sabato 30 agosto 2014

L'interiorità dell'uomo



La spiritualità è un fenomeno individuale, e le religioni uccidono l'interiorità.
I religiosi, chiunque segua un culto, non sono del tutto vivi, ma conservano in essi il loro cadavere spirituale.
Sono gli zombie svuotati di tutto, incapaci sia di inseguire l'utopia delle religioni organizzate che di farsene una propria.
In effetti non mi viene in mente nessuna forma di vita umana inferiore al seguace di una religione organizzata.
Persino il drogato ha più potenziale di questi individui.

Ora, detto ciò, è facilmente capibile come, a seconda della religione, nell'interiorità dei suoi credenti venga infusa un'essenza piuttosto di un'altra.
Signori, è semplicissimo. Non c'è solo Dio, c'è la cultura che ha portato a quel Dio.
Faccio un esempio, dai.
Un nordico, un guerriero, non a caso ha come Dio un feroce guerriero. Perché com'è ovvio si cerca di prendere quella che è la cultura di un popolo, il posto dove vive, impastare bene e creare divinità adatte.
Non potrebbe mai avere un dio pacifico, perché è un guerriero.
Non potrebbe mai avere un dio dell'amore, perché la sua vita è guerra.
E quindi ogni popolo si fa il suo pantheon di divinità, o si crea la sua personalissima visione del sole.

Insomma, ricapitolo: la spiritualità è individuale e la religione - necessaria del resto a ogni popolo - si basa sulla cultura del popolo stesso.
Basta, su questo non c'è altro da aggiungere.
L'ateismo, poi, appare se non dannoso almeno inutile. Ma questo è un altro discorso.
Va da se che un culto ricco e variegato, un politeismo animista ad esempio, difficilmente riuscirebbe a resistere al progresso per come lo conosciamo noi, in quanto basato su un rapporto diretto tra il seguace e l'elemento magico che non potrebbe sopravvivere al relativismo moderno. A questo si presta meglio l'assolutismo del culto solare, dove dio non c'è mai stato o è sempre stato altrove, di modo che metterlo in discussione porti a niente.
Darwin direbbe che il culto solare adattandosi meglio alle menti umane ha vinto la sfida evolutiva.
Forse è vero. Del resto è altresì vero che laddove il monoteismo è stato applicato in maniera ortodossa (non l'europa) le menti delle persone ne sono risultate impoverite, impreparate all'arte e all'immaginazione, mentre l'europa cristiana (ma pagana nel cuore) ha saputo costruire scale verso il cielo grazie alle sue antiche radici.
Quindi dev'essere vero anche che il politeismo non è solo una religione, ma un modo ricco e complesso di guardare alla vita e all'essere umano. E che il monoteismo pure non è solo una religione, ma un modo misero e sottomesso di attraversare la vita. Due filosofie dell'anima opposte.
Non a caso il cristianesimo ha potuto espandersi da noi solo dopo essere stato filtrato dentro il pensiero della scuola greca, basato su una cultura politeista e mitica.
Tutto ciò che c'è di buono nella teologia cristiana è stato pensato sotto l'olimpo!

Un uomo del deserto, somiglia un po' a vostro nonno. Eh?


Ma cosa succede quando, per motivi vari, una religione viene imposta a un popolo, senza che questa appartenga in nessun modo alla sua cultura?
Lo abbiamo visto cogli arabi in africa (gli africani sono geneticamente incapaci di seguire un rito patriarcale), col cristianesimo in sud america (un continente morto, finito. Non hanno più neanche la loro lingua), e, prima, sempre col cristianesimo, in Europa.
Ma il cristianesimo da dove viene?
Viene dall'oriente.
Essenzialmente è un culto semita, per certo influenzato dalla spiritualità delle Asie. Poi è un culto solare, ma è un sole buono, dai riflessi dorati. E infine deriva direttamente dall'ebraismo, del quale è parte malata e deriva ascetica.
Si presta benissimo a una pianificazione economica, molto più del politeismo; è chiaro, no? Ci sono solo servi e padroni, non c'è alcun individualismo né figure ulteriori a cui rifarsi per orientarsi nella vita. Il nucleo di tutto è un gregge che segue il pastore. Un comunismo divino, proprio come il vero comunismo altro non era che un materialismo cristiano.
Lo stesso medio evo fu un'enorme campo di lavoro per dio.

Adottare poi un culto solare straniero comporta inevitabilmente una perdita di identità, il legame con la propria terra è sottomesso a quello col dio, che non ha terra o non è questa, così che il fedele si senta di passaggio, confuso da un dio che è egli stesso ovunque e da nessuna parte.
Il cristiano appartiene al mondo nella misura in cui lo attraversa, non è del mondo stesso. Ci plana sopra verso un'altra meta. Nient'altro che quella meta per lui ha valore, eppure non credendo più a nulla e non essendo più di nessun luogo egli non giunge mai da nessuna parte se non in una tomba chiamata dolore, mausoleo che tutti i cristiani senza dio e senza patria hanno eletto a loro casa.
La sua interiorità è asservita a quella di un altro popolo, di altre terre, creando dei non-morti di fede.
Alla fine di quel popolo non resta nulla, o quando va bene solo la lingua.

Il cristiano non è quindi europeo nel pieno senso del termine, perché appartiene interiormente a una cultura extra-europea. Allo stesso modo nessun cristiano può dirsi americano, né un norvegese può fingere di essere un uomo del nord se ospita dentro di se le leggende del deserto.

Un europeo. Non somiglia al nonno.


