domenica 10 maggio 2015

Io e il mio gatto






Francesco, o Franceschino per gli amici, dato che è molto basso e ha una personalità ininfluente, vive e fa anche dell’altro in via delle vie, nei tempi altrui.
È un ragazzo qualunque, come chiunque!, e, dunque, possiede un pc, dei videogiochi, dei poster raffiguranti delle rock star più o meno morte e un gatto.
Il gatto si chiama Micio, anche se sua madre lo chiama Mimì; ha già qualche anno e la perdurata vita domestica lo ha reso apatico e poco socievole, oltre che grasso.
In autunno, quando la miseria dell’estate se ne va come dopo una lunga malattia e le giornate si lasciano mutilare anzitempo da un sudario oscuro, entrambi mutano, e la convivenza nell’appartamento, nelle ore in cui la madre di Francesco è fuori, si colma di tensione.
A Francesco, tanto per iniziare, dà fastidio il forte odore della lettiera di Mimì, che si trova in terrazzo e certo non si pulisce da sola. A Mimì, d’altro canto, il rumore della musica e la puzza di fumo recano non poco turbamento, ne disturbano i riposini e le lunghe veglie nel buio.
Per la maggior parte del tempo ognuno rimane nella sua stanza; Francesco nella sua cameretta disordinata e Mimì in camera di sua madre.
Succede, delle volte, per questo o quell’altro motivo, che i due si trovino a transitare in salotto, dove Francesco ha il cibo e Mimì l’ingresso al piccolo terrazzo dove è la lettiera.
Francesco è stufo del suo gatto, lo portò a casa che era ancora un ragazzino solare e aperto, prima che il suo carattere si incupisse, e la presenza dell’animale in casa – la sua indifferenza felina – fosse vissuta come una provocazione.
Francesco, a dire il vero, non si sente amato dal mondo, e la freddezza di Mimì glielo ricorda ogni momento.
Nel pallore crepuscolare di Novembre, dove nelle distanze fumose il sole si fa di rame antico per morire su paesaggi di metallo fuso, e le lunghe ombre che regnano accanto alle cose dopo il tramonto si uniscono nell’impero notturno, anche Mimì, il piccolo Micio, si sente solo.
Dal terrazzo fissa le genti passare, sciarpe e rami spazzati nell’aria come fossero parte della stessa cosa, colori morti che colano nel vento, e il suo sguardo si fa più spento. Chiunque ne vedesse la profondità ci indovinerebbe un pensiero, un’intelligenza consapevole che tutto esiste a stento.
Ora, Francesco, si sente molto solo. Sua madre non c’è mai e ogni suo pensiero è un incubo purpureo, come la violacea reminiscenza che sua madre neppure esista. Che nulla sia vero.
Di fuori, oltre la porta di casa, oltre il terrazzo, non c’è più un mondo vivo e accogliente: ci sono solo le stelle che attendono nel buio, e vuota notte dove fluttuare in eterno.
Forse Francesco è impazzito, questo mondo lo ha reso pazzo: o forse lo ha guarito! Ed egli ora vede senza illusioni l’infinito. E così non fa più niente Francesco, non cerca amici, non usa il computer, non può neanche morire perché che cos’è mai questo?
È forse vita o il sogno sconvolgente di un mostro?
Forse non è niente, o forse solo la pazzia è reale e non ci fa alcun male.
Ha deciso di uccidere il suo gatto Francesco, forse anche sua madre, ma sua madre non la vede da così tanto tempo… ma ora in casa c’è lui, sempre lui, Mimì, sul terrazzo, ma guarda dentro, e nello sguardo dell’essere umano che lo fronteggia coglie l’atrocità dell’esistenza, sua e propria, il rosso mare ardente di pazzia in cui la nostra vita compie il suo naufragio: e poi il silenzio.
Ma Mimì è stanco, la vita in ogni caso già lo abbandona, e poi lui è solo un gatto. O forse no e per un attimo pensa di lottare, in fondo ci si affeziona a tutto anche al dolore, e a volte si vive di più soffrendo che ridendo al vento. Ma non c’è tempo, Francesco vibra di furore, è già lì.
- Che bel gattino – dice, lo prende in braccio, accarezza la testolina.
- Hai fame, non è vero che hai fame? Ho costruito un posto nel mio cuore dove non soffro e resto sempre a galla, lo vuoi un po’ del mio amore?
Poi ci fu un po’ di casino, e anche la tensione non fece difetto. Mimì usò le unghie come meglio poté, tento davvero! Ma alla fine vinse l’amore, quello vero.
Poi Francesco si lavò per bene le mani, si pulì i denti, e con questi, piano piano, rosicchiando lentamente, staccò la coda di Mimi alla base, dopodiché prese a rosicchiarne l’ano, lentamente, con gusto, succhiando le pareti e mordendo anche del pelo. Divorato in buona parte l’orifizio, salendo e mordicchiando, leccando e succhiando, cominciò a spezzettare la base della spina dorsale e a ingoiarla, la parte bassa dell’intestino, le zampine fibrose piene di tendini e tutto il pelo. E Mimì era ancora vivo.
Poi anche Mimì si arrese e morì, ma il banchetto andò avanti, e con gran metodo Francesco divorò la pelle dello stomaco e i capezzoli rosei, le feci non espulse e i teneri piccoli reni, il fegato color ocra e i polmoni, il cuoricino ancora caldo, fino alla gola, i denti, le orecchiette, bevve gli occhi e trangugiò il cervello. Poi fece a pezzetti le ossa più grandi e mandò giù anche quelle. Per finire leccò da per terra l’urina colata durante la lotta, e così l’intero corpo del felino scomparve dentro Francesco.
Non attese sua madre, era sazio o solo stanco.
- Mi farò un viaggio tra le stelle – disse, con il viso sporco di sangue e feci.
E con l’agilità di un gatto, dal terrazzo senza mondo, si getto nell’universo.

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