora tremo. Mi incazzo da solo immaginando situazioni che richiedono una violenza inimmaginabile, in testa ho solo minacce di morte.
E la ragazza che vedo passare tutti i giorni? Ah sì, quella lì, si capisce, non vede l'ora di venir legata e portata in cantina. Le si legge in faccia che vorrebbe proprio una brandina nella grotta di tufo, tra le conserve e la birra. Ma guarda un po', vuole vivere con me, la tipa. Vediamo cosa potrei farle...
Sul collare mi pare ci sia poco da tergiversare, e anche una veste da camera le ci vuole. Una veste da grotta. Il tufo non regge molto, la catena sarà bene fissarla su qualche roccia. Che prenda o meno a volermi bene, col tempo si vedrà; ad ogni modo bisogna che la faccia mangiar bene, una donna anemica perde facilmente l'umorismo. Nei primi tempi potrebbe aver nostalgia dei suoi amici e parenti, per quanto la cosa mi paia oltremodo assurda. Sarebbe il caso che la distragga con qualcosa da leggere di modo che non stia troppo a pensarci. Per lavarla poi non so, a dirla tutta potrebbe vivere così poco da non esserci nemmeno il bisogno di portarle dell'acqua. Chissà come finisce, è talmente un'incognita che finché non ci provo non lo saprò mai. Certo che se becco quel tizio, ah! mi vuol proprio provocare quello, tanghero che non è altro, ma se lo piglio... Sarà meglio che non mi si ponga più davanti.
Ancora non mi conosce quello, ah sì non sa chi sono.
A proposito di non sapere, ho smarrito una certa cosa, una robina piccola ma di ottima fattura che porto sempre con me. Non serve a nulla in particolare, almeno così mi pare. Non ricordo esattamente cosa sia, mi pare una chiave o una qualche cosa che luccica.
Comunque non importa... non... ci vorrebbe qualcosa da bere. O magari un ghiacciolo, sì, un bel gelato freddo, rinfrescante, corroborante; meglio ancora sarebbe un liquorino, una vodcuccia. Oibò, mi andrebbe proprio, ora che ci penso, di ubriacarmi; non di bere così tanto per, un sorsetto e via, no, bere fino a non capire più niente, finché non viaggio attraverso la materia, e tutto gira, gira, colori non ce ne sono più, e si preeecipita verso il nulla, come da una stella all'altra, e voci sommesse danzano all'intorno, voci che diventano piste di preferenza da seguire, e poi lucine, lucine etiliche nell'aria, come magie preziose, gemme incastonate nel nero che si spalanca sul baratro. Una cosina così, per rilassarsi. Una sborniuccia...
Un'abominazione della mente, diecimila eoni di sbornia! Salute Vodka! Ave Fernet! Yog Whisky! Heil gin! Un pantheon di alcolici, una cosmogonia etilica sognata in un collasso.
Dicono che l'alcol fa male ma sapete una cosa? non è vero niente. In realtà la maggior parte delle cose indicate come dannose fanno un gran bene. Perdere ad esempio, o venire umiliati. Io, parola mia, nell'umiliazione, nell'apparire completamente sputtanato provo un piacere ditirambico, l'esaltazione nel non essere riuscito e dell'aver deluso: che grande gioia deludere gli altri, che piacere indignare gli altrui schemi mentali. Alfiere di tutte le sconfitte, prodromo della mia sventura, quale gioia mi reca farmi esempio vivente dell'imperfezione del creato. Epicentro di ogni errore, buco nero per i raggi di una vita migliore, assorbo e trasformo le sterili visioni altrui per risorgerle sotto forma di lutti tarati sul mio cadavere metafisico.
Ma via, fa lo stesso. Ho chiesto a una ragazza di farmi un quadro da appendere in camera sopra il letto. Il soggetto è la morte. Ci metterà un paio di settimane ma a quanto vedo i risultati sono già discreti. Ecco cosa mi serve: un approdo eventuale. Qualcosa a cui correre incontro nel tempo che giustifichi l'andare avanti - o in qualsiasi direzione vada il tempo.
Per dire - si fa sempre per dire, eh - ma che forse ci si può invaghire di una donna, del suo bel viso, di tutte le sue cosine apposto? Innamorarsi di un carnaio, di un ossario vagante? Eppure eccomi lì, già mi vedo: che belle labbra che hai, che bei dentini: vorrei un bacino! Puah, mi faccio pena da solo, eppure... Del resto non ho il fanatismo dei santi né l'esaltazione degli idealisti: m'è toccata solo la lucidità dei dannati, senza nemmanco la compagnia di qualche demonio ad arrostirmi il muso.