A volte mi fermo a pensare a queste cose, o per meglio dire mi ci soffermo sempre più spesso, e non posso non notare che altre volte ciò è avvenuto.
Il buddismo, ad esempio, dall'india s'è spostato in tutto l'oriente, così come gli antichi politeismi ariani adottavano divinità di altre tribù.
Tuttavia in questi e altri processi vi era un adattamento, così che città e villaggi potessero trasformare le nuove vedute culturali adattandole alla propria dimensione.
Certo, il cristo delle chiese è bianco, e i crociati non erano incancreniti dalla pietà: ma oggi?
Io devo necessariamente guardare all'oggi e rendermi conto che la spiritualità del mio popolo è quella di un altro e che la chiesa ha accelerato il declino di questa regione del mondo.
Loro, i preti, il papa, il clero tutto, persino i sacrestani, a chi appartengono, ad abramo o all'Italia, alle terre salate ai confini del mediterraneo o all'Europa?
Essi sono esuli colonizzatori, già pronti un domani, nell'eventualità che l'europa finalmente li digerisca, a tornare nel deserto da cui provengono.
Ed essi sono corrosi dal non credere più a nulla, perché il primo nichilista è stato cristo, e tutta la cristianità una ipnotica caduta verso il nulla.
E allora che tutti cadano nel loro vuoto. L'Europa è aperta a tutti, venite e fate come abbiamo fatto noi: fate quello che vi pare.
La politica non può fare niente, perché sa che all'uomo dalla notte dei tempi non basta l'ordine di un altro uomo per andare a morire: serve una volontà superiore, serve dio. E per mandarti a morire un dio vale l'altro.
Sì, sono molto pessimista, e anzi no. Non lo sono affatto.
Il pessimista pensa che tutto sia contro di lui. Io non lo penso.
Ad ogni modo tutto ciò di cui ho parlato mi è avverso.


mercoledì 20 agosto 2014

La dimensione dell'altrove

Ogni tanto mi chiedo cosa mi spinga alla lettura. Certo leggendo un libro io cerco una storia, qualcosa che mi piaccia nei suoi contenuti e per come è scritto.
Se sarà su un pianeta lontano, o in una guerra tra stregoni, di sicuro non potrò viverla nella mia esistenza, lo stesso vale per gli eventi lontani nel tempo o entrambe le cose.
Fondamentalmente, insomma, io cerco un "altrove", lontanissimo nello spazio o remoto nel tempo purché sia altrove. E da quell'altrove mi aspetto di essere coinvolto a tutti i livelli della mia mente, di modo da staccarmi da me e da ciò che mi circonda.
Quello che leggo non mi serve solo a capire meglio la realtà come fanno alcuni: mi serve per avere un luogo in cui fuggire.
Per semplificare ulteriormente si potrebbe dire che, semplicemente, io cerco di essere o di conoscere altro, perdendomi nella lettura di qualsivoglia cosa.
Quindi la mia esigenza è questa.

Io mentre scrivo il post


Poi invece penso ai nostri antenati, sapendoli del tutto capacissimi di condurre un'intera esistenza senza alcuna distrazione, o perlomeno capaci di non voler essere in nessun altro posto, senza neanche sentire l'esigenza di pensare a un altrove che non sia pace e ricompensa.
Però, che gran differenza. Eppure la specie non è cambiata poi molto da quei giorni, praticamente è identica. Ciononostante io fluttuo nelle astrazioni dove il mio antenato era solidamente aggrappato al suolo.
Evidentemente le differenze non si trovano nei geni, ma negli stimoli ricevuti.
Quindi, a dire così, uno si immagina di essere stato costantemente sopraeccitato fino a desiderare di essere oltre se stesso, di vivere in altri luoghi; la civiltà non mi permette di esplorare il mondo a cavallo, così mi darò alla lettura.

La mia, per farla breve, è una forma di rifiuto verso la mia società.
Di questi miei  "rifiuto!", di questo esser contro, ce ne sono diverse varianti. Alcuni si limitano a evadere, mantenendo una loro presenza saltuaria all'interno del sistema. Lavoro o un po' di vita sociale.
Altri rifiutano più decisamente gli eventi e fanno della loro vita il simbolo dell'esser contro nei modi che sembrano loro più adatti.
In entrambi i casi, o in casi più lievi, l'esigenza primaria è sottrarsi al teatrino del mondo.

Allora, ricapitoliamo: voglio fuggire dalla mia vita ma non posso, quindi evado tramite l'astrazione, letteraria o meno.
Invece l'uomo antico, ma per esser più precisi l'uomo pre-moderno, non aveva di queste esigenze, anzi, aveva i piedi ben piantati per terra. Non è vero però che fosse sciocco, infatti anche lui poteva essere spinto alla ricerca di qualcosa d'altro. In quei casi girava il mondo.
E siamo di nuovo all'inizio: la nostra società opprime spingendo all'evasione nell'altrove. Allo stesso tempo impedisce di staccarsi dalla realtà, pena la perdita di tutto. Così quello che facciamo è semplicemente prenderci delle pause studiate, con un libro o quello che volete voi.


Non mi dispiacerebbe indossarlo. Il problema è che vorrei anche saperlo costruire, e magari descriverlo.


Insomma non si può pensare che a questo: l'uomo è incline a viaggiare e o a creare solo se stressato o annoiato. Non potendo concentrarsi su di se l'uomo frustrato cerca di spiegarsi agli altri, e così l'idea e l'arte. E: la nostra civiltà eccelle nella fuga dal vero.
O meglio eccelleva, infatti l'ulteriore deriva consumistica, legata al calo dell'istruzione, ha portato all'incapacità a evadere dalla realtà con intelligenza. A predominare ora sono le evasioni prive di contenuto o addirittura il vuoto totale contornato da stimoli basici (cibo, sesso, ecc).

Quindi abbiamo questo, e cioè delle masse frustrate dalle loro vite, con una forte necessità di evasione (lo vediamo a tutti i livelli, è tipico del periodo moderno) portata da un relativo benessere e dal linguaggio iperbolico dei media, le quali però non dispongono o non sanno fruire di "altrove" taumaturgici della dimensione umana, e finiscono per perdersi nella banalità commerciale del tutto-uguale.

A questi individui, poi, non interessa del tutto né la "storia" in se, né contemplare un altrove. Non perché siano soddisfatti del loro essere, bensì perché integrati nel sistema come sono non sanno capacitarsi di essere altro, se non quello che sono.
O a volte, nonostante una volontà a migliorarsi, vengono a mancare disponibilità e tempo.

Per quanto mi riguarda vorrei essere un ibrido, un simbolo del mio tempo: infatti l'uomo non è che all'inizio del suo cammino, ancora dilaniato tra bestia e ragione, con la coccarda della superstizione sempre in mostra.
In poche parole vorrei esplorare a più livelli, con le zone della mia mente e coi sensi, quello che di meglio sa offrirci questa vita appesa al niente, senza rinnegare il ramingo dei boschi che fui, o il minareto di tetri pensieri che sarò.

venerdì 15 agosto 2014

Autointervista

Attenzione, appare qui per la prima volta la rubrica delle grandi interviste, nella quale scopriremo i ricercati pareri delle menti più geniali che circolano in rete. Siccome sono uno strafottente testa di cazzo inizio da me.



