Io mentre scrivo questo post |
La mia percezione della vita è questa, ossia come se tutti quelli che mi sono vicini, che mi circondano, e che mi sono in qualche modo utili o cari stessero per morire. La mia percezione della vita è un cimitero probabile, un assedio di lutti incombenti.
Ai miei parenti, amici e conoscenti, non do loro che pochi mesi di vita; tutt'al più qualche anno. Ma sono anni regalati, a cui non credo fino in fondo. Nel vedere una persona a me cara in vita e in salute mi sbigottisco, non capisco come possa non morire a breve o stare già molto male. Distribuisco malattie a tutti e per ognuno ho un raffinato piano di estinzione a breve termine, di doverosa dissoluzione.
Allo stesso tempo per le persone che mi sono indifferenti, quelle perdute, quelle andate, per loro prevedo l'immortalità. Una vita eterna e sicuramente noiosa.
Quel vecchio amico che non vedo da anni, con cui non mi sento più: sicuramente vivrà in eterno.
Per contro non posso capacitarmi, sebbene debba precisare di non aver una reale propensione all'affettività, dicevo, non posso capacitarmi che ad esempio mio padre sia ancora vivo. In verità egli dovrebbe morire e c'è qualcosa in questa e nelle altre morti mancate che mi indispone a programmare qualsivoglia cosa.
Da bambino ero convinto che avrei perso i genitori intorno ai 20 anni. Stimavo possibile morire giovane, anzi lo ritenevo necessario. Non mi sono mai dato una lunga prospettiva vitale.
Una signora, una volta, mi disse: non invecchiare mai. E che, forse si può, senza morir giovani?
Ma io già prima ne ero convinto. Ad esempio, ecco, ho questo amico, che conosco da anni, e che frequento. Bene, continuamente immagino il suo funerale, che lui muoia e vedo me, in lacrime, davanti al suo cadavere che mi lagno, dico che proprio non è possibile, che non doveva accadere, ma ormai è accaduto, e allora mi sciolgo in pianto. Per quanti si sia lì non c'è modo di consolarci.
Questa aspirazione alla frattura interiore, allo squartamento emotivo, al pianto come regione abitabile, così cristiana, così apologetica del dolore, questa esegesi dell'irreparabile, mia vocazione al lutto ragionato, alla disperazione composta, che cosa è, di dove nasce?
Con mio zio vado abbastanza d'accordo. Mi ci trovo bene insieme. Non passa giorno che non lo pensi morto. Dovrebbe appartenere al nero coro dei defunti da anni. Oh ma poi non mi interessa davvero sapere perché mi accade questo, mi piace che ci sia e basta. O forse non è neanche piacere, semplicemente è così e lo è sempre stato.
Perché fare con le proprie manie raffinati esperimenti alchemici? La psicologia... lambiccamento estenuante di tutti i problemi, bah.
Sono sempre insoddisfatto da tutto, e mai nulla mi sta bene, né come ci si comporta con me, né come mi si evita: tutto mi è insopportabile, perché non esiste un modo di comportarsi che possa conciliarmi con la vita, e qualsiasi cosa mi sembra inefficace nell'esprimere l'odio che ho per essa e che gli altri non sanno cogliere. Così divengo intrattabile, e chiunque è mio nemico: una landa di sfide al buio - Signori, vi odio tutti! Alle armi! Niente può ammorbidirmi, perché sono nato! E la mia nascita è la tempesta e la grandine di maggio, tutte le sfortune del mondo, e tutti devono pagarla, dovete pagare il mio essere nato, dovete scontarlo soffrendomi e odiandomi voi stessi; perché io vi odio, vi odio tutti. Tranne le belle ragazze: ma per il resto, tutti! Anche le belle ragazze!
L'inferno è un luogo in cui si va tutti d'accordo uniti dal dolore, per sempre. Il compimento della società perfetta, quell'utopia che le ideologie hanno solo sfiorato l'inferno l'ha realizzata. Quanto si vede che non vi siamo mai stati. Siamo invece stati in paradiso, e forse è un errore porsene un altro davanti. Il più grande errore del cattolicesimo è di aver creato un paradiso che è una immensa rottura di coglioni: cantano alleluia per l'eternità!
Ma che cazzo, allora è meglio l'inferno.
Al piacere che ho di odiarvi. Di odiare me stesso, perché in fondo chi disprezza la vita odia innanzitutto se stesso. Mi crogiolo in quest'olio bollente, mi ci imbalsamo di bruciature: arrossato e dolorante sto fermo e zitto a sentirlo farmi male, a sentirla, la vita, che brucia, che mi ustiona, io sotto le mura dell'esistenza, respinto da catrame bollente. Sono qui, voglio salire, saccheggiarti!
No! la vita mi respinge, mi tira l'olio caldo, ha dei provetti arcieri che indovinano le mie debolezze, che le perforano, le fanno sanguinare. A me un'orda di mongoli, penetreremo.
E poi saccheggerò me stesso, per avere la ricchezza di abbandonarmi e fuggire altrove, Magari in un altro delirio consapevole, anch'esso in fuga da chissà cosa. L'inferno.
E dopotutto sono un Necromante. Ma sì, quest'odio, l'ossessione della Morte... un cadavere è il mio famiglio. Ecco perché me ne servono, di cadaveri. E inconsciamente ho sempre scelto quelli che ritenevo conoscere meglio, opportunamente ne ho previsto la morte. Nessuna si è ancora realizzata, e in fondo l'arte di governare i non più vivi ancora non mi appartiene. Ma che importa, ciò che conta è la propensione, l'attitudine mentale. Folgorato dalla Morte e dal Sole come l'antico Egitto mi preparo a un'estate che sia in qualche modo giustificabile da se stessa. Ecclesiasta tombale, mago delle forme vuote, attingerò a quello che ancora non mi è dato di sapere, così da avere il mio esercito silente, i miei morti instancabili.
Ma ora basta, è tempo di andare a riflettere su chi morirà, quando, e come. La vita è tutta un cimitero pieno di cadaveri sepolti male, scomposti sotto un velo di terra.
Guardate come emergono le ossa gialle, un ossario è il mio orizzonte.
Non riletto.
Nessun commento:
Posta un commento