No, no, non ci siamo. Mi pare, ecco sì, mi pare di star bene - ma per bene intendo altro, intendo come non esserci - solo quando ascolto Bach. I suoi concerti per clavicembalo sono la cosa che più somiglia alla complessa solitudine di Dio, al pulsare impazzito della vita: un supremo atto d'amore senza amante. Una benedizione giunta dal vuoto. L'approvazione delle galassie.
Tutto il resto mi annoia. Anche il lavoro manuale, che molti dicono sia rilassante, mi stufa e m'innervosisce. Allora mi siedo e guardo i cadaveri passare, loculi su loculi di foto illuminate al lucore di lucine esangui. Cimiteri andanti. La decomposizione è l'unica visione dell'avvenire che non mi strangoli: qualsiasi altra mi pare assurda, come a dire che vedremo dei draghi volare. Il programmare, poi, cos'è se non una scommessa contro l'evidenza delle cose, un azzardo senza carte in mano? Solo le religioni e il nichilismo mi smuovono quel tanto che basta da avere la forza di farli scontrare. Naturalmente non arriverò mai a niente, ma a cos'altro, realisticamente, dovrei aspirare?
Se solo Dio, un Dio qualsiasi esistesse! Se non fossimo soli, tutti quanti, a rimuginare, sonnambuli senza palpebre, postulanti di un tempio in fiamme. Dioniso! Apollo, dove siete?
Favore concesso ai valorosi della rinuncia, dove vai?
Il bacio di una Lamia a prosciugarmi; dolore di tutte le lacrime portami via.
Chissà poi cos'era quell'oggettino che ho perduto. Chissà.




domenica 16 agosto 2015

Se tutto andrà bene presto saremo morti



All'inizio siamo tutti allineati, non coltiviamo alcun dubbio. Prendendo confidenza col sistema iniziamo a capirne i meccanismi, sviluppando un'attitudine all'indignazione. Raccolta dalla fazione più accessibile, questa si trasforma in progressismo di rottura - partigianeria di sinistra. Dura il tempo di marcirci addosso, e subito il fetore ce ne rivela le intenzioni: creare non-morti. Nel prendervi le distanze precipiteremo un po più in là del banale, approdando a mete via via meno imbarazzanti e più sincere. Così, inferiori per eccesso, si abbraccia l'emarginazione diventando di destra. Da qui all'apocalisse il passo è breve, solo  un paio di abissi più in là.
Ma cosa abbiamo fatto, non ci siamo forse spostati di notte da un nulla all'altro?

Non mi interessa più la politica né lo studio dei problemi umani: neanche mi interesso alla scienza dello star meglio.
Solamente mi è caro definirmi all'interno del dolore, e condannare qualsiasi illusione di felicità.

Non c'è nulla di peggio della compagnia di chi non sa bere. Inadatti al controllo delle profondità, la minima quantità di alcol ne fa emergere il lato ancestrale: quello delle scimmie.

L'uomo non accetta che la sua volontà, slegata dal corpo, non abbia alcun potere. Per questo si affida alla preghiera dandole chissà quale forza, per questo ama fare il volere di Dio.

Il talmud dice che i sogni mattutini si avverano sempre, e stamattina ho sognato la mia città attaccata dalle milizie islamiche. Arrivavano camuffati da pacifici lavoratori per poi iniziare a sgozzare persone; nella seconda parte del sogno ero un cecchino e sparavo loro dal terrazzo.
Uno dei prigionieri dopo la cattura mi ha spiegato che "non c'entra niente la religione, noi veniamo per le vostre donne. Le nostre sono brutte, le vostre tutt'altro, e voi non le scopate più".
Poi, com'è ovvio che sia, quel prigioniero è stato ucciso.