Io che mi auto-intervisto col microfono delle auto-interviste


Nome?
Alex, o Yondo.

Specie?
Umana, sapiens

Ruolo nel proprio ecosistema?
Immagino di essere un consumatore di materie prime lavorate.

Appartieni a una particolare razza?
Ariano, o uomo bianco.

Sessualità?
Eterodiretta, basata sulla frenesia in risposta a certi stimoli.

Quanti sessi?
Due, uno feconda l'altro fa da contenitore alla vita.

Organizzazione sociale?
Fuori casta.

Interessi nella vita?
A parte la pornografia?
Sì, a parte quello.
Scherzavo. Mi interesso un po' di tutto, a parte la nefandezza abramitica.

E i videogame?
Ah sì, pure quelli.

Quanti lettori ha questo blog?
Quando va bene una decina.

Come ti vedi tra dieci anni?
Non mi vedo migliore.

E dieci anni fa com'eri?
Non ero meglio di ora.

Credi all'amicizia?
Perché no, purché sia interessata.

Che intendi?
Che senza convergenze di interessi spesso ci sia annoia.

E all'amore?
La parola amore in se non significa niente, è troppo vasta.

A cosa credi allora?
Credo che a qualcosa si debba credere, ma non ho deciso a cosa.

Gli altri cosa pensano di te?
Tutto il male possibile, almeno me lo auguro. In genere è così.

E tu cosa pensi di te stesso?
Mi sento molto carnivoro.

Te ne intendi di politica?
Ovvio.

E come la pensi?
Penso che l'essere umano sia stufo di vivere in branco.

Capisco. Di cosa ti occupi ultimamente?
Ultimamente non sto facendo un beneamato cazzo di niente, a parte questa intervista.

Pausa riflessiva?
No, è perché mi sento vuoto e demotivato.

Le vacanze come vanno?
Preferisco non parlarne. Comunque tutto bene.

Credi in dio?
Certo che no.

Siamo soli nell'universo?
È una domanda ridicola.

La vita ha senso?
Ha senso finché si vive.

E dopo?
Dopo niente, dopo è come prima. Siamo la scintilla in mezzo a due eternità.

Quanto è importante una donna?
Quel tanto che basta a far sì che l'uomo si sopporti. Ma spesso non serve neanche una donna.

E la famiglia?
La famiglia non so neanche bene se esiste sul serio o se l'è inventata qualcuno. Diciamo che i legami di sangue sono una cosa concreta e visibile, per cui è un buon modo per raggrupparsi.

Sì, ma tu cosa ne pensi?
Penso che preferirei crescere in un castello gotico con la complicità tra compagni e degli insegnanti preparati.

Sei animalista?
Con i miei gatti lo sono.

Sei umanista?
È una domanda vaga.

Credi nell'uomo?
Cazzo, no. Chi mai sano di mente potrebbe farlo. Al massimo credo all'idea che abbiamo di noi stessi, individualmente o come specie.

Quindi non credi neanche in te?
Inizierei a montarmi subito la testa.

Forse sei pazzo.
In tal caso il vero pazzo saresti tu che mi intervisti.

L'ultimo libro che hai letto?
Che ho letto o che sto leggendo?
Non so, fai tu. Anzi, lasciamolo proprio perdere. Quanti anni hai?
Ne ho 29
Quasi 30?
Va be, sono ancora 29.

Paura di invecchiare?
Paura no, però sapere che la vita è sempre più breve mi fa alquanto incazzare.

Ci fai vedere una tua foto?
Ma in quanti cazzo siete lì dentro?

Solo io. Era per dire... me la fai vedere?
No.

Perché?
Va be, eccola.



Perché la barba?
È comoda.

E tutto quel nero?
È comodo anche il nero.

E quelle rughe da odio?
Non diciamo sciocchezze.

Che rapporto hai coi tuoi genitori?
Non ci siamo ancora uccisi.

Com'è stata l'adolescenza?
Tragica ed eroica insieme.

Finita?
Non so se quella maschile finisca mai, a un certo punto si fa finta di sì pur non essendo cambiati.

Ma quindi è finita?
No, non è finito un cazzo! (porta che sbatte)

Lavori?
In che senso?

Hai un lavoro retribuito?
No, retribuito no.

Quindi sei un parassita.
Tecnicamente ogni forma di vita sul pianeta lo è, anche l'erba.

Lo intendevo riferito alla società umana.
Sono solo il prodotto del declino occidentale.

Come vedi il futuro dell'Italia?
Afoso.

E del mondo?
Non mi faccio illusioni, l'essere umano non può farcela.

Di che parli, ha uno scopo la specie umana?
Ovvio, dovunque vi sia vita la specie che vince la lotta per l'evoluzione ha subito uno scopo.

Qual è?
Lasciare il suo pianeta.

E dove sarebbe lo scopo?
Lo scopo è viaggiare invece che viaggiarsi. Finora ci siamo limitati a viaggiarci, tranne forse i popoli più antichi che esplorarono il mondo. Noi lo faremo con lo spazio, guarendoci. Ed è l'unico modo per sopravvivere ai mutamenti della propria stella.

Usi dei toni mistici. È per via della barba?
Questa è una cosa a cui non penso mai. Non so cosa dire.

E del governo cosa ne pensi?
Stessa cosa della barba.

Vivi da solo?
Mah, tecnicamente no né lo vorrei.

Non vuoi emanciparti?
Emanciparmi da cosa, per farlo sul serio dovrei abitare un fiordo norvegese.

Cosa intendi?
Che la società serve a servire certe "esigenze", e non ti permette di emanciparti. Persino i matti stanno tutti assieme.

Allora non c'è speranza?
Non in questa vita.

Ne esistono altre?
Allora, filosoficamente parlando non lo so né potrei saperlo. Ma a essere pratici no, non c'è niente.

L'intervista è finita, vuoi aggiungere qualcosa?
Sì, e cioè questo: il cane abbaia ma la carovana passa lo stesso.

Un'ultima cosa. Sei felice?
A volte lo sono, ma sempre con prudenza.

