giovedì 7 agosto 2014

La cena dei Benpensanti




Il signor Bebonio fece un ultimo giro della stanza. Osservò il tavolo, la scura credenza accostata al muro, l'illuminazione e la pulizia delle superfici. Dopodiché andò a prendere il carrello delle bevande e lo accostò alla credenza. La stanza non aveva finestre.
Tutto era pronto per gli ospiti.
Bebonio indossava una lucida vestaglia di seta color blu intenso decorata da sfere prismatiche color violetto spento. Ai piedi calzava delle comode calzature da riposo, grigio-chiare con un rivestimento in pelame sintetico.
La cena era stata un'idea della signorina Clomilde, una ricca zitella che viveva sola con i suoi desideri. Subito tutto il circolo dei Benpensanti aveva aderito con interesse. Il resto era venuto da sé. Bebonio, appena entrato nel circolo per volere del padre, possedeva una vasta magione, e tutti convennero fosse il caso dare lì la cena.
Così tutto era stato cucinato e preparato. Bebonio si era impegnato al massimo per la riuscita dell'evento. Ora mancavano solo gli ospiti, che non tardarono e in breve furono lì.
Dopo i convenevoli di rito, e l'ingresso dei signori più importanti, senza indugio la cena ebbe inizio.
Chi già seduto, chi in piedi presso il tavolo, l'allegra combriccola dei Benpensanti si era lì adunata.
"In questa serata speciale", disse Bebonio, "auguro lunga vita a tutti!", e dicendo questo fece cenno di versarsi da bere. Tutti alzarono i bicchieri in alto e bevvero sorridenti.
Poi qualcuno si guardò in faccia, altri sputarono il presunto vino.
Così uno, un signore più distinto degli altri, si alzo e, con alterigia disse: "oibò, è forse questa urina?"
"Pare anche a me", gli rispose una gran dama spremuta nel suo vestito e già mezza sudacchiata, "pare proprio anche a me".
Tutti si chiesero cosa stesse succedendo, e se quello strano vino fosse proprio urina.
Bebonio si degnò subito di rispondere ai dubbi di tutti.
"Signori, per piacere, un po' di attenzione. Quella è urina e questa è una pistola."
Così tutti e venti gli ospiti tacquero di colpo, mentre Bebonio si alzava e, tenendo tutti bene in mira, chiuse a chiave l'unica porta della sala e tornò al suo posto.

Le cose stavano così: Bebonio aveva spiegato di non conoscere ancora tutti molto bene, ma di essere uno che ci sa fare, che con lui è meglio non fare scherzi e che quando serve sa sparare. Poi, con molta calma e persino della modestia, andò a dichiarare questo: "vi sarà portato del cibo e ne mangerete, in caso contrario dovrò punirvi e sarò severo."
Un grasso signore si azzardò a protestare, ma, proprio come a ricordarsi di qualcosa, Bebonio lo interruppe, dicendo che sarebbe stato severamente punito anche chi avesse fatto domande.
Poi Bebonio si avvicinò al signore molto elegante più vicino e gli sparò in un occhio.
"Questa è la punizione", disse, mentre l'elegante corpo sprizzava sangue dall'orbita esplosa e si dibatteva come un verme senza testa tra sedia e tavolo.
Tutti inorridirono e si fecero scudo l'un l'altro, ma nessuno disse niente.
Poco dopo iniziò la cena.

Il servo del signor Bebonio aprì la porta facendovi passare un grosso carrello su cui erano disposte le pietanze per tutti. Poi richiuse a chiave e si diede da fare distribuendole agli invitati.
I piatti erano, come si usa talvolta allo scopo di preservarne il calore, coperti da un altro piattino, di modo che nessuno riuscisse a vedere cosa contenessero. Quindi, quando ognuno ebbe il suo, Bebonio, con allegria, si scostò dall'angolo da cui teneva d'occhio tutti ed esclamò, "bene! ora scoprite i piatti e mangiate!".
Tutti obbedirono, e tutti, chi prima chi dopo, si accorsero che il piatto conteneva degli escrementi.
"Ma questa è merda!", esclamò un illustre signore dalla fine del tavolo!
Il servo di Bebonio, che era lì a due passi, estrasse una falcetta e gliela piantò nella nuca. Molti dopo questo si esasperarono, e Bebonio dovette sparare a qualcuno.
Poco dopo tornò tutto in ordine. Gli invitati rimasti stavano seduti davanti alle loro pietanze guardati a vista da Bebonio, mentre per la sala il suo servo si assicurava che tutti quelli colpiti da un proiettile fossero morti. Se ne assicurava con la sua falcetta, mentre l'illustre signore a cui l'aveva infilata tra testa e collo vibrava ancora nell'agonia della morte.
"Come vedete, encomiabili signori e signore, facciamo sul serio e voi mangerete."
Un signore canuto, avanti cogli anni, disse a se stesso ma ad alta voce che ci voleva del buon senso, e apprestandosi a mandare giù l'escremento che aveva nel piatto invitò gli altri a imitarlo.