Col pensiero siamo tutti assassini; non esiste nessuno che con magistrale cattiveria non abbia eseguito condanne a morte inaudite con la propria immaginazione. Se si traducessero in atti l'umanità svanirebbe in pochi istanti.

Quando la gente mi racconta i suoi progetti per il futuro mi sembra di ascoltare storie fantastiche su draghi e altre creature magiche. Non capirò mai come si possa credere in certe cose.

Ho dei ricordi meravigliosi dei miei viaggi in montagna da bambino; eppure, più che la maestosità delle alture, o la vastità degli spazi, a tormentarmi sono le immagini dei girini schiacciati in un lago, gli uccelli morti di freddo, e le farfalle, che vivevano solo un giorno, e poi sparivano, e non capivo come facessero.

La narrativa fantastica è una delle poche cose che riesca a darmi conforto; in un racconto di Conan mi sento vivo e pronto ad affrontare qualsiasi orrore. Del resto, non posso dire lo stesso di questa vita qui, la quale acquista senso solo nel momento in cui la si evade o la si rifiuta.

Basta vedere una cartina dell'universo per risolvere qualsiasi problema.

Per gli orientali il cristianesimo è fatto solo di vampiri, castelli gotici e demoni in armatura. Decisamente lo sopravvalutano.

Il mio animale totem dev'essere certo un gufo: stare fermo ad osservare dal buio mi riesce benissimo.

Il Nietzsche profeta della volontà di potenza mi annoia; avrebbe dovuto scrivere maggiormente della sua solitudine invece di infestarla col fantasma della vitalità.

Per quanto lo abbia compreso intimamente e sia in contatto con persone che lo aborriscono, non riesco del tutto a disprezzare il cristianesimo.
Fratello minore del buddismo, incapace di immaginare un'esistenza al di là del dolore, la sua specialità è di crogiolarvisi dentro, di immaginare un'esistenza al di qua dell'umano.
Fallimento senza eguali nella storia umana, utopia anti-vita, le mie simpatie non potrebbero non andare a questo culto disperato, a una così grande esegesi dell'infelicità.

Gli unici sogni lucidi che faccio sono terrificanti apocalissi piene di zombie. Se solo potessi farne a mio piacimento non farei altro che dormire.

Per quanto mi sia lambiccato a trovarne di nuove trovo che la paura che viene dall'incubo-trauma sia la più completa emozione umana: in essa si concentra tutta la terrificante esperienza del vivere fino ad affacciarsi un tantino oltre la morte. Il risveglio è sempre una delusione.

Tutti soffrono, nessuno vive bene. La vita è una maledizione. Eppure è anche qualcosa di unico e irripetibile; vivono, in ogni attimo, tramonto e alba, felicità e dannazione. Dilaniati dall'evidenza che toglie il respiro, avrebbe forse più senso perdersi nel sorriso di una ragazza, nel gioco di un momento.
Quale liberazione sapersi niente. Non resta poi che fingersi qualcosa.

Grazie a Pessoa ho scoperto la metafisica quotidiana, la prosopopea del banale. Più che scoprirla ho capito che poteva essere interessante.

Quale enormità saper scrivere e regalare immensità a chi legge; e pensare che chiunque potrebbe farlo, e se non tutti molti: bisogna solo avere voglia di contribuire alle cose. Aver voglia di disperarle.

Le stelle sopra di me; l'abisso dentro di me.

Basta pensare di dover morire, che non esisteremo mai più in tutti i prossimi universi, e subito passa la voglia di fare alcunché, soprattutto di farci del male.

Sento già l'inverno che viene, le desolazioni e la solitudine delle cose. Covo in me un gelido vento, e l'immobilità di chi muore di freddo.

Tutto esiste solo nel nostro cranio, al di fuori solo buio. Ecco perché i teschi sono così evocativi: vederne uno è come guardare tutti i mondi.

Ma io sto solo sognando, in questo eterno dipanarsi di sciocchezze e reazioni atomiche.

Se mia moglie fosse una strega saprebbe tutto, anche come morirei. Glielo chiederei subito, e poi attenderei bevendo.

Tutti gli orrori nascono in casa, tra la famiglia. Quanto vorrei essere nato nella tana di una talpa, a scavare, scavare, scavare fino a perdermi nella terra.