Ti sei divertito a farti intervistare?
Non mi divertivo così da anni.























giovedì 7 agosto 2014

La cena dei Benpensanti




Il signor Bebonio fece un ultimo giro della stanza. Osservò il tavolo, la scura credenza accostata al muro, l'illuminazione e la pulizia delle superfici. Dopodiché andò a prendere il carrello delle bevande e lo accostò alla credenza. La stanza non aveva finestre.
Tutto era pronto per gli ospiti.
Bebonio indossava una lucida vestaglia di seta color blu intenso decorata da sfere prismatiche color violetto spento. Ai piedi calzava delle comode calzature da riposo, grigio-chiare con un rivestimento in pelame sintetico.
La cena era stata un'idea della signorina Clomilde, una ricca zitella che viveva sola con i suoi desideri. Subito tutto il circolo dei Benpensanti aveva aderito con interesse. Il resto era venuto da sé. Bebonio, appena entrato nel circolo per volere del padre, possedeva una vasta magione, e tutti convennero fosse il caso dare lì la cena.
Così tutto era stato cucinato e preparato. Bebonio si era impegnato al massimo per la riuscita dell'evento. Ora mancavano solo gli ospiti, che non tardarono e in breve furono lì.
Dopo i convenevoli di rito, e l'ingresso dei signori più importanti, senza indugio la cena ebbe inizio.
Chi già seduto, chi in piedi presso il tavolo, l'allegra combriccola dei Benpensanti si era lì adunata.
"In questa serata speciale", disse Bebonio, "auguro lunga vita a tutti!", e dicendo questo fece cenno di versarsi da bere. Tutti alzarono i bicchieri in alto e bevvero sorridenti.
Poi qualcuno si guardò in faccia, altri sputarono il presunto vino.
Così uno, un signore più distinto degli altri, si alzo e, con alterigia disse: "oibò, è forse questa urina?"
"Pare anche a me", gli rispose una gran dama spremuta nel suo vestito e già mezza sudacchiata, "pare proprio anche a me".
Tutti si chiesero cosa stesse succedendo, e se quello strano vino fosse proprio urina.
Bebonio si degnò subito di rispondere ai dubbi di tutti.
"Signori, per piacere, un po' di attenzione. Quella è urina e questa è una pistola."
Così tutti e venti gli ospiti tacquero di colpo, mentre Bebonio si alzava e, tenendo tutti bene in mira, chiuse a chiave l'unica porta della sala e tornò al suo posto.

Le cose stavano così: Bebonio aveva spiegato di non conoscere ancora tutti molto bene, ma di essere uno che ci sa fare, che con lui è meglio non fare scherzi e che quando serve sa sparare. Poi, con molta calma e persino della modestia, andò a dichiarare questo: "vi sarà portato del cibo e ne mangerete, in caso contrario dovrò punirvi e sarò severo."
Un grasso signore si azzardò a protestare, ma, proprio come a ricordarsi di qualcosa, Bebonio lo interruppe, dicendo che sarebbe stato severamente punito anche chi avesse fatto domande.
Poi Bebonio si avvicinò al signore molto elegante più vicino e gli sparò in un occhio.
"Questa è la punizione", disse, mentre l'elegante corpo sprizzava sangue dall'orbita esplosa e si dibatteva come un verme senza testa tra sedia e tavolo.
Tutti inorridirono e si fecero scudo l'un l'altro, ma nessuno disse niente.
Poco dopo iniziò la cena.

Il servo del signor Bebonio aprì la porta facendovi passare un grosso carrello su cui erano disposte le pietanze per tutti. Poi richiuse a chiave e si diede da fare distribuendole agli invitati.
I piatti erano, come si usa talvolta allo scopo di preservarne il calore, coperti da un altro piattino, di modo che nessuno riuscisse a vedere cosa contenessero. Quindi, quando ognuno ebbe il suo, Bebonio, con allegria, si scostò dall'angolo da cui teneva d'occhio tutti ed esclamò, "bene! ora scoprite i piatti e mangiate!".
Tutti obbedirono, e tutti, chi prima chi dopo, si accorsero che il piatto conteneva degli escrementi.
"Ma questa è merda!", esclamò un illustre signore dalla fine del tavolo!
Il servo di Bebonio, che era lì a due passi, estrasse una falcetta e gliela piantò nella nuca. Molti dopo questo si esasperarono, e Bebonio dovette sparare a qualcuno.
Poco dopo tornò tutto in ordine. Gli invitati rimasti stavano seduti davanti alle loro pietanze guardati a vista da Bebonio, mentre per la sala il suo servo si assicurava che tutti quelli colpiti da un proiettile fossero morti. Se ne assicurava con la sua falcetta, mentre l'illustre signore a cui l'aveva infilata tra testa e collo vibrava ancora nell'agonia della morte.
"Come vedete, encomiabili signori e signore, facciamo sul serio e voi mangerete."
Un signore canuto, avanti cogli anni, disse a se stesso ma ad alta voce che ci voleva del buon senso, e apprestandosi a mandare giù l'escremento che aveva nel piatto invitò gli altri a imitarlo.

All'inizio i più vomitarono quasi strozzati dallo schifo, ma il vomitare non veniva punito purché poi si continuasse a mangiare. Ad alcuni gransignori diede di volta il cervello e si spezzò la ragione, di corsa si fiondarono verso la porta.
Tutti, nell'orrore generale, furono uccisi a pistolate. Solo uno, più agile degli altri, fu lesto a tornare al suo posto.
Poi mentre il servo sparecchiava per far posto alla seconda portata, nel puzzo nauseabondo tra vomito e feci, Bebonio fece il giro del tavolo per assicurarsi che il primo fosse all'altezza dei lor signori.
Una donna si alzò schiaffeggiandolo e dicendosi sfinita. Poi rimase lì ritta e nessuno si mosse.
Bebonio, quasi distrattamente, puntò la pistola all'altezza dello stomaco e premette il grilletto.
Il colpo fece il rumore che fa un corpo quando entra in uno spazio liquido, poi la gran dama si piegò su se stessa e prese a gemere con veemenza.
Quando il servo portò il carrello con i secondi la trovò esausta ad annegare nel suo stesso sangue, mentre sia Bebonio che i rimanenti ospiti tacevano ognuno preda dei propri pensieri.
Lesto il servò distribuì un piatto a testa, tutti colmi fino all'orlo di pesce marcio e urina di gatto.
Questa volta vomitarono tutti. Il servo probabilmente lo aveva già fatto. Gli ospiti, nessuno escluso, provarono come la sensazione che lo stomaco volesse fuggirsene passando per la bocca.
Bebonio si strinse nel suo angolo in preda ai conati. Nel mentre il lesto signore di prima gli corse incontro per rubargli l'arma.
Bebonio gli sparò prima a un ginocchio, e poi all'altro. Col secondo non gli riuscì subito, il signore lesto si contorceva nel dolore e prendere la mira non era affare da poco. Così colpì prima una coscia e poi l'anca. Alla fine era messo così male che il proposito iniziale di tenerlo in vita e farlo soffrire si risolse in nulla, e appena se ne stette un po' fermo gli sparò a una tempia.
Gli ospiti assistettero col tormento dei dannati. E poi Bebonio fece cenno di iniziare a mangiare.