All'inizio i più vomitarono quasi strozzati dallo schifo, ma il vomitare non veniva punito purché poi si continuasse a mangiare. Ad alcuni gransignori diede di volta il cervello e si spezzò la ragione, di corsa si fiondarono verso la porta.
Tutti, nell'orrore generale, furono uccisi a pistolate. Solo uno, più agile degli altri, fu lesto a tornare al suo posto.
Poi mentre il servo sparecchiava per far posto alla seconda portata, nel puzzo nauseabondo tra vomito e feci, Bebonio fece il giro del tavolo per assicurarsi che il primo fosse all'altezza dei lor signori.
Una donna si alzò schiaffeggiandolo e dicendosi sfinita. Poi rimase lì ritta e nessuno si mosse.
Bebonio, quasi distrattamente, puntò la pistola all'altezza dello stomaco e premette il grilletto.
Il colpo fece il rumore che fa un corpo quando entra in uno spazio liquido, poi la gran dama si piegò su se stessa e prese a gemere con veemenza.
Quando il servo portò il carrello con i secondi la trovò esausta ad annegare nel suo stesso sangue, mentre sia Bebonio che i rimanenti ospiti tacevano ognuno preda dei propri pensieri.
Lesto il servò distribuì un piatto a testa, tutti colmi fino all'orlo di pesce marcio e urina di gatto.
Questa volta vomitarono tutti. Il servo probabilmente lo aveva già fatto. Gli ospiti, nessuno escluso, provarono come la sensazione che lo stomaco volesse fuggirsene passando per la bocca.
Bebonio si strinse nel suo angolo in preda ai conati. Nel mentre il lesto signore di prima gli corse incontro per rubargli l'arma.
Bebonio gli sparò prima a un ginocchio, e poi all'altro. Col secondo non gli riuscì subito, il signore lesto si contorceva nel dolore e prendere la mira non era affare da poco. Così colpì prima una coscia e poi l'anca. Alla fine era messo così male che il proposito iniziale di tenerlo in vita e farlo soffrire si risolse in nulla, e appena se ne stette un po' fermo gli sparò a una tempia.
Gli ospiti assistettero col tormento dei dannati. E poi Bebonio fece cenno di iniziare a mangiare.

Le cose andarono avanti per un po' senza che, incredibilmente, accadesse nulla. I signori, le signore, tutti molto scossi e decisi a uscirne, se possibile, vivi, avevano accettato il loro ruolo e stavano mangiando - o ci provavano -, quell'orribile brodaglia. Erano rimasti in otto, tutti vomitavano, tutti lacrimavano copiosamente e avevano spasmi facciali, tutti cercavano l'incoscienza, di perdersi, di non essere lì a mangiare quel pesce marcio, a bere col cucchiaio quell'urina che, come disse Bebonio, a pasto in corso, "è del mio gatto, del mio dannato gatto in calore; schizza quella roba tutto il giorno", mentre i suoi ospiti straziati precipitavano nella pazzia.
E il piatto finì. Altri vomitarono. Ma quella cosa, alla fin fine, era entrata, e il solo ricordo faceva vacillare la ragione e i sensi.
"Siete le puttanelle del mio gatto", disse loro Bebonio, sorridendo, e poi uscì lasciando il suo servo.

