Una volta qualcuno mi disse: tutto ciò che non dura per sempre è inutile. Gli risposi che anch'io la pensavo così, ma che fare, e che altro dire. Ce ne restammo così nel silenzio della nostra finitudine.
E così hai visto tutti i tuoi anni sprecati, pensavamo, e non c'è più luce nei tuoi occhi. Ma in te c'è ancora qualcosa di magico. Che non sai cos'è. Non sai più cos'è.
Ma c'è, deve esserci, altrimenti di che vivere, e come.
Ora che non esco più, che non faccio più niente, vivo di ricordi. E di sogni.
La durata della vita dei possessori di un anello del potere, di un Nazgul, si allunga in maniera innaturale fino a renderli spettri-viventi. Così io mi sento. Lentamente, amaramente, tutto ha perso d'interesse, un tedio oscuro mi ammorba. Le cose, le persone, tutto è il fantasma di un altro mondo. A volte, nei sogni, mi sembra che una parte di me desideri qualcosa, tanto che al risveglio una bellezza dimenticata mi perturba e commuove.
Ma come un sogno di lì a breve svanisce. E restano ceneri presto disperse. A volte, sorge in me una strana euforia, ma è come il ricordo di un'alba lontana, la sua luce nella memoria è ancora lieta, ma non scalda. E poi laghi di silenzio. Rive desolate. E guardo un passato che mi sembra quello del mondo tanto è lontano, e un futuro impossibile, e comunque sia: insopportabile. E a questo punto mi piacerebbe partisse un bel solo di chitarra e dolcemente finisse questa brutta canzone. Lentamente, in dissolvenza...
Chissà se la morte ha un Re, qualcuno a cui deve render conto. Improbabile, ma non impossibile. Se c'è, se questo Re esiste, sta lassù, negli abissi, e se non è come quello di cui parla Pessoa in una sua poesia (Re di una terra che non ha luogo) allora forse potrei farci un patto, sempre che un sì occupato sire mi conceda tempo. Gli chiederei, al Re della morte, di poter prendere il suo posto per un giorno, anche per un'ora soltanto. Non comanderei nulla. Non ucciderei nessuno. Però mi piacerebbe starmene seduto lassù, sul suo trono, al centro dell'infinito, circondato da tutte le stelle e dire, per un momento, uno solo, che io, io, io sono eterno. E durerò per sempre.
Allora per un attimo, come diceva la mia amica, avrei senso. Dopodiché gli renderei il suo nero scettro e me ne tornerei nel nulla, a dare calci a un barattolo in una qualsiasi strada del mondo, e se qualcuno, magari un gatto, mi chiedesse dove vado, gli direi che come lui non vado in nessun posto, e ci lasceremmo così, sommamente indifferenti, lui per istinto, io per stile, ognuno verso il suo vicolo cieco, e dannazione, c'era qualcosa che dovevo ricordare, un che di magico che ormai è andato, come quella luce nei suoi occhi, e il Re della morte ride, ride in eterno.
Scritto e non riletto.
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