Le cose andarono avanti per un po' senza che, incredibilmente, accadesse nulla. I signori, le signore, tutti molto scossi e decisi a uscirne, se possibile, vivi, avevano accettato il loro ruolo e stavano mangiando - o ci provavano -, quell'orribile brodaglia. Erano rimasti in otto, tutti vomitavano, tutti lacrimavano copiosamente e avevano spasmi facciali, tutti cercavano l'incoscienza, di perdersi, di non essere lì a mangiare quel pesce marcio, a bere col cucchiaio quell'urina che, come disse Bebonio, a pasto in corso, "è del mio gatto, del mio dannato gatto in calore; schizza quella roba tutto il giorno", mentre i suoi ospiti straziati precipitavano nella pazzia.
E il piatto finì. Altri vomitarono. Ma quella cosa, alla fin fine, era entrata, e il solo ricordo faceva vacillare la ragione e i sensi.
"Siete le puttanelle del mio gatto", disse loro Bebonio, sorridendo, e poi uscì lasciando il suo servo.

Quando tornò nella stanza con un nuovo carrello i suoi ospiti parlarono per bocca di un solo uomo: "Quanto ancora dovremo essere umiliati e resi meno che umani da questo orrido spettacolo? Vogliamo almeno saperlo."
Bebonio, il suo servo, stettero ad ascoltare. Poi Bebonio rispose senza scomporsi. "Ho giusto qui l'ultima portata, Iz!"
Iz, si scoprì, era il suo servo. Muto la distribuì.
Erano teste umane. Le teste dei morti alla cena. Teste crude.
"Su!, su!, eccovi il dolce", fece loro Bebonio.
Un signore, il più anziano, smise di voler vivere. Si gettò contro Iz.
Morì con diversi proiettili nel petto.
Gli altri fissavano il piatto. Era chiaro che per riuscire a divorare una testa umana serviva qualcosa in più della semplice volontà necessaria a ingoiare le precedenti portate. Bisognava davvero voler vivere.
Un'altra dama si piombò verso Bebonio urlando stravolta. E un uomo dietro di lei.
Furono uccisi senza una smorfia.
I 5 rimasti iniziarono a bere gli occhi nelle orbite dei morti come per tacita convenzione. Solo l'ultima donna rimasta, la gran dama bianca, palesemente confusa, cominciò a mangiucchiare un orecchio.
Poi un urlo improvviso: "Ma perché ci fate questo?!"
Lo chiese il più anziano dei signori, quello del buon senso. Uno sparo, in fronte. Il corpo sbatté violentemente sul tavolo. Ora erano in quattro con le loro teste.
Seguitarono la cena in silenzio.


Stavano divorando un volto umano che fino a poco prima sedeva lì vicino a loro. Così Bebonio venne e si sedette al tavolo, accavallò le gambe, si accese una sigaretta, e prese a parlare.
"Sì, me ne rendo conto, divorare proprio quel viso... ma forse ne avevi voglia. Non si può mai sapere oggi di cosa uno ha voglia. Mi sono detto, magari questi benpensanti vorranno divorarsi tra di loro e farsi ammazzare, e forse non si divertono solo a mangiar schifezze."
Nessuno rispose. La gran dama ora si teneva la sua testa tra le mani e aveva smesso di mangiare.
Gli altri tre signori mangiavano con gli occhi chiusi.
"Dopotutto", continuò Bebonio, "è tutta roba buona questa, tutta fatta qui, in casa, tra di noi. Non ci si può fidare di nessuno oggi, dico bene?"
Nessuno rispose, ma la signora sembrava volersi alzare. Poi lo fece. Non andò da nessuna parte, aspettò semplicemente che Bebonio le sparasse. Così ora erano rimasti tre ospiti.

Dopo molte ore le teste erano scarnificate. Il cervello, per detta dello stesso Bebonio, non andava mangiato per intero. Si poteva scegliere uno dei due emisferi.
La parte ossea e i capelli potevano essere gettati da parte. I tre ospiti parevano ora come colti da un brivido di follia; il più altro dei tre, davvero un gran signore, fissava Bebonio senza parlare.
Bebonio e Iz, assonnati e stufi, si alzarono e batterono le mani.
"Bravi, bravi e molto bene signori", fece loro Bebonio, "avete mangiato anche questo bel dolce. Che dire! gradite altro?"
Allora il gran, gran signore, osò parlare. "Ora possiamo andarcene?"
"Ma certo", disse loro Bebonio. "Iz, apri. Signori, spero di rivedervi."
Si salutarono e si diedero la mano.
"Alla prossima, allora, signor Bebonio", dissero i tre signori.
"Alla prossima, signori miei", rispose loro Bebonio.
Poi i benpensanti si ritirarono a riposare.
"Un ultima cosa", disse uno di loro, rivolgendosi a Bebonio che li osservava allontanarsi dall'uscio, "che ne avete fatto di mia moglie?"
Iz sorrise ma non disse niente.

Bebonio divenne famoso per le sue serate, e in breve la signorina Clomilde, la ricca zitella piena di desideri che non si era potuta recare alla serata da lei pensata, si rivolse a Bebonio pregandolo di organizzarne un'altra. Gli disse poi che tra benpensanti il problema più grande è la noia, che non si sa mai cosa fare, e che anche della vita non si sa cosa fare, e che ovviamente alla prossima cena in costume non sarebbe mancata. E altre cose ancora.



martedì 5 agosto 2014

Jack Vance

La gente fa di tutto, va ovunque, si crede padrona del mondo e dispone come meglio vuole. Io davanti a tanta meschinità, me ne sarei già andato. Ma dato che mi tocca restare se anche provo a scrivere qualche recensione, che sia libro o autore, non si apre la terra, non finisce il mondo.
In un certo senso non cambia niente.