La poesia è la misura delle nostre malattie; più siamo poeti, più la vita non fa per noi. Il vivere, discesa nell'immediato, non si addice alle cospirazioni dell'animo in tormento.

Morire non fa male se ci facciamo nave, e l'infinito si riassume in tanti porti, franchi, dove anche il più maledetto può approdare.

Cantano le rane, borbottano i rospi; sviolina la natura, crea sinfonie di libellule e liane, radici e insetti: lungo il fiume si fa della grande musica.

Nel massacro dei popoli europei, la prima guerra mondiale, per infondere coraggio ai soldati davano loro un bicchiere colmo di grappa. Capaci in tale modo di farsi dilaniare in un grido di battaglia, non si capisce perché lo stesso trattamento non venga usato oggi per chiunque si diriga verso il moderno squartamento quotidiano.

Domani morirò, oggi vivo: che senso ha questo andazzo, questa corrente vitale?
Andiamo in guerra, odiamo, detestiamo qualcosa, lottiamo, fuori le spade! La vita è guerra. La pace è morte.

I pescatori notturni hanno capito tutto; essi, dagli scogli dell'esistere, cercano il tormento che abbocca. Squartatori per vocazione, attendono la loro vittima dalle onde del caso. Ma era meglio naufragare subito.

La cicala scandisce le ore del giorno; il rospo ammorbidisce quelle della notte: vorrei una bestia che ricordasse l'assurdità del tempo, e me lo rendesse più dolce; una bestia anestetizzante.

Il disgusto si porta via la mia vita, sebbene gli abbia detto che l'universo non ha fine. Non vuole sentire ragioni.

Mi addormento e sogno di non esserci, di non esistere. Poi dal sonno il mio non esserci sogna di essere, e allora mi sveglio. Persino il mio inconscio mi condanna all'esistenza.

Volammo tutti al centro dell'universo: le stelle fecero di noi una grande luce.

Vivere sapendo che non serve a niente; amare conoscendo i limiti della specie; farsi degli amici, noi, condannati alla cenere, noi che precipitiamo, noi, Icaro di un sole nero, cadiamo nel mare del mito, e che ci pensino le leggende a narrarci, sempre che qualche civiltà aliena sappia leggerle.

Ho sentito che l'universo ha iniziato una lenta vecchiaia eterna. A quanto pare le galassie vanno esaurendosi... Eppure io sento ancora il bisogno di andare su youporn.

L'amore non corrisposto è quello che più ci avvicina alla verità. Intrappolato in un tormento senza vie d'uscita ha come ovvia conclusione la riconsiderazione dell'utilità di vivere.


Ho deciso che posso benissimo perdermi le prossime eternità senza troppi rimpianti.

La vita è niente. Esiste solo il dolore. Se la sessualità è in grado di farcelo dimenticare è giusto proibirla.

Nessuno può permettersi di dare consigli se non si è mai contorto di dolore su un letto desiderando di non esistere, di non essere mai nato. E in quel caso non se ne ha più alcuna voglia.

L'unica cosa che non mi sento di criticare del cristianesimo è la sua forsennata sessuofobia.

Pur non credendo a nulla tutte le religioni mi interessano fino alla commozione. Non esiste rimpianto più grande di Dio.

Non posso fare a meno di immaginare il nirvana senza pensare a un viaggio nell'iperspazio.

Se nella vita non posso fare il negromante allora non vale la pena di fare alcunché.

Dov'è finita l'antica sapienza umana, quella dei popoli che piangevano per la nascita dei figli, e invidiavano chi era morto?