Quando tornò nella stanza con un nuovo carrello i suoi ospiti parlarono per bocca di un solo uomo: "Quanto ancora dovremo essere umiliati e resi meno che umani da questo orrido spettacolo? Vogliamo almeno saperlo."
Bebonio, il suo servo, stettero ad ascoltare. Poi Bebonio rispose senza scomporsi. "Ho giusto qui l'ultima portata, Iz!"
Iz, si scoprì, era il suo servo. Muto la distribuì.
Erano teste umane. Le teste dei morti alla cena. Teste crude.
"Su!, su!, eccovi il dolce", fece loro Bebonio.
Un signore, il più anziano, smise di voler vivere. Si gettò contro Iz.
Morì con diversi proiettili nel petto.
Gli altri fissavano il piatto. Era chiaro che per riuscire a divorare una testa umana serviva qualcosa in più della semplice volontà necessaria a ingoiare le precedenti portate. Bisognava davvero voler vivere.
Un'altra dama si piombò verso Bebonio urlando stravolta. E un uomo dietro di lei.
Furono uccisi senza una smorfia.
I 5 rimasti iniziarono a bere gli occhi nelle orbite dei morti come per tacita convenzione. Solo l'ultima donna rimasta, la gran dama bianca, palesemente confusa, cominciò a mangiucchiare un orecchio.
Poi un urlo improvviso: "Ma perché ci fate questo?!"
Lo chiese il più anziano dei signori, quello del buon senso. Uno sparo, in fronte. Il corpo sbatté violentemente sul tavolo. Ora erano in quattro con le loro teste.
Seguitarono la cena in silenzio.


Stavano divorando un volto umano che fino a poco prima sedeva lì vicino a loro. Così Bebonio venne e si sedette al tavolo, accavallò le gambe, si accese una sigaretta, e prese a parlare.
"Sì, me ne rendo conto, divorare proprio quel viso... ma forse ne avevi voglia. Non si può mai sapere oggi di cosa uno ha voglia. Mi sono detto, magari questi benpensanti vorranno divorarsi tra di loro e farsi ammazzare, e forse non si divertono solo a mangiar schifezze."
Nessuno rispose. La gran dama ora si teneva la sua testa tra le mani e aveva smesso di mangiare.
Gli altri tre signori mangiavano con gli occhi chiusi.
"Dopotutto", continuò Bebonio, "è tutta roba buona questa, tutta fatta qui, in casa, tra di noi. Non ci si può fidare di nessuno oggi, dico bene?"
Nessuno rispose, ma la signora sembrava volersi alzare. Poi lo fece. Non andò da nessuna parte, aspettò semplicemente che Bebonio le sparasse. Così ora erano rimasti tre ospiti.

Dopo molte ore le teste erano scarnificate. Il cervello, per detta dello stesso Bebonio, non andava mangiato per intero. Si poteva scegliere uno dei due emisferi.
La parte ossea e i capelli potevano essere gettati da parte. I tre ospiti parevano ora come colti da un brivido di follia; il più altro dei tre, davvero un gran signore, fissava Bebonio senza parlare.
Bebonio e Iz, assonnati e stufi, si alzarono e batterono le mani.
"Bravi, bravi e molto bene signori", fece loro Bebonio, "avete mangiato anche questo bel dolce. Che dire! gradite altro?"
Allora il gran, gran signore, osò parlare. "Ora possiamo andarcene?"
"Ma certo", disse loro Bebonio. "Iz, apri. Signori, spero di rivedervi."
Si salutarono e si diedero la mano.
"Alla prossima, allora, signor Bebonio", dissero i tre signori.
"Alla prossima, signori miei", rispose loro Bebonio.
Poi i benpensanti si ritirarono a riposare.
"Un ultima cosa", disse uno di loro, rivolgendosi a Bebonio che li osservava allontanarsi dall'uscio, "che ne avete fatto di mia moglie?"
Iz sorrise ma non disse niente.

Bebonio divenne famoso per le sue serate, e in breve la signorina Clomilde, la ricca zitella piena di desideri che non si era potuta recare alla serata da lei pensata, si rivolse a Bebonio pregandolo di organizzarne un'altra. Gli disse poi che tra benpensanti il problema più grande è la noia, che non si sa mai cosa fare, e che anche della vita non si sa cosa fare, e che ovviamente alla prossima cena in costume non sarebbe mancata. E altre cose ancora.



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