Spesso noto, confrontandomi con altri lettori, come generi quali fantasy e fantascienza siano, per così dire, considerati secondari, roba per ragazzi o poco più.
Noto anche che, spesso, chiunque si esprima in questi termini non ha la minima idea di cosa sta dicendo. Insomma, non ne ha mai letti o ha letto autori minori.
Probabilmente a trarre in inganno i più sono film e serie tv fantasy/fantascienza, quelli sì dedicati per lo più a un pubblico giovane o facilone.
In conseguenza di ciò se ne ha un'idea distorta o così pare.
Basta entrare in una libreria e vedrete i libri dei suddetti generi affiancati o poco lontani dal librone di Pimpa da colorare, o da altre amenità adolescenziali che mi riservo di non-nominare.
C'è poi da dire, e questa è una cosa che non capirò mai, che la maggior parte della produzione fantasy e SF di un certo rilievo è completamente bandita dall'editoria italiana, per cui inesplorabile, inarrivabile.
Si potrebbero astrarre diversi motivi per cui ciò accade, ma io credo di poterne individuare uno più forte degli altri: spalancare la mente è difficile, e non fa vendere.
Leggere un libro che affronta la contemporaneità, che sia questa l'oggi o 20 anni fa, o leggerne uno ambientato nella Londra del 19° secolo, implicano diversi atteggiamenti mentali, che però per quanto diversi sono già in parte sperimentati.
La contemporaneità so com'è, e lo sforzo di ricrearla seguendo la narrazione dell'autore risulterà poco o nullo. Così come ricreare scenari di una Londra remota, o anche di crociati in terra santa - insomma, di qualsiasi cronaca ambientata in una esperienza umana avvenuta -, comporterà il solo sforzo di ricordare il modo in cui intendiamo quella specifica realtà da noi già assimilata.
Anche il fantasy, bisogna dire, ha i suoi stereotipi. Certo, necessita di una rigorosissima fantasia, di una vivida immaginazione, di ferrea imposizione a creare con la mente quanto si legge. Ma una volta fatta l'abitudine con il genere, per quanto arcani siano gli stregoni, o innominabili le creature evocate, o fiabesche le città incantate, o tetre le guglie del palazzo tenebroso, ci si abitua. Mai del tutto, a dire il vero, nel senso che è sempre una sfida: ma ci si fa il callo. Il callo del lettore Fantasy.
Discorso diverso è per la SF, apparentemente senza limiti. E discorso diverso ancora per lui, il creatore di mondi, Jack Vance.

Jack Vance ti osserva per cercare il tuo punto debole


Jack Vance è morto nel 2013, a... 90 e tanti anni. Non importa sapere quanti ne avesse esattamente, e nanche sapere come o dove ha vissuto dato che questa non è una biografia. Basti sapere che era americano, fece la guerra, scrisse per molte riviste. Pubblicò decine di libri.
 Mi sono deciso a parlarne dopo averlo, per così dire, sufficientemente sondato, ed aver viaggiato nei mondi da lui creati; nelle civiltà da lui plasmate; nella follia delle sue rapsodie da musico pazzo; nell'analisi etnologica di culture lontane nel cosmo.

Ma com'è leggere la fantascienza?
O meglio: com'è leggere Jack Vance?
Grossomodo si tratta della stessa cosa, e anzi, leggere Jack Vance è, se possibile, il miglior modo di calarsi nella fantascienza e iniziare a intaccarne i segreti, proprio per la grossa stimolazione e la spinta ad aprire la mente che portano i suoi testi. Lungi da me dire che sia il migliore, dopotutto non sono ancora così addentro al genere per dirlo né mi immiserirei a fare delle mie opinioni un'oggettività universale.
Se non lo avete mai letto certo non riuscirò a farvi capire. Però posso provarci. E allo stesso modo si può capire tutto il filone della fantascienza.

Intanto la terra non c'è. Cioè, c'è, ma è così lontana da essere divenuta una leggenda, un mito, una Thule dimenticata o una Avalon perduta nelle nebbie cosmiche. O a volte c'è. Dipende.
Poi, di solito, abbiamo un pianeta. Ma non solo uno, centinaia, migliaia, praticamente li abbiamo tutti. I suoi racconti/romanzi sono farciti di cronache estratte o resoconti storici e sociologici che analizzano la complessità di questa o di quella civiltà; informazioni che magari torneranno utili molti capitoli dopo, o lo sarebbero state diversi capitoli prima.
Quindi immaginatevi usi e costumi del tutto diversi da quelli umani, ma con gli umani. Infatti il di qua (lo spazio legiferato) e il di là (lo spazio oltre, senza legge), per dove si trova quella particolare realtà,  sono colonizzati da umani, o dalle evoluzioni della specie umana, così che avremo tante umanità diverse, tante specie indigene diverse, religioni, sette, ordini, sistemi, tecnologie, lingue, città, costumi, abitudini sessuali, crimini, fazioni, casate, sistemi, ammassi stellari e realtà tanto diverse e tanto distanti tra loro quante sono le possibilità universali.
All'inizio non sai da dove iniziare a capire cosa stai leggendo, sei spiazzato. Specie se non mastichi il genere.
Inoltre, a tutto ciò, va aggiunta una analisi razionale dei nuovi mondi che Vance crea partendo da veri riassunti socio-psicologici dei mondi stessi.
Insomma, è necessaria una vera dilatazione mentale, un parto di pensieri. Un'avida rete cerebrale per riuscire a incanalare tutti gli stimoli proposti e poterli assorbire e trasformare.
E non è facile. Perché bisogna astrarre, che è come darsi risposte. Bisogna inventare e costruire - nel senso di interpretare e adattare a se stessi -  assieme all'autore, che è come scrivere noi stessi. Bisogna intuire il mistero o plasmarlo con nomi arcani sparsi nel testo.
L'uomo di Vance guarda all'infinità cosmica in cui si proietta viaggiando tra i mondi, e per ciò ha disimparato a guardarsi dentro, o meglio: non è più ossessionato dalla propria introspezione, bensì è proiettato fisicamente e mentalmente verso gli orli esterni della mente e dell'universo. E come davanti a una incommensurabilità se ne distacca, così che i suoi personaggi paiano uno strano ibrido tra gnosi e fatalismo.