sabato 8 agosto 2015

Riccio Capriccio 1 - Strani incontri

Riccio Capriccio decide sul da farsi



Riccio Capriccio dondolava goffo verso la stradina di campagna, tagliando pigramente il campo degli ulivi secolari; e ogni tanto si guardava in giro per cercare qualcosa da mettere sotto i denti. Poco prima d'esser giunto all'incrocio del grande abete notò un topolino che guizzava lesto fuori e dentro della sua tana, e poi un altro, e un altro ancora, sicché parevano traslocare i loro beni dal vecchio posto al nuovo; presi com'erano non s'accorsero di Riccio, che anche se goffo ci sapeva pur fare, e dopotutto non si sopravvive centocinquanta anni in natura se non si sa badare a se stessi: tanto egli era vissuto.
Così, senza che se ne accorgesse, ne prese uno poggiandogli una zampetta scura sulla coda. Era tutto scuro Riccio Capriccio, con un muso sudaticcio e le spine dalla punta bianca; non che fosse un bel vedersi, anzi, quasi tutti lo consideravano bruttino - aveva però tutto ciò che gli serviva.
Pigramente, col fare suo un poco capriccioso, diede al topolino che teneva per la coda un morsetto in testa, si sentì un ploff e uscì qualcosa; leccò quel che colava, ed era rosa scuro, con venature nerastre già sporche di terra: gli altri topolini terrorizzati svanirono. Poi Riccio mangiò lentamente il resto, si stiracchiò un po' e prosegui il suo cammino.
Arrivò sulla stradina di campagna nell'ora più calda del giorno, col sole a raccogliere i silenzi del mondo tutt'intorno. Era troppo presto per le creature che escono dalla terra - solo alcuni topolini sciocchi saltellavano d'intorno. Con la sua andatura dondolante Riccio scese fino al fiume.
Qui ovunque erano pietre e legni sbiancati dal calore, ché di acqua ve n'era poca tutta racchiusa in piccole polle. Ogni tanto qualche grosso uccello bianco scendeva a bere; persino i gabbiani si spingevano fin lì dal mare, poiché vi erano grossi rospi succulenti e viperelle da beccare.
Prendendo la via meno ardita, evitando i perigli del campo aperto, Riccio trotterellò fin giù lo stagno denso d'ombre, dove assonnate le rane borbottavano in coro: "non c'è nessuno?", diceva il grosso Rospo, "nulla giunge dal bosco?", gli facevano eco le rane, e tra un gracidio e l'altro tenevano d'occhio le pulci d'acqua che volavano sulle acque limacciose.
Riccio Capriccio, capriccioso com'era, volle mangiarsi una rana, per cui s'ingegno a cantare lui pure; avvicinatosi un poco disse: "non c'è nessuno", e ancora: "nulla giunge dal bosco", e le rane, e pure il grasso Rospo, saltarono qui e là per afferrare una pulce da mangiare, e tanto saltarono tranquille che una finì sulle spine di Riccio e immediatamente ne fu dilaniata. Poi Riccio senza fretta prese a mangiarla, e non appena lo scorse il Rospo si sentì questo: "attenti al Riccio", e le altre rane dissero "si sta mangiando una di noi!".
La rana che veniva mangiata, ancora viva, rispose loro: "che male, che male! vorrei già esser morta!".
Poi Riccio Capriccio se ne andò via, lasciandosi dietro il coro indignato dei figli del fiume.
Il crepuscolo allungava le finora timide ombre, e nel cielo si spandeva un lucore anemico. Riccio Capriccio pensò bene di andare a prendere un po' d'aria su colle vento, giacché a quell'ora vi si poteva meditare con gran sollievo.
Ma colle vento era occupato, e un grosso micio nero come la tenebra vi era seduto proprio al centro.
- Chi sei che vieni qui a disturbarmi mentre penso alla notte che presto ci cadrà sopra? - disse il micio a Riccio.
- Sono Riccio Capriccio, ed ero giunto qui in cerca del vento fresco - rispose egli al gatto.
- E invece hai trovato la tua morte, preparati - e con un balzo gli saltò addosso.
Subito Riccio capriccio si chiuse e divenne un pugno di aghi e dolore, così stretto che nemmanco il naso gli si vedeva. Sembrava una castagna crudele.
E il gatto disse: "Ma che modi, volevo mangiarti e invece mi son punto! Potevi dirmelo che eri un riccio!".
Allora Riccio si riaprì e guardando in su gli sorrise birbo, poi disse: "andiamo nella notte, scommetto che anche tu hai un capriccio".
- Lo puoi ben dire - gli rispose il grosso gatto nero. E insieme si incamminarono sotto le prime stelle; la luce del cielo si rifletteva sulle viscere della rana, ancora appese agli aculei di Riccio.