Verso la fine del primo dannato decennio di questo nuovo fottutissimo millennio passavo le mie notti-incubo in una soffitta. Avevo, questo sì, una stanza mia, volendo. Ma la soffitta era meglio.
Intanto non ho mai sofferto il freddo e gli spifferi non mi infastidivano; poi, cosa volete, ho sempre avuto un debole per ciò che cade a pezzi, per il fatiscente; e inoltre, cosa da non sottovalutare, lì non mi dava noia nessuno. Ero per così dire lontano da tutto.
Avevo una branda e un PC. All'inizio sedevo su una sedia per usare il PC. Poi per far prima c'ho piazzato direttamente il letto davanti. Era un letto buono a tutto, a qualsiasi posizione. Mi ci sedevo con un cuscino dietro, mi ci sdraiavo, volendo ci stavo bene pure colle ginocchia infilzate nel materasso.
La stanza va da se che non fosse proprio pulita. Oddio, a dire il vero all'inizio la curavo, nei ritagli di tempo spazzavo e pulivo. Poi, piano piano, con l'avanzare del mio incupirsi, me ne sono interessato sempre meno. Un bel giorno si ruppe l'unica luce, e da allora fu sempre buio.
Avevo una abat jour e facevo tutto con quella, ma la sua luce era poca cosa, così che, dall'altro lato della stanza, era sempre buio, una sorta di lato oscuro della mia stanza, lato che a volte mi sorprendevo a fissare come se mi aspettassi di vedervi strisciare fuori chissà cosa, chissà chi.
E del resto a strisciare nella mia stanza avrebbe avuto, qualsiasi cosa fosse uscita da quell'angolo catacombale, il suo bel daffare, per motivi che vado scrivendo.
All'inizio furono gli estatè. Usavo molto il pc, appena tornavo da lavoro mi mettevo a fare cose, quasi sempre a giocare. Acqua non ne bevevo, e anche il cibo a dire il vero lo inseguivo poco. Mi nutrivo al 50% di estatè, con quel suo bel succo micidiale tutto zucchero e ultra-caffeina. Non avevo tempo di alzarmi, a malapena accettavo di dover andare a fare pipì. Così bevevo e appoggiavo, bevevo e appoggiavo. Era una droga quel dannato tè. Ricordo nitidamente come, una mattina assolata, così chiara che quasi si scorgeva il fondo del lato oscuro della stanza, mi alzai sul letto e vidi qualcosa come cinquecento brick di estatè appoggiate ovunque, sulle mensole e per terra, accatastate dirimpetto al muro e tutt'intorno alla tastiera. Faceva caldo e non avevo tempo di pulire: in quel tempo puliva qualcun'altro.
Poi venne il periodo della birra e delle mangiate notturne.
Compravo delle scadenti lattine da discount e appena tornato a casa mi mettevo a vedere film in streaming tracannandole. Verso le due di notte scendevo a farmi un pacco di tortellini rana con un sughetto tutto aglio, pomodoro, peperoncino e una valanga di parmigiano. Li divoravo davanti al PC e poco dopo svenivo nel letto. Il giorno dopo era come non aver dormito affatto, ma non mi sono mai distinto per essere uno che tiene a brillare sul lavoro. Difatti non molto tempo dopo mi licenziarono.
Ma non per la mia attitudine allo zombismo, avevo solo dato un paio di schiaffoni a uno.
Così, senza l'incombenza quotidiana dello schiavismo lavorativo, ebbi modo di dedicarmi con più passione alla mia soffitta.
Con tutto quel tempo libero la prima cosa che feci fu di cessare immediatamente qualsiasi velleità sanitaria. La pulizia era un demone ricacciato dentro qualche cancello degli inferi da non nominare mai più. Ragnatele, polvere e bottiglie di birra. Credo di averne ammucchiate a centinaia, dal letto alla porta c'era un sentiero, tutto all'intorno bottiglie, la valle dei vetri. Al buio sembravano tanti fanti pronti alla guerra, e arrivavano fin laggiù, al lato oscuro, scivolando in una penombra inquietante. Ogni tanto se ne muoveva una senza cadere. Chissà cosa ci passava accanto.
Poi venne Monte Vodka. Dapprima furono solo alcune bottiglie vuote appoggiate al muro, in mezzo alla stanza, tra la luce della abat jour e la fitta tenebra del lato oscuro. Col tempo si accrebbe, le notti una dopo l'altra donavano un pegno alla montagna. Divenne possente e vasta, a tratti in ordine, su altri versanti prossima alla valanga. Davanti a Monte Vodka un altopiano di bottiglie di birra vuote, rifiuti, scatarrate e cicche di sigarette.