E poi c'è il senso del meraviglioso, ossia quel momento in cui, leggendo un testo di fantascienza, l'autore fa vibrare la corda dell'ignoto, e ciò che scrive ci turba e ci ossessiona; accade quando un nuovo concetto, un qualcosa di mai visto ci entra dentro, avviene quando ciò che stiamo immaginando ci appare lontano come le stelle oltre le stelle, e non lo comprendiamo a fondo ma ce ne facciamo un'idea nostra, e in quel momento qualcosa è cambiato per sempre.

In Vance tutto ciò non manca, e devo dire che, anche se in altri modi, George Martin, dichiaratamente ispirato da Vance, ha saputo espandere con i suoi racconti di fantascienza la sua esperienza, cioè quella in cui un uomo si trova, più o meno solo, contro l'universo e i suoi eventi. Distaccato e lontano da tutto e da sé stesso.

Tornando alla lettura di Vance, è difficile indicare un libro da cui iniziare, e perché la sua è un'opera vasta e perché di difficile reperibilità (si parla solo o quasi di usato). Ma anche perché, in un certo senso, i suoi protagonisti sono sempre lo stesso inafferrabile uomo, immerso nell'assurdità delle cose. I bellissimi cicli di Durdane e Tschai, le antologie di racconti, ecc ecc.
A volerne proprio dire uno, però, direi La terra morente.



lunedì 4 agosto 2014

Della vita e della Morte



Oggi, come sempre, si nasce e si muore.
Quando nasciamo, quando piangendo veniamo al mondo, i nostri genitori e i parenti tutti, e anche gli amici, sono felici, ridono e vogliono vedere il bambino. Si fa una gran festa, si fanno tanti progetti, poi si mette il bimbo nella culla, lo si circonda di giochini e per lungo tempo ancora si sta allegri. Perché?
Perché il bambino è nato, è emerso alla vita, quindi vivrà!
Quello stesso bambino non sarà amato da tutti, su questo non possiamo mentire. La nostra è una società individualista, competitiva in tutti i suoi aspetti; è soprattutto una società incattivita, per cui il bimbo sarà solo il figlio dei suoi genitori, laddove fino a 20 anni fa aveva ancora attorno delle costruzioni sociali a proteggerlo.
Darà fastidio, sarà un problema. Infine qualcuno sarà stanco di lui, perché questo è un mondo che si stanca di tutto, ma crescerà - indipendentemente che la natura lo voglia o no -, e diverrà grande.
Invecchiando il suo rapporto con gli altri cambierà, e tuttavia il suo diritto alla vita non verrà mai meno.
Nel crescere chiamerà il suo adattarsi alle regole e alle regoline della nostra civiltà "maturare", finché dopo qualche anno di un po' di questo, e un po' di quello, morirà, e nel morire quella stessa cerchia di persone che lo aveva salutato con gioia alla nascita, cerchia cambiata nel corso degli anni, piangerà il suo aver lasciato la vita.

Io non ho mai accettato questo schema esistenziale né mai lo farò. Ma voglio spiegarmi meglio.
Infatti chi lo ha detto che le cose stanno così? Qualche religione istupidita dal sole, la scuola, le tv: chi lo ha deciso insomma?
Io penso sia un po' come il tempo: il tempo, lo sappiamo, non esiste, esistono però i suoi effetti, che altro non sono se non la trasformazione della materia nello spazio, che noi percepiamo come tempo che scorre, e lo vediamo, mentalmente, su di una retta che va dal passato al futuro remoto e sulla quale si imprimono gli eventi.
Una visione tipicamente cristiana per un tempo che va sempre avanti fino alla fine del mondo. Ma è stupido, no?
Ed è senz'altro limitato e rassicurante. Senza curve nel tempo o sentieri che trascendono l'eternità: una linea dritta con le date. Molto più semplice e facile da accettare.

Così la vita, com'è presentata al'inizio del post, viene descritta in un modo errato e fuorviante.

Perché la nascita non è affatto il miracolo che porta alla vita o l'inizio di un percorso voluto: veniamo strappati al nulla per diventare qualcosa, e nel momento stesso in cui ciò avviene noi iniziamo a fuggire.
Da cosa? Ma dall'esser nati, fuggiamo l'orrore che ci ha emerso alla vita, e nel fuggire cadiamo nel tempo, fino alla morte che abbiamo inseguito come l'unica cosa in grado di cancellare l'orrore dell'essere nati, e morendo rimettiamo questo orrendo peccato al cosmo.
E le cose in natura stanno così:
Quando si nasce, le madri piangono. I padri nell'altra stanza si disperano. E una vecchietta imbacuccata, che fa il giro di tutte le case, passa da chi è appena nato, e piange anche lei, e tocca la creaturina e le dice "povero piccolo caduto nella vita", e anche il bambino piange perché la vita è dolore.
E così un altro figlio dell'uomo è nato, e l'uomo di questo si dispera e si chiede: ci sarà mai una fine?
Poi, vivendo, non si teme la morte, perché vivere fa così male e c'è così tanta fame e malattia che morire non può in alcun modo essere temuto. E cos'è la vita stessa se non un qualcosa che, al contrario del graal cristiano, va perduta, distrutta, simbolo di tutte le disfatte, stendardo che tutto passa senza essere mai passato. E anche quando si è vecchi - che disgrazia invecchiare! -, e se qualcuno ci viene a dire che abbiamo fatto il nostro tempo, noi si deve annuire e abbassare gli occhi. Perché è vero!
E allo stesso modo si attende la morte, e quando finalmente questa arriva tutti sono felici, e per primo chi sta morendo. Perché la morte è la fine di tutte le cose, e le cose sono orribili.
Le madri deformano e i vecchi imbiancano. I padri si curvano e i figli scappano.
La vita è un lutto terribile spazzato dai venti, e noi siamo scintille disperse nel buio.

Niente vale, eppure viviamo lo stesso.
Ed è proprio nel percepire il disastro che continuamente avviene, continuando però a illuderci e ad agire nel mondo, che noi, che almeno io, come un uomo sorpreso a soddisfare un vizio, provo un brivido di lussuria verso l'inutilità delle mie azioni, che nella loro incompiutezza mi sono care e pietose allo stesso tempo.
E nella vita mi giustifico dicendo; è cosa da poco, come tutte le cose basse, non chieste, come ogni regalo non voluto; è cosa da poco.
O anche: mi perderò forse il gusto di fare una cosa inutile?
O altre cose ancora...



sabato 2 agosto 2014

Rosannesimo e altre marchigianità



Mi stavo giusto chiedendo come si crea una religione che funzioni, sarà difficile?
Certo formare un testo sacro da interpretare e a cui attingere non è cosa facile, ci vorrà un bel po' di impegno, e chissà quanta saggezza è necessaria, una qualche forma di saggezza che sta oltre le cose.
Per non parlare dell'importanza che svolge l'insegnamento empirico, anch'essa da calcolare. È  tutto diverso se insegnato di persona.
Beh sì, conosco qualche testo sacro, ne ho letti diversi, con dietro una religione organizzata o con dietro niente. Scriverli, s'intende, non deve essere davvero così difficile. Ma no, basta un po' di fantasia, di psicologia umana. Certo però farne uno che sia davvero applicabile è ben altra cosa.

Ad esempio io conosco una signora, sulla 70ina, molto pratica e conservatrice, pochi denti e una mente tutt'altro che stimolata. Lei, la signora, non la si può definire una luce che illumina, ma dice poche cose e sempre quelle, giaculatorie pratiche imparate con gli anni.
E così mi sono chiesto, forse che quanto dice Rosanna potrebbe mai diventare una religione?
Analizziamo cosa dice, essa dice, tutto in marchigiano e qualcosa tradurrò, innanzitutto, che:

 "De questi ce n'è pochi", riferendosi ai soldi, mentre sfrega pollice e indice colle mani all'altezza del seno leggermente avanzate. Di solito è l'incipit di ogni discussione, e stabilisce che la vita è misera.
Poi prosegue, avvisando tutti di una verità universale indiscutibile, "Posso sta a cucinà tutte le sere"?, ossia, posso cucinare tutte le sere?
Si domanda questo per rispondere alle nostre domande, che come Dio vuole iniziano chiedendo cosa mangerà. Lei appunto, con ciò, intende domandarsi: è possibile o no cucinare ogni giorno?
Ed ella ci spiega che non lo è col suo dittico  immortale, che ora trascrivo e poi spiegherò.

"Posso sta a cucinà tutte le sere?
C'ho la trippa, la cocio una volta, poi la congelo
alla sera la scaldo, ce pozzo lo pà e magno"

Dopodiché ripete il dittico "Posso sta a cucinà tutte le sere?"
E ancora: "staco da per me sola, io me 'ccontento de tutto"
Che noi chiediamo: "Come?"
E lei risponde: "Accuscindra!" (così)

Ecco ora lei ci dice con queste sue parole che il cibo, ossia la vita, si cuoce solo una volta, poi questa passa durante gli anni del dolore, il congelamento, e una volta purificata può essere accolta nel cuore di Rosanna tramite la cottura divina; dopodiché lei impozza, immerge il sacro pane nell'anima, e la divora. E ogni "accuscindra" è la danza intorno al fuoco di un servo del male.
Dopotutto tutti gli Dei sono, in una certa misura, antropofagi.

Poi Rosanna ci dice ancora, nei momenti in cui l'anima è calma:

"Non ce sta più niè"
E ancora
"Non è più gné come una volta"

E cioè dice, Non c'è più niente. Non è più niente come una volta.

E in ciò ricorda la mutevolezza dell'essere, e i cambiamenti a cui la vita ci sottopone. E in quei momenti la sua saggezza dilaga, tanto che poi aggiunge, se le si chiede di sedersi:

"Ah io no, a me non me piace ste cose", riguardo al sedersi. E riguardo alla televisione dice:

"Io no la piccio mai", lei non la accende mai, e ancora, "mica è più come na orta che c'era li firm belli co tutte le cose ammodo, adesso non ce sta più niè", dice, scrollando la testa.

Nei lavori pratici, in giardino come in casa, ci insegna la superstizione. I vasi non vanno mai spostati in certi strani giorni, e chi fa male a un gatto gli viene la malora. Riguardo alle piante, Rosanna, camminando con le mani conserte e sospinta da un alone di serenità, ci dice: "quessa caccia, quessa no", questa viene fuori e questa no. Infatti lei conosce tutto ciò che caccia e tutto ciò che no.
Poi nutre i gatti, e in queste mansioni quotidiane altri due dittici si imprimono nella mente, che lei ha composto per ammonire i mortali: "loro magna e io fatico", rivolto ai gatti, e "chi devo ammazzà per glì in galera?"
Il primo, Loro mangiano e io lavoro, evoca le suggestioni di un Dio buono, la seconda Chi devo uccidere per andare in galera? rappresenta lo spirito malvagio che tocca il cuore dell'uomo.

Poi, quando si ritira, saluta tutti e buonanotte. Un bel bicchiere di vino, facciamo due e torna ancora, proprio prima di andare a letto; e allora il suo viso rosso ride della vita e della morte, e ciò che lei dice è questo: "quand'ero frica non c'era gnè, se magnava solo a natale a pasqua e a san marò. Però tutti era contenti e le persone per strada cantava. Oggi cemo tutto e la gliente non se sa più che vole"
E dicendolo ci ricorda di quand'era piccola e non c'era niente, e si mangiava solo a natale, a pasqua e per il santo del luogo, però tutti erano contenti e cantavano per strada. Oggi abbiamo tutto, ma la gente non sa cosa vuole.
Ed ecco che con queste parole Rosanna ci mette in guardia dal mondo moderno e dalle sue illusioni.
E poi davvero, nonostante si creda cristiana, Rosanna compie i suoi riti animistico-pagani e va a letto.
Dormirà come sempre fino alle 11, e nelle lunghe mattinate a letto penserà al da farsi nel nuovo giorno, ad altri dittici inestricabili e a cosa deve mangiare o a cosa deve scaldare.

Ecco, ora io dico, non è una religione altrettanto valida del cristianesimo, questa?
A quanto pare per buttare giù un testo sacro non ci vuole poi molto.