Come un'isola umana in un mondo alieno il mio letto fungeva da salvagente e da nave. Il sentiero verso la porta si faceva via via sempre di più difficile percorribilità.
E in questo modo le cose andavano avanti, senza che me ne importasse nulla. In camera ci andavo solo per dormire e usare il PC. Bevevo e lasciavo tutto in stanza. Sacchi entravano e mai nulla ne usciva.
A un certo punto iniziarono le frane.
Non so bene come successe, tant'è che spesso la notte mi destavo, nel mio sudicio letto, e udivo il vetro scorrere e spostarsi quasi fosse vivo. Sia chiaro che anche di quello me ne fregavo, dopotutto può mai interessarsi di qualcosa qualcuno che non si rifà il letto da sei mesi e dorme in jeans? le coperte al massimo le rimescolavo come si fa con la polenta.
Nella soffitta non veniva mai nessuno di esterno alla casa. A un certo punto, più o meno da quando iniziarono le frane, smisero di venire anche gli interni.
Rimasi solo in un posto che ormai, semplicemente, aveva raggiunto un tale livello di sozzura, di disordine e di cumulazione di rifiuti da essere irrecuperabile. Solo un incendio o la detonazione della casa avrebbero potuto sanarlo.
Fu allora che mi spostai al piano di sotto, lasciandomi dietro le mostruosità di tre anni scellerati ma bellissimi.
Potei farlo grazie alla rottura del mio PC. Ricordo ancora quando avvenne.
Stavo scolandomi un cartone di tavernello mentre guardavo qualche oscenità in streaming, e all'improvviso la macchina prese fuoco. Era gennaio e c'era un metro di neve fuori dalla porta.
Pensavo di avere un infarto, sentivo un gusto metallico in bocca. Poi mi comprai un portatile, e grazie a quello potei evitare di tornare spesso lassù.
Fuori dalla soffitta c'era un vasto terrazzo completamente in abbandono. Lì iniziai a spostare le bottiglie che all'interno non sapevo più dove mettere. Pensavo di buttarle via, prima o poi.
Ma non lo feci mai. Quando ce ne andammo da quella casa il proprietario ci chiese, cortesemente, di sgomberarla e riconsegnarla pulita.
A modo mio lo feci, spazzai e buttai fuori la vecchia branda e il PC ancora annerito dalle fiamme. Tolsi persino lo stereo che un giorno avevo lanciato contro il muro, e una catasta di vecchi fumetti imputriditi dall'umidità. Per il rigagnolo scuro in terra nello spazio in cui passava il fiume soffitta (ci pioveva dentro) feci il possibile, ma un segno di marciume rimase.
L'unica cosa che lasciai furono cinque o seicento bottiglie di alcolici, tutte ben bene ordinate lungo il muro, e una grossa scritta sul muro, un colossale PORCODIO, non disegnato ma scavato direttamente nell'intonaco. Il tizio provò a dirmi qualcosa quando lo rividi, ma chi cazzo l'ha sentito.
Andarmene mi dispiacque, ma in fondo bisogna sapersi lasciare alle spalle i propri ricordi.
Da allora non ho più scalato nessun Monte Vodka, e a volte quella lurida topaia mi manca.
Ricordo che una notte me ne stavo sdraiato sulla brandina a bere birra ascoltando musica. Pensavo a una tizia che mi piaceva a lavoro e che progettavo di avvicinare. Mi dicevo che sarebbe passata anche quella cosa come passa ogni dolore quando sentii il solito trambusto venire dal lato oscuro e mi voltai a guardare. Non vedevo niente inizialmente. Poi qualcosa si mosse, fece dindinnare le bottiglie come tante campane pazze per fermarsi a un angolo, a osservarmi.
Ma cosa sei, tu, che vivi nel buio e mi guardi star male? Vieni, vieni avanti.
Non so cosa avrei voluto che fosse, a volte desideravo uscisse una bella ragazza, a volte qualcosa che mi divorasse. Quella sera volevo decisamente una ragazza che mi divorasse.
Ma non uscì proprio nulla. La cosa così com'era venuta sparì senza una mossa. Magari è ancora lì o forse è morta.
Ma sì, infondo potrebbe trovarsi ancora nella vecchia soffitta e aver ricostruito Monte Vodka.
Qualsiasi cosa fosse qualcosa da me deve aver imparato.
Spero non tutto.
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